La catastrofe morale della Regione Lazio e l’evidenza del mangia-mangia diffuso nella maggioranza delle Regioni italiane è un lavacro salutare. E se i vecchi partiti – a cominciare ovviamente dal centrodestra che offre la galleria di comportamenti piu’ nauseanti, ma in realtà riguarda tutti, l’acquiescienza alla delibera del’ufficio di presidenza per la quale i denari dei gruppi andavano in tasca ai consiglieri procapite – credono ancora volta di uscirne con la recita dello scaricabarile, ebbene s’illudono.
Ci sono almeno tre questioni investite da questa colata di fango. La prima, ovviamente, è etica. La seconda, istituzionale. La terza, il rimedio alla seconda.
Della prima, c’ e’ solo una cosa da dire. Circa metà degli italiani continunano nei sondaggi a esprimere l’ incertezza non verso il voto alle prossime politiche, ma verso quale sia la scelta migliore per esprimere la loro più netta e decisa manifestazione di averne le tasche piene. Quando abbiamo scritto nel primo punto di “fermare il declino” che il ceto politico della seconda repubblica, con pochissime eccezioni, ha fallito realizzando una bancarotta finanziaria e morale, alcuni hann storto il muso pensando fosse un’espressione antipolitica. Al contrario, l’antipolitica sono er Batman e i suoi degni compari sugli scranni laziali, la Minetti che sfila e si tiene il vitalizio, i Lusi e i Belsito, e via continuando ogni giorno che Dio manda in terra. O cambia con regole ferree il meccanismo di selezione dei politici a ogni livello, oppure è difficile spiegare al cittadino medio che non deve scegliere la protesta più dura acosto anche che sia demagogica, senza star troppo a sottilizzare su programmi, euro e compatibilità economiche. Per il Pdl, di certo, è un altro campanone funebre. Ma non so dire né se qualcuno ne trarrà le conseguenze, né se del resto abbia un qualche senso ormai pensare di salvarsi l’anima, dopo aver taciuto o osservato compiaciuti per anni quanti figuranti e ribaldi assiepassero gli scranni.
C’ e’ poi la questione istituzionale, cioè il pingue caravanserraglio della spesa delle Regioni, un paio di centinaia di miliardi di euro l’anno. Non desidero generalizzare, ma grazie a quella schifezza che fu la riforma del Titolo V della Costituzione abbiamo avuto il trionfo del fai da te e di sprecopoli.
Finalmente oggi Bersani – la riforma la volle la sinistra – lo ammette oggi sul Messaggero, ma è tardi. Perché in Val d’Aosta ci deve essere un consigliere ogni 3.618 abitanti mentre in Lombardia uno ogni 122mila, per 19mila in Sardegna, per 30mila nell’Umbria, per 87mila in Emilia, e uno ogni 10.660 in Molise? Perché in Abruzzo sono saliti dai 40 consiglieri originari a 45, in Calabria da 40 a 50, nel Lazio da 60 a 71, in Puglia da 60 a 70, in Toscana da 50 a 55 ed erano arrivati anche a 65? Percheé al di là degli scandalosi vitalizi – per lo più corretti poco prima o poco dopo la riforma Fornero, ma a cominciare in media dal 2015, e che restano quasi sempre molto generosi rispetto ai contributi versati – nel più delle Regioni resta in vigore la regalia al cosigliere uscente dopo una sola legislatura, fino a un massimo di 39.499 euro in Basilicata, 56.580 in Calabria, 54 mila in Campania e Puglia, 46 mila in Sardegna e Sicilia? Ve lo ricordate che cosa avvenne quando nell’estate 2011 il governo ormai alla disperata e tardiva ricerca di risparmi provò a eliminare 333 degli oltre 1100 consiglieri? Undici Regioni si sono rivolte alla Corte Costituzionale, questo è avvenuto. Sulla base del famigerato Titolo V della Costituzione, dell’articolo 123 per il quale la Regione che attraverso il proprio statuto «determina… i principi fondamentali di organizzazione e funzionamento», e il 122 che attribuisce sempre alle Regioni il potere di stabilire il sistema di elezione.
Di qui la conclusione. Non basterà nemmeno una strage di politici ladri e di frusti simboli elettorali, nelle urne. Personalmente, sono per un nuovo referendum contro il finanziamento pubblico ai partiti. So che il primo è statop aggirato e ignorato dai partiti, ma proprio per questo serve un’altra spallata per aprire davvero a un sistema di autofinanziamento incentivato fiscalmente. Ma occorrerà poi rimettere mano con serietà a ciò che davvero si è rivelato il Titolo V della Carta fondamentale. Altro che primo passo verso il federalismo, ne sono derivati solo veti insuperabili locali su ogni politica che deve restare ferreamente nazionale – poche ma decisive , come quella energetica e delle infrastrutture – sommati al fai da te del magna-magna a ripetizione. E’ un andazzo che oscura i risultati di chi ha speso meglio. E che affama i Comuni, che bisogna invece rimettere al centro delle Autonomie e di un disegno organico di accorpamento massiccio, e di maggiore indipendenza di entrate rispetto a bisogni primari che devono affrontare secondo il principio di sussidiarietà.
C’e’ un ma, pero’, almeno per chi la pensa come me. Ci sono due modi per smontare il Titolo V. Il primo eè quello dello statalismo centralista, che vedo risorgere e che io combatterò sempre, tranne sulle due materie che ho citato. Il secondo è quello di un passo vero verso macroregioni che indirizzino di più, a fortissima autonomia e con modelli anche molto diversi tra loro, ma con un limite preciso: che gestiscano sempre meno.
Oscar Giannino, pubblicato dall’Istituto Bruno Leoni