Semplificazioni, burocrazie efficienti, meno enti più sussidiarietà
Le pubbliche amministrazioni in Italia sono spesso percepite come un fastidio, un peso, un onere burocratico che frena lo sviluppo delle imprese ed è fonte di disparità ed ingiustizie per i cittadini. A ciò si aggiunge la confusione tra gestione amministrativa e funzione politica che genera “costi di transazione” non sempre leciti.
La Corte dei Conti stima in sessanta miliardi l’anno i danni della corruzione, studi dell’Università Bocconi in circa duecento miliardi i costi del “non fare”.
Naturalmente questi dati sono approssimativi e talvolta fuorvianti.
Le pubbliche amministrazioni sono un elemento centrale e decisivo nello Stato di diritto, ove il potere è diviso e non può essere concentrato nel dominio totalitario della legge, e la loro qualità ed efficienza costituiscono fattori essenziali della crescita economica e della coesione sociale intesa come garanzia di diritti e di pari opportunità.
Per questo riteniamo necessaria una Pubblica Amministrazione più liberale, sussidiaria, partecipata, efficiente, informatizzata, meno costosa, con standard nazionali unitari, con meno enti e costi.
Si può osservare che l’Italia, di cui è storicamente nota la debole identità civica, esprime un modello di P.A. ibrido rispetto alla tradizione anglosassone (di common law) e a quella francese-continentale di diritto amministrativo, con elementi di entrambi i modelli.
È necessario fare un passo in avanti migliorando identità e performance.
Occorrono politiche ragionevoli di semplificazione in cinque direzioni:
-
semplificazione degli enti;
-
semplificazione normativa;
-
semplificazione delle procedure;
-
liberalizzazione dei servizi locali in forma imprenditoriale;
-
semplificazione informatica (e-government).
Proponiamo una visione ampia perché il rischio della demagogia in materia è assai elevato.
L’intera storia nazionale, da Zanardelli ai nostri giorni, è costellata da tentativi di semplificazione della nostra pubblica amministrazione. Negli ultimi decenni gli sforzi sono stati ripetuti e persino ossessivi e dovrebbe apparire paradossale, nell’epoca della complessità, l’asserita passione per la semplificazione: quasi un rifiuto del proprio status, una ribellione concettuale ed esistenziale, una pulsione regressiva verso lo stato di natura come se il «fanciullo» di Rousseau non incontrasse anche lui, nella foresta, «lacci e lacciuoli».
Tuttavia la retorica «semplificazionista» è fortissima: non vale per la finanza, ove è impossibile capire qualcosa, né per le scienze, le tecnologie e le professioni, sempre più sofisticate, e neppure per la giustizia o la politica, a molti incomprensibile, ma deve valere per le pubbliche amministrazioni, causa di tutti problemi. È una retorica così forte, non solo nel nord del Paese, che è più «semplice» arrendersi ad essa.
Nel primo Novecento il movimento artistico Bauhaus sentenziò: “less is more”. Seguì però il ritorno della complessità e il confronto tra le due tendenze è ancora vivo. Anche il “pensiero debole”, che ha avuto qualche fortuna nello scorso decennio in vari campi, appare declinante.
Gli studiosi americani che per primi hanno affermato, e praticato, la deregulation sostengono ora che un eccesso di semplificazione ridonda in complicazione.
Occorre dunque trovare un punto di equilibrio.
1. La semplificazione degli enti doveva attuarsi con la “Carta delle Autonomie”, ora all’esame del Senato. Avevamo chiesto prima questa riforma poi il federalismo fiscale.
Della “Carta delle Autonomie” condividiamo lo spirito, forse non tutto il testo.
Un certo federalismo caotico ha acuito la “giungla amministrativa”, occorre invece ridurre il modello government (con la sovrapposizione di enti e funzioni) e rendere il modello governance più efficace, ad esempio attraverso conferenze stabili per accordi di programma e intese, su base volontaria e negoziale, ma con tempi decisionali certi e sanzioni in caso di inadempimento.
Siamo inoltre favorevoli al superamento delle province come enti autonomi in favore del coordinamento tra comuni delle funzioni di area vasta.
