Se la medicina dimentica il senso ultimo della vita, diventa peggio della malattia. La lezione dei classici. Non ha senso considerare Lucrezio solo un letterato, nei suoi versi c’ è la diagnosi del morbo di Alzheimer. La divisione dei saperi è solo una deriva moderna e letale
Tempo fa Dario Fertilio trattava di un convegno (a Torino e a Ivrea) in cui gli intervenuti si trovavano d’ accordo per superare la separazione tra cultura scientifica e cultura-cultura (umanistica, in specie la greco-latina).
Sarei d’ accordo anch’ io: le Due Culture sono immaginarie, la Conoscenza è una, e conoscere, dice Qohélet (1, 18) implica e incrementa il dolore; e il dolore ha bisogno di scienza e di filosofia per essere superato; dunque di un sapere unico.
Gli autori antichi, trattando di cose fisiche in vari De rerum naturae, sarebbero rimasti trasecolati a sentir parlare di Due Culture. Il loro scopo non era la cultura, parola che di vuoto ne contiene parecchio, ma la verità, e la verità è una e indivisibile.
Lucrezio fa un poema senza il mito, e il suo poema tutto fisico e astrofisico seduce come una musica, è un monumento di bellezza sonora che fa da lampada nel buio dell’ ignoranza – blocco di tenebra in cui nasciamo, viviamo e siamo. Lucrezio riteneva di fare scienza esponendo la dottrina di Epicuro per un fine di salvezza. Ma uno scienziato contemporaneo mi collocherebbe Lucrezio nel guardaroba della «cultura classica», altro fantasma da soffiare via se vogliamo restare veri. In un paio di versi del suo terzo libro (828-29) io leggo una diagnosi del morbo di Alzheimer che si può tradurre così: E mettici (tra i mali mentali) «le crisi di furore proprie del nostro animo e l’ oblio di tutte le cose, e aggiunga ancora che ci risucchiano le nere onde del coma (lo stato vegetativo: “lethargi”)».
Perché ci possa essere una sola cultura bisogna che questa sia inclusiva, autonoma, totalizzante. Se c’ è una linea moderna di demarcazione non deve essere accolta come un luogo comune. Unità sì, ma l’ orma è bifronte. C’ è una faccia d’ ombra. Stesso volto e due facce. Quella in ombra non è innocente: promuove talvolta il crimine, può farsi complice del male.
Dalle sue matematizzazioni pure (via Panisperna) è emerso il fungo di Alamogordo, poi quello terrificante di Hiroshima. Poco è mancato che un sommo fisico (Heisenberg) offrisse a Hitler l’ arma atomica. La medicina è tantalica, stenta ad afferrare i frutti della salute fisica, ma i piedi li ha tuffati nella morte. Verso il crimine le sue frontiere sono aperte e mobili; la sua totale dipendenza dall’ industria del farmaco raduna ombre su ombre.
I medici che in Germania prescrivevano la Talidomide, sapevano che cosa si facevano? Un illustre medico e docente, Edoardo Boncinelli, è da poco uscito con questo titolo perentorio: La scienza non ha bisogno di Dio. Non lo contesto, ma come filosofo so che l’ uomo ha bisogno di Dio, dalle nascite anteriori alle ulteriori apparenti morti, e che le mura intorno ai nostri passi sono quelle circolari dove si muovono in cerchio i detenuti di Newgate.
Le aperture di Darwin sono una meravigliosa e sterminata finestra e hanno accresciuto, ci direbbe Spinoza nel suo linguaggio ingannevolmente matematico, la conoscenza della «res extensa» di Dio. Darwin è un faro per Boncinelli: io mi arrischio a dire che Dio ha bisogno di Darwin, per rivelarsi nell’ orca e nell’ iguana, o nelle urla della scimmia umana senza principio.
Vediamo ancora. Il vecchio statista Ariel Sharon è in coma vegetativo dal 4 gennaio 2006. In Israele i medici, che io sappia, sono liberi di porre un termine a una simile fine-che-non ha fine. A quanto si dice, la famiglia, in mancanza di disposizioni dell’ infelice, non autorizzerebbe la Parca a tagliare il filo. La povera Eluana, da noi, rimase in tale stato per poco meno di diciotto anni. I casi non sono pochi, oggi, nel mondo. Se il coma si protrae oltre sei mesi, un anno, giuridicamente, e soprattutto, umanamente, lo status del paziente si tramuta in quello di vittima di un crimine. Se la scienza si fa guidare dalla possibilità tecnologica (dal puro potere tecnico amorale) è bomba di Hiroshima. Cor ultimum moriens: così sentenzia la scienza, ma l’ espianto a cuore battente è onnipotenza tecnica che ha volto di crimine.
Certo, casi simili non hanno bisogno di Dio, di un referente morale di tipo Ragione Pratica kantiana: ma allora chi c’ è che li ispira? Solo un Demiurgo malvagio, nemico della specie umana! Non va dimenticato che la cultura egemone, la tecno-scientifica, si origina da un immenso tesoro aureo di pensiero assassinato, e da lei divorato come la piccola Cappuccetto Rosso dei Grimm. Il suo fondamento è magico-alchemico e miracolistico, e prima o poi riemergerà dalla pancia del lupo. Se si vuole affrontarlo senza orripilazioni, questo è un bel tema da meditare e discutere – perché procedere da orbi decisi a restare tali è l’ alternativa.
Se l’ elemento unificatore di queste Due Culture è la memorizzazione informatica di tutto (c’ è da sospettarlo) siamo fuori dalla verità, perché scaricare virtualmente è riempire all’ infinito discariche reali e incineratori tossici, e dissocia la mente. Segnalo un’ ambiguità: è stato un bel punto per la verità la dimostrazione che la Sindone come immagine di Cristo morto è falsa (è molto più vero Mantegna!); nello stesso tempo la verità scoperta ha cancellato, o reso più accanito, il sogno, e senza il sogno la vita va in perdizione.
L’ elettronica filologica arriva a questo: ci informa di quante volte sono ripetute nella Bibbia le parole Bene e Male. Grazie tante. Mi dice qualcosa sul Bene? Mi dice qualcosa sul Male? Sapere quante volte il verbo «sfàgo» è ripetuto nei Tragici greci, sul tragico nella vicenda umana mi dice qualcosa? Ma se tocchiamo il tesoro intangibile della conoscenza greco-latina ci perdiamo con un piede sulle rotte del sogno, e con l’ altro sulle mulattiere senza discesa, di illimitata conquista e riscoperta, della verità speculativa. Un bene autentico è a prezzo di fatica.
Guido Ceronetti, Corriere della Sera