Gran parte parte dell’attuale dibattito politico sulla riforma del lavoro sembra focalizzarsi sul tema sbagliato. Quello della possibilità o meno di licenziare in tempi di crisi. L’esigenza di poter licenziare i lavoratori in esubero (la cosiddetta «flessibilità in uscita») è supportata da illustri economisti secondo cui la bassa crescita delle imprese italiane deriva dalla loro impossibilità di seguire i «cicli economici» licenziando durante le crisi e assumendo quando il mercato riprende.
A questi rispondono sindacati, sinistre e vescovi dicendo che «togliere l’articolo 18 in tempi di crisi è fortemente iniquo». L’altra iniquità di cui si inizia a parlare più recentemente è quella dell’apartheid (concetto creato da Pietro Ichino) tra i 9 milioni di lavoratori delle medie/grandi imprese e del settore pubblico protetti dall’articolo 18 e i 12 milioni di lavoratori di imprese sotto i 15 dipendenti con contratti a termine, partita Iva, ecc., oggi tra i meno protetti del mondo.
Ma il vero problema delle nostre regole del lavoro non è che limitano i licenziamenti in tempi di crisi: le medie grandi chiudono reparti e fabbriche e fanno licenziamenti collettivi da sempre (meglio della Francia) e quelle con meno di 15 dipendenti lo fanno meglio che in Usa.
Il problema è che questo apartheid, oltre a essere iniquo, limita molto la produttività (da almeno 10 anni, molto prima di questa crisi). Innanzitutto incentivando le imprese a restare piccole: l’articolo 18 non si applica sotto i 15 dipendenti e anche le piccole imprese con più di 15 dipendenti riescono a usare la flessibilità dei contratti atipici meglio delle grandi. E così tutto l’aumento di occupazione degli ultimi anni è avvenuto nelle micro-piccole imprese e ha depresso la produttività complessiva perché le piccole imprese non sono efficienti. Anche le grandi imprese hanno sfruttato la flessibilità dei contratti atipici perché hanno utilizzato massicciamente l’ outsourcing a piccole imprese più flessibili e in misura inferiore anche direttamente. Ma anche questo è costato in produttività perché non sono nate grandi imprese di servizio e le piccole imprese di servizio a cui esse si appoggiano competono sulla base del costo e non della tecnologia o produttività.
L’altra ragione per cui l’apartheid limita la produttività è che crea un enorme disincentivo alle imprese a premiare il merito di un lavoratore bravo e a penalizzare il demerito di uno meno bravo. Non un lavoratore assenteista o il cui posto di lavoro non esiste più. Semplicemente un lavoratore che lavora male e che nella società di servizi può fare gravi danni: trattando male un cliente a un call center o peccando di leggerezza in un pronto soccorso. I dipendenti protetti dall’articolo 18 non li puoi licenziare, quelli bravi non protetti (e tra i 12 milioni ce ne sono tanti) non li puoi premiare. Un lavoratore a partita Iva, che lavora solo per una azienda ed è più bravo di uno che è assunto a tempo indeterminato protetto dall’articolo 18, è fortemente penalizzato nella sua carriera.
La riforma Fornero ha tentato di ridurre l’iniquità dell’apartheid, ma è mancata sul fronte della produttività. Tenta di offrire un sussidio di disoccupazione ai precari, ma non si sa a quanti. Tenta anche di scoraggiare il precariato creando forti disincentivi (fiscali, lotta alle partite Iva monocliente, ecc.) al suo utilizzo, ma gli incentivi alle assunzioni con contratti regolari (come la riduzione del cuneo fiscale) sono pochi. Allo stesso tempo tenta di affrontare il tabù dell’art. 18 rendendo il reintegro del singolo lavoratore licenziato per «ragioni economiche» meno facile, ma a questo punto del dibattito politico, questa possibilità è tutt’altro che chiara. Sono quindi più che giustificate le previsioni di un notevole aumento del sommerso e una rinascita del «piccolo è bello perché può fare il nero».
Una riforma radicale per il lavoro deve avere l’obiettivo di ridurre l’apartheid aumentando simultaneamente la produttività e riducendo l’iniquità proteggendo tutti i lavoratori e non solo alcuni posti di lavoro. Ma è necessario riformare una volta per tutte il welfare familiare all’italiana che garantisce a tutti i costi il lavoro del capofamiglia, che a sua volta protegge figli precari e mogli che si occupano di case e anziani. La cassa integrazione è l’ammortizzatore sociale alla base di questo welfare ed è iniquo perché non protegge i lavoratori delle piccole imprese e inefficiente perché non incentiva a cercarsi un altro lavoro quando il posto di lavoro non c’è più (attende che «il ciclo riparta»). Il nostro welfare familiare consente anche di andare in pensione prima che ovunque in Europa, grazie alle pensioni di anzianità, solo parzialmente attaccate dalla prima riforma Fornero. Continueranno così per anni a sottrarre risorse per ammortizzatori sociali moderni del tipo «scandinavo»: per mandare in pensione a 58 anni un insegnante, non si può dare un sussidio decente ad un giovane precario che viene licenziato. E il loro costo spropositato continuerà a rendere il cuneo fiscale in Italia troppo alto per molto tempo e a disincentivare le assunzioni. Infine, riformare il welfare per proteggere il lavoratore e non il lavoro vuole anche dire modificare tutte le norme che regolano il lavoro, (compreso lo Statuto dei lavoratori) per poter licenziare per demerito e promuovere per merito: al contrario che nei Paesi più liberisti e/o con importanti ammortizzatori sociali, l’onere della prova della «giusta causa» di licenziamento individuale è a carico della impresa e non del lavoratore e un processo per «giusta causa» sembra un processo penale, in cui il lavoratore fa la parte dell’imputato e l’impresa quella dell’accusa. Infine è fondamentale una grande riforma per accorciare i tempi biblici della nostra giustizia civile senza la quale il welfare non è riformabile (come peraltro nessuna delle altre riforme per la crescita).
La speranza è che il dibattito che riprende in questi giorni si focalizzi su una «visione strategica» del nostro welfare per restituire produttività alle nostre imprese, invece che sul reintegro di lavoratori licenziati in tempi di crisi.
Roger Abravanel, Corriere della Sera