Nelle linee programmatiche del governo Monti si prospetta un’azione in due tempi sulle province: la prima, con legge ordinaria, per alleggerire funzioni e costi; la seconda, con legge costituzionale, per il superamento o abrogazione delle province.
Sul secondo tema insistono diverse proposte di legge e il disegno del precedente governo; sul primo aspetto, più urgente, sarebbe utile una proposta comune.
Siamo inoltre favorevoli all’accorpamento dei comuni minori per garantire soprattutto l’esercizio in forma associata dei servizi senza penalizzare inutilmente le rappresentanze locali.
Una soluzione normativa, come noto, è stata adottata con l’art. 16 del D.L. 13 agosto 2011, n. 138, intitolato “riduzione dei costi relativi alla rappresentanza politica dei comuni e razionalizzazione dell’esercizio delle funzioni comunali”.
E’ un testo già operativo, che richiede una complessa attuazione. Si tratta di sostenerne l’implementazione o valutare eventuali modifiche.
2. Nulla è stato più complesso della semplificazione normativa attuata negli ultimi anni.
L’obiettivo di andare verso una sorta di banca ufficiale delle leggi e testi unici è certamente condivisibile, ma la qualità della legislazione, in particolare con le recenti manovre finanziarie, è andata in direzione opposta.
Occorre non solo una riduzione quantitativa delle norme ma soprattutto una riduzione qualitativa, mirata, puntuale.
In particolare nel settore urbanistico ambientale sarebbe utile intervenire con ragionevolezza, abrogando le numerose leggi succedutesi nel tempo e approvando i principi fondamentali della materia.
Occorre, in sostanza, una legislation review che, partendo dalle materie a densità normativa e amministrativa più complessa, delegifichi, semplifichi, riduca gli oneri, in specie attraverso una legislazione di principi, nel quadro dell’attuale art. 117 Cost.
Nell’ambito di una necessaria coesione nazionale, e nel rispetto delle autonomie, è opportuno esplorare meglio la via dei principi fondamentali e unitari della legislazione.
3. La semplificazione delle procedure amministrative sembra un’Araba Fenice.
Poiché dopo decine di leggi di semplificazione siamo sempre al punto di partenza, occorrerebbe quindi riflettere meglio su come intervenire. Il precedente Governo ha proposto la riforma costituzionale dell’articolo 41 ma il problema è diverso e riguarda il rapporto tra legge e pubbliche amministrazioni. Con la legge n. 241 del 1990, dopo un intenso dibattito in dottrina, si è pervenuti a fissare i princìpi generali per tutte le amministrazioni pubbliche. Disciplina dei termini, responsabilità, trasparenza e partecipazione, semplificazioni organizzative, autocertificazioni, moduli negoziali: princìpi chiari e uguali per tutte le amministrazioni pubbliche. Una logica moderna, che ha creato vantaggi concreti ed efficienza, un passo in avanti significativo. Anziché migliaia di procedimenti diversi, uno per ciascun settore (scuola, ambiente, commercio, sanità eccetera), princìpi comuni, per una cultura nuova e comune al servizio dei cittadini e delle imprese. Ma ecco che, anziché andare avanti su questa strada, si è deciso di sabotarla e poi di abbandonarla, di tornare al passato, al procedimento «fai da te», in nome del federalismo e della politica che prevale sull’amministrazione professionale, dell’insofferenza nei confronti dei princìpi di legge. Un po’ per volta la legge n. 241 del 1990 è stata depotenziata e aggirata, da ultimo anche dalla riforma Brunetta che l’ha annegata nel mare magnum di una carta dei doveri delle pubbliche amministrazioni.
Si dovrebbe invece attuare di più e meglio quella riforma, non abbandonarla.
