Consulenti a partita Iva sulla carta, ma nella realtà lavoratori dipendenti di serie b, senza tutele, senza contributi e copertura assicurativa. E’ un popolo sempre più numeroso quello delle false partite Iva. Si stima che siano almeno 400 mila le persone che svolgono attività assimilabili a quelle dei loro colleghi più stabili, ma alle aziende costano la metà di un lavoratore dipendente, e anche meno di un lavoratore a progetto. Risultato, le partite Iva non per scelta, ma per condizione posta dal datore di lavoro, dilagano. In tutti i settori e in tutte le aree geografiche del paese, dal nord alla Sicilia.
È la forma più diffusa di quella flessibilità malata che la riforma del lavoro targata Fornero cerca attraverso alcuni paletti di scoraggiare.
Se un rapporto di lavoro dura più di sei mesi nell’arco di un anno con un singolo committente, o se i soldi che si percepiscono dal datore di lavoro superano il 75% dei ricavi complessivi, allora non siamo di fronte a rapporti di collaborazione, ma a forme di lavoro dipendente. Questo dicono le nuove regole. Gli ispettori del lavoro dovranno vigilare, e le aziende fuori legge dovranno mettersi in regola.
Indagini condotte dall’Isfol e dall’Ires-Cgil sulle partite Iva fotografano questa diffusissima realtà di abuso, letteralmente dilagata durante la crisi. Nello studiare il lavoro atipico hanno trovano di tutto, bibliotecari con partite Iva, addetti alle buste paga con partita Iva, insegnanti sempre con partita Iva. Il 55% degli intervistati dall’Isfol ha dichiarato di lavorare per una sola società, e quasi il 20% del campione ha persino concordato un orario di lavoro per svolgere le proprie mansioni.
Con queste caratteristiche è chiaro che non siamo di fronte a liberi professionisti, a consulenti, a lavoratori autonomi, ma a precari per obbligo, per imposizione, che in ogni momento possono perdere il posto. Per lo più giovani, poco pagati, i veri paria del pianeta delle partite Iva. Un pianeta che in Italia assume dimensioni doppie se non triple rispetto a Francia, Germania e Gran Bretagna. Nel nostro paese sono 8 milioni e 800 mila. Secondo l’Agenzia delle Entrate ce ne sono però almeno 2 milioni di inattive, che entro il 31 marzo verranno chiuse come prevede il decreto Milleproroghe. Le partite Iva intestate alle persone fisiche sono 5 milioni e mezzo, che vuol dire quasi un quarto della popolazione attiva italiana. Più di un milione sono gli iscritti agli albi professionali, un esercito che comprende avvocati, architetti, giornalisti, pubblicitari, medici, consulenti aziendali, e via dicendo. Mentre gli autonomi delle professioni non regolamentate sono circa 3 milioni e mezzo. In un primo momento il governo aveva deciso che la riforma non riguardava gli iscritti agli Ordini, poi ha valutato invece di includerli, almeno stando al documento in circolazione.
Secondo il Codice civile il lavoro autonomo si contraddistingue per il fatto che l’attività è svolta senza vincoli di subordinazione nei confronti del committente, decidendo tempi, modi e mezzi necessari per il compimento dell’opera, nel rispetto ovviamente degli obiettivi concordati con l’azienda. Tutte caratteristiche che mancano alle partite Iva di nome, ma non di fatto, che non sono altro che lavoratori dipendenti senza ferie, riposi per malattia, con straordinari non pagati, e la possibilità di venire lasciati a casa da un giorno all’altro. Sul sito Networkers.it, il sociologo Patrizio De Nicola, spiega come si è arrivati a questa situazione. Nel ’96, quando anche gli autonomi sono stati per legge obbligati a versare contributi alla gestione separata dell’Inps, l’aliquota era del 10%, ma negli anni è arrivata al 27%. A quel punto le aziende che nei rapporti collaborazione dovevano accollarsene i due terzi, hanno cominciato a trasformare i co.co.co e i collaboratori a progetto in partite Iva, dove i contributi restano sulle spalle dei lavoratori. La riforma del lavoro del governo Monti, che sta per approdare al Senato, cerca di cambiare le cose.
Sul sito Networkers.it, il sociologo Patrizio De Nicola, spiega come si è arrivati a questa situazione. Nel ’96, quando anche gli autonomi sono stati per legge obbligati a versare contributi alla gestione separata dell’Inps, l’aliquota era del 10%, manegli anni è arrivata al 27%. Aquel punto le aziende che nei rapporti collaborazione dovevano accollarsene i due terzi, hanno cominciato a trasformare i co.co.co e i collaboratori a progetto in partite Iva, dove i contributi restano sulle spalle dei lavoratori. La riforma del lavoro del governo Monti cerca di cambiare le cose.