Dopo oltre un anno di tumulti e rivolte, la Siria continua ad essere travolta dalla violenza. Nel corso degli ultimi sei mesi, il regime di Bashar al-Assad ha intensificato sempre più la repressione, e neppure i tentativi di mediazione tra l’autunno e l’inverno della Lega Araba prima e, più recentemente, dell’inviato dell’ONU, Kofi Annan, sono sembrati in grado di sortire effetti positivi e risolutivi.
Gli attori di quella che appare chiaramente come una guerra civile si sono definiti. L’opposizione, spesso divisa, si è comunque dotata di un organismo politico, il Consiglio Nazionale Siriano, divenuto il primo interlocutore dell’Occidente, e di un braccio armato, il Free Siryan Army. Mentre nessuno dei due contendenti è disposto a retrocedere, i contesti regionale ed internazionale concorrono ad intricare il quadro.
La Siria è l’ennesimo terreno di scontro tra il fronte sunnita guidato dall’Arabia Saudita e dal Qatar e l’eterogeneo asse sciita Damasco-Hezbollah-Teheran. La tenuta o la caduta del regime di Assad potrebbe quindi rappresentare l’ago della bilancia per l’influenza sul futuro del Medio Oriente. Ma non solo, poiché la questione travalica i confini della regione ed arriva fino al Palazzo di Vetro delle Nazioni Unite a New York.
Al Consiglio di Sicurezza, infatti, i cinque paesi aventi diritto di veto sono ancora alle prese con un aspro confronto diplomatico. I tentativi di Francia, Stati Uniti e Gran Bretagna per una risoluzione di condanna del regime hanno per ora incontrato l’opposizione di Russia e Cina, che hanno posto il proprio veto in difesa della sovranità siriana. È una divisione che riflette interessi e strategie divergenti, ed ardua appare una sua ricomposizione. Questa situazione di evidente stallo a livello sia interno che esterno sembra allontanare ogni rapida soluzione della crisi.
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