Ad esempio, occorre stabilire il termine massimo di sessanta giorni (per i certificati il problema ora non si pone) per il rilascio di autorizzazioni, permessi, o atti, anche a contenuto discrezionale, per tutte le pubbliche amministrazioni, comunali, regionali, statali. E, in caso di inadempimento, consentire l’avvio delle attività tramite atti di «autoamministrazione», certificando la conformità e il rispetto di leggi e atti amministrativi. Se la pubblica amministrazione è reticente o troppo lenta, la responsabilità passa al privato, con attestazioni professionali della correttezza del proprio agire, ovunque, in tutta Italia, nei Ministeri come nei piccoli comuni. Ecco una riforma audace, un «taglia-termini» vero, una nuova responsabilità civile e sociale, che rispetta i princìpi dello Stato di diritto e che deve valere in tutto il Paese. Ma per questa semplificazione occorre mantenere e rafforzare una legge di princìpi nazionali, unitaria, che garantisca ovunque cittadini e imprese. Tutto il contrario del caos federalista, dell’amministrazione «fai da te», dei «lacci e dei lacciuoli» creati dalle caste politiche locali, che moltiplicano gli oneri, le norme, i costi e le disuguaglianze.
Naturalmente quanto rilevato vale come indirizzo per una politica legislativa di semplificazione amministrativa, alla ricerca dell’efficienza e integrata dalla sussidiarietà orizzontale con responsabilità professionale (vedi le modifiche agli articoli 97 e 118 della Costituzione).
A livello di principio costituzionale, non sarebbe opportuna una tale disciplina di dettaglio mentre è certamente utile e doveroso affermare il «principio di semplificazione amministrativa» come valore guida.
Su questi temi occorre ora considerare le innovazioni introdotte con la legge 12 novembre 2011, n. 183, cd. legge di stabilità che, con l’art. 14, estende all’intero territorio nazionale la disciplina delle zone a burocrazia zero.
In particolare, i commi 1-4 estendono sperimentalmente a tutto il territorio nazionale – sino al 31 dicembre 2013 – la disciplina delle “zone a burocrazia zero” che sono state oggetto di previsione da parte dell’articolo 43 del decreto legge n. 78 del 2010, come convertito dalla legge n. 122.
Quel decreto-legge ha autorizzato la costituzione di “zone a burocrazia zero” nel Mezzogiorno. La realizzazione di tali zone avviene in aree “non soggette a vincolo”. La loro istituzione è disposta con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri (su proposta del Ministro dell’economia e delle finanze, di concerto con il Ministro dell’interno).
La semplificazione amministrativa, in tali zone, è data dal fatto che i provvedimenti conclusivi dei procedimenti amministrativi di qualsiasi natura ed oggetto (ma rimangono esclusi quelli di natura tributaria,di pubblica sicurezza e di incolumità pubblica), se avviati su istanza di parte, si intendono senz’altro positivamente adottati entro 30 giorni dall’avvio del procedimento (ove un provvedimento espresso non sia adottato entro tale termine).
Tali provvedimenti sono adottati in via esclusiva – secondo il decreto-legge n. 78 del 2010 – da un Commissario di Governo (chiamato a provvedere, ove necessario, previe apposite conferenze di servizi, ai sensi della legge n. 241 del 1990). L’adozione dei provvedimenti conclusivi di procedimenti amministrativi avviati d’ufficio spetta del pari al Commissario (al quale affluiscono dati e documenti dell’amministrazione competente).
Tali previsioni sono state modificate, giacché la competenza esclusiva circa l’emanazione dei provvedimenti amministrativi viene ora attribuita ad un “Ufficio Locale dei Governi”, presieduto da prefetto ed istituito (su richiesta della Regione) in ciascun capoluogo di provincia con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, senza maggiori oneri di finanza pubblica. Si prevede che l’ufficio locale del Governo è presieduto dal prefetto e composto da un rappresentante della regione, da un rappresentante della provincia e da un rappresentante del comune interessato. Esso delibera all’unanimità.
E’ ribadito che sono esclusi dall’applicazione della “burocrazia zero” i (soli) provvedimenti di natura tributaria o concernenti la tutela della salute o la sicurezza pubblica. Sono escluse altresì “le nuove iniziative produttive avviate su aree soggette a vincolo”.
Si tratta ora di implementare questo nuovo sistema ma sorgono dei dubbi. Siamo certi che “tutti i procedimenti ad iniziativa di parte” possano essere decisi in questo modo?
