«Un progetto che guarda alla crescita del Paese»

 

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«L’apertura delle università italiane agli studenti stranieri deve essere un “progetto Paese” che coinvolge molti attori, dall’università all’impresa, e si attua su piani diversi: non bisogna pensare nella solita chiave solo normativa, anche perché, negli anni, di regole e regolette ne abbiamo scritte fin troppe».

L’internazionalizzazione degli atenei occupa un posto di prima fila nell’agenda del ministro dell’Università Francesco Profumo, e traduce in un’ottica più ampia una strategia già portata avanti quando il suo ufficio era al rettorato del Politecnico di Torino.

Ministro, partiamo dai dati più “concreti”: quali sono gli obiettivi, i tempi e le strategie per raggiungerli?

Il problema, noto, è quello di aumentare la presenza nelle nostre università di studenti che provengano dai grandi Paesi non solo europei. L’obiettivo, però, non è solo “statistico”: parlo di “progetto Paese” perché studenti cresciuti in contesti più internazionali sono importanti per le imprese sotto un duplice profilo: i laureati stranieri che possono arrivare all’impresa dopo aver già assorbito la cultura italiana, e quelli italiani già abituati a un contesto internazionale. Uno sviluppo di questo tipo serve a tutti.

Il piano normativo non è l’unico su cui operare, ma oggi le regole sull’immigrazione alzano ostacoli rilevanti a processi di questo tipo. Pensate di intervenire?

Sì, perché l’internazionalizzazione è un investimento, economico e organizzativo, ma poi il Paese ne deve raccogliere i frutti. Se portiamo studenti stranieri alla laurea e al dottorato, dobbiamo fare in modo che poi possano lavorare nelle nostre imprese, altrimenti l’intero progetto cade sull’aspetto più importante. Da questo punto di vista non occorre inventare nulla: basta trasferire anche in Italia le migliori prassi internazionali, per consentire alle imprese di lavorare con persone qualificate e individuate in modo selettivo.

Sul fronte della selezione, occorre poi rivedere l’intero meccanismo organizzativo. Qual è il primo problema da risolvere? 

Bisogna eliminare il disallineamento con il calendario internazionale, che è guidato dai tempi anglosassoni. Chi decide di studiare all’estero, in genere comincia a informarsi un paio di anni prima, e poi presenta domande in più Paesi perché ovviamente non sa dove riuscirà a superare le selezioni. Il mondo anglosassone apre la stagione della selezione nell’autunno dell’anno accademico precedente a quello del corso vero e proprio, e la chiude a gennaio. Noi, che facciamo tutti i test nel settembre dello stesso anno in cui inizia il corso, rischiamo quindi di rivolgerci solo agli studenti che hanno provato senza successo test in altri Paesi. Occorre anticipare tutto il processo, per essere in linea con gli altri.

È già stato fatto qualcosa da questo punto di vista?
L’anno scorso è stata proposta una prima sperimentazione a Londra con i test di medicina, e ha avuto riscontri molto incoraggianti. Abbiamo poi stretto un accordo con Cambridge Assesment per la fornitura di test internazionali di valutazione, i cui risultati possono essere utilizzati dallo studente che li supera anche per le selezioni negli atenei italiani. L’idea, che dovrebbe andare a regime nel 2013 dopo la sperimentazione, è quella di fornire questi test nelle capitali dei principali Paesi, tramite le nostre ambasciate e consolati, due o tre volte all’anno per le aree a numero aperto, e di allineare il calendario anche per quelle a numero chiuso.

Ma il mondo accademico, a partire dai rettori, è pronto ad accompagnare queste novità o si rischiano resistenze e atteggiamenti conservatori?

Cominciamo col dire che non partiamo proprio da zero, perché per esempio già quest’anno i corsi tenuti in inglese da università italiane hanno superato il centinaio. Casi come il Politecnico di Milano, che ha deciso di tenere in inglese tutte le lauree magistrali e i dottorati dal 2014, indicano che l’attenzione è alta. Bisogna poi ragionare in termini di processo, perché la presenza di una quota crescente di studenti internazionali in alcuni atenei responsabilizza i docenti, li fa lavorare in un contesto più ricco e crea rapporti fra docenti di diversi Paesi. Un’evoluzione del genere spinge anche gli altri atenei a seguire percorsi simili, in un circolo virtuoso che si fonda sulla reputazione ma non solo.

Cambiamenti organizzativi di questo tipo impongono agli atenei di programmare interventi ad ampio raggio, ma i rettori sottolineano sempre l’impossibilità di fare vera programmazione perché le risorse statali arrivano sempre più tardi, ad anno ormai quasi finito. Si riuscirà a superare il problema?

Stiamo lavorando parallelamente sulle università e sugli enti di ricerca, e quest’anno dovremmo essere pronti ad assegnare i fondi entro la fine di marzo.

Sulla distribuzione «meritocratica» delle risorse si spingerà più che in passato?

Il 2012 è un anno di transizione, e non ci saranno forti cambiamenti. Dal 2013 però avremo i primi risultati delle valutazioni Anvur e li utilizzeremo.«Un “progetto Paese” che coinvolge molti attori, dall’università all’impresa, e si attua su piani diversi». Così il ministro dell’Università, Francesco Profumo, definisce l’ambizioso piano di apertura degli atenei italiani agli studenti stranieri. 

 

Gianni Trovati, Il sole 24 Ore, 20 febbraio 2012

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