E’ sostenibile, è ragionevole, un tale generale “commissariamento” delle pubbliche amministrazioni locali? Non è più sufficiente semplificare “per principi generali” anziché tramite commissari locali? E’ un tema su cui occorre riflettere e fornire risposte.
3.1. Il disegno di legge costituzionale del precedente Governo propone, al primo comma dell’articolo 97 della Costituzione novellato, una nuova formulazione secondo cui «le pubbliche funzioni sono al servizio delle libertà dei cittadini e del bene comune». È una visione che condividiamo perché tende ad affermare la funzione «servente» delle pubbliche amministrazioni, rispetto alla società («libertà» e «bene comune»), e non una concezione autocratica del potere pubblico. Tuttavia riteniamo che tale affermazione di principio debba essere meglio completata con l’esplicitazione del «rispetto dei diritti e dei doveri», posti a fondamento dei princìpi della parte prima della Costituzione. Non solo la libertà dell’individuo, ma la libertà responsabile della persona, fatta di diritti e di doveri nelle relazioni sociali, secondo la pregnante concezione affermata nella Carta costituzionale e nell’umanesimo cristiano.
Così pure riteniamo utile evidenziare, tra i princìpi di efficienza, efficacia, semplicità e trasparenza dell’agire amministrativo, anche i princìpi di «legalità» e di «partecipazione». In effetti il principio di legalità è innegabile poiché è fondamento dello Stato di diritto e della superiorità della legge sull’amministrazione. Ma anche il principio di partecipazione all’attività amministrativa discrezionale si è ormai affermato nella legislazione nazionale ed europea (vedi encuesta previa in Spagna, enquête publique in Francia, public inquiry ed examination in public nel Regno Unito, partecipazione al procedimento amministrativo in Germania) come strumento di democrazia amministrativa, di prevenzione dei conflitti e di migliore efficienza dell’istruttoria amministrativa.
Naturalmente il principio è regolato dalla legge allo scopo di garantirne la certezza dei tempi e di evitare il «sovraccarico di manifestazione di interessi», secondo un’espressione in uso nella dottrina giuspubblicistica.
A nostro avviso, in un’opera di revisione dell’articolo 97 della Costituzione, non deve mancare l’affermazione del principio di «distinzione tra politica e amministrazione». In effetti tale principio si è affermato e consolidato nella legislazione degli anni novanta, con governi diversi, e costituisce un valore coessenziale e complementare a quello d’imparzialità della pubblica amministrazione, ribadito anche nel disegno di legge costituzionale del precedente Governo.
Avvertiamo la necessità di far emergere con più nettezza la distinzione delle funzioni che appartengono all’amministrazione professionale che deve essere sviluppata (compiti di gestione amministrativa, tecnica e finanziaria), rispetto alle funzioni di indirizzo, di programmazione e di controllo dei risultati, che appartengono ai funzionari politici o elettivi.
Il principio, secondo cui «agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso pubblico, salvi i casi stabiliti dalla legge» deve essere integrato, a nostro avviso, sotto due profili: il principio deve essere esteso anche «alle nomine negli enti pubblici» a garanzia della concorrenza, del merito e dell’efficienza; e l’esclusione del concorso pubblico deve essere ristretta a casi «eccezionali» stabiliti dalla legge. C’è stato, come noto, un abuso della deroga, che deve essere limitata, poiché il concorso pubblico, che ben può svolgersi in forme moderne ed efficienti, deve davvero costituire la regola se si vuole premiare il merito ed evitare le ricorrenti sanatorie o le forme clientelari di assunzione che penalizzano in genere i più giovani.
L’articolo 118 della Costituzione, in materia di sussidiarietà orizzontale, è oggetto di una limitata modifica nel disegno di legge costituzionale del precedente Governo che specifica che lo Stato, le regioni, le città metropolitane, le province e i comuni non soltanto «favoriscono», ma «garantiscono (…) l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà». A questa formulazione finale riteniamo necessario apportare la seguente modifica inserendo l’espressione «sulla base dei princìpi di sussidiarietà, di concorrenza e di merito».
La materia, anche per le sue implicazioni culturali, merita un approfondimento.
3.2. Noi siamo favorevoli al principio di sussidiarietà orizzontale e perciò vorremmo curarne una corretta accezione.
Com’è noto, il principio di sussidiarietà si è affermato nella letteratura giuridica contemporanea in specie con la promulgazione del Trattato di Maastricht (articolo 3B), ma esso non è ignoto, soprattutto nella sua accezione «orizzontale», anche in passato in autori come Humboldt e Tosato (G. Humboldt, Saggio sui limiti dell’attività dello Stato, traduzione italiana, Roma, 1965; E. Tosato, Sul principio di sussidiarietà dell’intervento statale, in Nuova Antologia, 1959). Esso poi è ben presente nella dottrina della Chiesa cattolica, per cui si può ricordare l’enciclica Quadragesimo anno, pubblicata da Pio XI il 15 maggio 1931, ove si legge: «Deve tuttavia restare saldo il principio importantissimo nella filosofia sociale che siccome è illecito togliere agli individui ciò che essi possono compiere con le forze e con l’industria propria per affidarlo alla comunità, così è ingiusto rimettere ad una maggiore e più alta società quello che dalle minori e inferiori comunità si può fare. Ed è questo insieme un grave danno ed uno sconvolgimento del retto ordine della società, perché l’oggetto naturale di qualsiasi intervento della società stessa, è quello di aiutare in maniera suppletiva le membra del corpo sociale, non già distruggerle o assorbirle».
Nella enciclica Centesimus Annus, il Papa Giovanni Paolo II affermò che una società, un’organizzazione o un’istituzione di ordine superiore a un’altra, non deve interferire nell’attività di quest’ultima, a essa inferiore, limitandola nelle sue competenze, «ma deve piuttosto sostenerla in caso di necessità, ed aiutarla a coordinare la sua azione con quella delle altre componenti sociali, in vista del bene comune».
Il principio di sussidiarietà e altresì presente nel movimento sindacale, ad esempio nella Carta del lavoro del 1927, dichiarazione IX, ove si afferma che «l’intervento dello Stato nella produzione economica ha luogo soltanto quando manchi o sia insufficiente l’iniziativa privata o quando siano in gioco interessi politici dello Stato. Tale intervento può assumere la forma del controllo, dell’incoraggiamento e della gestione diretta».
Tali matrici culturali sono peraltro esplicitate nella relazione di accompagnamento della proposta di legge (atto Camera n. 5017 del 24 giugno 1998, XIII legislatura), con cui è stato introdotto nella Costituzione il principio di sussidiarietà, ove si legge che «il principio di sussidiarietà è un incontro tra due culture, quella cattolica e quella liberale, ma solo ampliando il suo ambito, fin qui prettamente territoriale e dunque verticale, si potrà garantire una reale autonomia della società civile. Esso recepisce, contenendole in sé, le istanze federaliste, ma allarga il suo campo di applicazione: il federalismo è sussidiarietà applicata al rapporto fra gli enti locali, ma il concetto di sussidiarietà cui si ispira la presente proposta di legge costituzionale va oltre, andando a regolare anche quei rapporti e quei livelli di autogoverno non territoriale. Dove la libera iniziativa economica è in grado affrontare un problema lo Stato deve astenersi dall’intervenire: dobbiamo dare spazio alla libera auto-organizzazione della società, in modo da togliere agli interventi coattivi dello Stato sempre più spazio».
Anche la dottrina si è incaricata di sottolineare, tramite autorevoli voci, che la sussidiarietà (orizzontale), come valore di fondo dell’ordinamento democratico, è comunque connessa a una «visione del mondo» basata sul primato giuridico della libertà e della società civile nei confronti dell’autorità, presupposto di un assetto dei rapporti tra potere pubblico e gruppo sociale fondato sulla logica dell’integrazione: rectius, la funzione del principio di sussidiarietà è proprio quella della tutela degli interessi sociali, economici e morali degli individui e degli enti privati, nonché delle formazioni sociali, attuata mediante un procedimento di astensione dell’intervento statale, al fine di consentire una piena libertà di iniziativa e di sviluppo delle forze individuali e sociali dotate di autonomia.
Tutto ciò premesso, occorre a nostro avviso favorire la crescita del principio di sussidiarietà orizzontale non attraverso un’apodittica «garanzia» offerta dai poteri pubblici come si afferma, in modo invero contraddittorio con la sostanza del principio, nel disegno di legge costituzionale del precedente Governo, ma attraverso politiche di promozione nel contesto contemporaneo dei mercati dei servizi alla persona, che coinvolgono i settori fondamentali delle organizzazioni del no-profit e del volontariato.
La comunità non deve prevalere sulla società, come è già pericolosamente avvenuto nella storia, ma integrarsi a essa nella ricerca del bene comune e dell’interesse generale.
Per tali ragioni riteniamo opportuno aggiungere al principio di sussidiarietà il rispetto dei «princìpi di concorrenza e di merito» perché è solo in questa dimensione che esso può affermarsi utilmente, superando le logiche asfittiche dell’assistenzialismo e del clientelismo implicite in una «sussidiarietà senza mercato».
Le motivazioni etiche devono e possono tornare a essere elemento centrale del lavoro e della propensione al bene comune, non per mero tornaconto, ma per una più alta consapevolezza dell’agire umano, in grado di dare risposte attuali a bisogni inevasi nell’orizzonte del welfare pluralism.
Riteniamo inoltre utile esplicitare, nell’articolo 118 della Costituzione, un principio che si è già molto affermato nel campo della semplificazione amministrativa e della responsabilità crescente delle professioni, chiamate a esercitare funzioni certative in sostituzione delle pubbliche amministrazioni.
Basti pensare alle dichiarazioni di inizio attività, che sostituiscono i permessi edilizi, alle quotazioni societarie e a molte e diverse attività in cui i professionisti agiscono in luogo delle pubbliche amministrazioni, in funzione sussidiaria di esse, garantendo il rispetto delle leggi e delle regole tecniche.
Questo fenomeno, integrativo o sostitutivo delle funzioni pubbliche, attraverso certificazioni professionali responsabili, costituisce un modello dinamico di grande rilievo nell’economia della conoscenza, che avvicina la società ai pubblici poteri e offre garanzie spesso di maggiori qualità e snellezza.
4. Sulla semplificazione della gestione dei servizi pubblici locali è stato detto e scritto molto e vi sono diverse proposte di legge. Circa seimila società pubbliche locali sono comunque troppe e non sono solo esigenze di cassa che spingono verso una riforma del settore.
Riteniamo necessario ribadire il principio secondo cui i servizi pubblici che si svolgono in forma imprenditoriale devono essere affidati al mercato, secondo criteri di concorrenza, mentre agli enti locali spetta la funzione pubblica di regolazione (programmazione, bandi di gara, contratti di servizio) e di controllo, soprattutto della qualità delle prestazioni.
Non è necessario mantenere il capitale pubblico, ossia dei cittadini, in attività imprenditoriali e non è utile deprimere la concorrenza attraverso affidamenti in house.
Occorrono liberalizzazioni per garantire più efficienza del mercato e servizi meno costosi per imprese e famiglie. Ed occorre più qualità della regolazione pubblica e meno presenza politica nelle società pubbliche.
Naturalmente è necessario procedere a liberalizzazioni e privatizzazioni con ragionevolezza, senza svendite di valori pubblici, e salvaguardando esperienze di “campioni” di società pubbliche locali che si sono affermate con successo nel mercato.
Il tema è compreso nell’agenda del governo Monti e sollecitato dall’Unione Europea. Non sfugge la complessità politica, in specie dopo il referendum sui “servizi idrici”. Ma, almeno, sui principi, è necessaria una visione comune e una comune volontà politica nel sostegno al percorso delle liberalizzazioni
5. Una delle semplificazioni più rilevanti riguarda le riforme e i linguaggi attraverso l’informatizzazione della P.A. e la diffusione di e-government. È questa una delle principali modernizzazioni del Paese.
L’indagine della Commissione Affari Costituzionali della Camera dei Deputati sullo stato dell’informatizzazione delle pubbliche amministrazioni nel nostro Paese ha consentito di ricostruire in modo puntuale e analitico il quadro normativo e organizzativo di riferimento, mettendo in luce i passi avanti compiuti e i nodi che ancora restano da sciogliere.
L’indagine ha messo in evidenza tutte le difficoltà legate alla concreta attuazione di questa prospettiva così avanzata, facendo emergere gli ostacoli che si frappongono alla realizzazione di una pubblica amministrazione veramente moderna ed in sintonia con i bisogni dei cittadini.
Da un lato è emersa la carenza di una normativa secondaria di carattere tecnico che traduca in concreto i principi posti a livello generale.
Per altro verso, è stato evidenziato come le strutture amministrative mostrino in alcuni casi una notevole lentezza ad adeguarsi ai nuovi principi, per motivi legati in parte al mancato funzionamento pratico dei meccanismi di coordinamento, in parte alle difficoltà nella gestione delle risorse, in parte a carenze di natura tecnica. Il quadro complessivo testimonia più in generale una difficoltà progettuale delle strutture amministrative, che contrasta con i nuovi moduli di un’amministrazione snella, rapida ed efficace, capace di sostenere e rilanciare il sistema-Paese ed al servizio dei cittadini.
L’informatizzazione dei processi di per sé non porta necessariamente ad una modernizzazione dei servizi offerti. Perché l’uso delle tecnologie informatiche si traduca in un aumento dell’efficienza della pubblica amministrazione occorre che esso sia supportato da una capacità progettuale da parte delle amministrazioni. L’informatica è al servizio dell’attività amministrativa e solo sulla base di una razionale, accurata e consapevole attività di snellimento, di semplificazione e di adattamento dei procedimenti amministrativi alle nuove esigenze di celerità e di trasparenza nell’offerta dei servizi pubblici essa può dare frutti maturi.
L’informatizzazione non può servire di per sé a risolvere i problemi dell’azione amministrativa. Solo una amministrazione di qualità può consentire al processo di informatizzazione di tradursi in formidabile spinta per lo sviluppo del Paese. Anche l’analisi sul rapporto tra pubbliche amministrazioni e mercato dell’ICT conferma questo dato. C’è un problema rappresentato dal sistema delle gare pubbliche, c’è un problema relativo alla posizione debole della pubblica amministrazione come contraente, c’è un problema rappresentato dalla frammentazione e dalla inadeguatezza qualitativa della domanda che viene dalle pubbliche amministrazioni, la quale non sfrutta appieno le potenzialità di innovazione insite nelle tecnologie informatiche.
Quel che sembra mancare è dunque un cambio di mentalità da parte della pubblica amministrazione, necessario per rimanere al passo con l’evoluzione tecnologica e le nuove frontiere che essa apre. Su questo aspetto occorre puntare maggiormente sulla formazione all’interno delle pubbliche amministrazioni. Allo stesso tempo, per far attecchire l’offerta di servizi in rete per i cittadini, è necessario che si diffonda nella società una adeguata alfabetizzazione informatica. Il costo dell’ignoranza informatica è stimato in 2 miliardi di euro annui con riferimento al solo settore sanitario.
Per quanto riguarda il profilo delle risorse disponibili per portare avanti l’obiettivo dell’informatizzazione delle nostre strutture pubbliche, è necessario riflettere su alcune componenti quantitative e qualitative della spesa.
Sul piano quantitativo, da un confronto con gli altri paesi europei, emerge che la spesa pro capite per l’ICT da parte della pubblica amministrazione del nostro Paese risulta inferiore a quella della maggior parte dei Paesi europei. In una rilevazione fornita dal CNIPA che ha interessato 16 paesi dell’Unione europea, l’Italia occupa il dodicesimo posto, con una spesa pro-capite di 51,3 euro annui, a fronte dei 254,8 euro della Svezia, cui spetta il primo posto, dei 147,5 euro del Regno Unito, degli 86 euro della Francia e dei 72,3 euro della Germania.
Sul piano qualitativo, si registra un peso eccessivo della quota di spesa destinata alla gestione ed alla manutenzione dei sistemi informativi rispetto a quella destinata allo sviluppo e agli investimenti.
Su tutti questi temi occorre intervenire con decisione spendendo di più e meglio per allargare l’offerta dei servizi in rete a vantaggio di cittadini e imprese.