Modernizzare le istituzioni

2.7. La riduzione delle province.

Gli articoli 20 e 26 della proposta di legge costituzionale modificano rispettivamente gli articoli 114 e 133 della Costituzione, sopprimendo le province con popolazione inferiore a 500.000 abitanti. Le modifiche costituzionali avanzate sembrano un buon punto di incontro tra le diverse proposte e impostazioni culturali.

Con esse: a) si conservano le province nella Costituzione ma ne viene molto ridotto il numero (ne sono soppresse 77), per via del limite dimensionale introdotto con riferimento alla popolazione; b) è affidata alla legge dello Stato la nuova disciplina delle funzioni, sulla base di una governance fondata sul coordinamento dei comuni. Ciò determina un effetto coerente con il proposito di alleggerire il multi level government all’italiana ma anche il riconoscimento, attraverso la legge ordinaria, di una trasformazione in senso funzionale (e non entificato) del governo di area vasta, sulla base del principio costituzionale di sussidiarietà (verticale).

Naturalmente anche questa proposta necessita di adattamenti e della contestuale istituzione delle Città Metropolitane.

2.8. Il principio di conciliazione tra politica e giustizia e l’art. 68 Costituzione.

Il conflitto tra politica e giustizia dilania da troppi anni la vita del Paese. tra giustizialismo e impunità noi siamo per una “terza via”: quella delle garanzie e del principio di conciliazione tra politica e giustizia, nel rispetto della leale collaborazione tra i poteri.

Personalmente sono contrario al ritorno dell’immunità parlamentare così come alle leggi e ai lodi ad personam, e le valutazioni e le proposte che seguono sono a titolo personale e non coinvolgono ufficialmente l’UDC. Occorre qualcosa di diverso, una soluzione più avanzata ed equilibrata, anche perché i “casi politici” non riguardano solo Berlusconi (si pensi alle vicende Mastella e Del Turco).

Naturalmente una soluzione di conciliazione necessita di condizioni politiche mature e condivise. Ogni strumentalizzazione sarebbe sterile e lontana dagli stessi intenti della proposta che qui si illustra.

È tornato di qualche attualità il dibattito sulla riforma dell’immunità parlamentare o, meglio, delle garanzie per i parlamentari, ai sensi dell’articolo 68 della Costituzione, nei confronti dell’esercizio dell’azione penale da parte della magistratura.

La questione, com’è noto, era già stata affrontata dal Parlamento con la riforma legislativa del 1993 (legge costituzionale 29 ottobre 1993, n. 3) che ha soppresso, in sostanza, l’autorizzazione a procedere, delineando il seguente regime di garanzie:

  1. insindacabilità delle opinioni espresse (intra moenia ed extra moenia) nell’esercizio della funzione parlamentare;

  2. libero esercizio dell’azione penale (ossia senza preventiva autorizzazione) da parte della magistratura nei confronti di parlamentari;

  3. obbligo di richiedere la preventiva autorizzazione alla Camera di appartenenza per l’applicazione di misure restrittive della libertà di particolare intensità e in particolare per gli arresti, fuori dai casi di flagranza di reato, per le perquisizioni e le intercettazioni telefoniche.

Si tratta, com’è agevole rilevare, di un regime normativo complesso ed equilibrato che tende a conciliare il principio costituzionale di eguaglianza dinanzi alla legge, che in uno Stato di diritto non ammette deroghe immotivate, con alcune specifiche guarentigie accordate ai parlamentari in ossequio a un’antica tradizione e alla concreta necessità di salvaguardare l’autonomia e la libertà del potere legislativo dinanzi a eventuali abusi da parte di altri poteri.

Sulla base dell’esperienza e della prassi attuativa, sono state avvertite, a riguardo, limitate esigenze di specificazione dell’impianto costituzionale per meglio precisare alcuni profili applicativi: per esempio, in materia di insindacabilità delle opinioni espresse dal parlamentare ci si interroga ormai frequentemente circa i casi in cui in concreto ricorra l’esercizio della funzione parlamentare e i casi in cui, invece, l’opinione lesiva di diritti altrui non può dirsi scriminata dall’insindacabilità.

E ancora, con riferimento al secondo comma dell’articolo 68 della Costituzione, ci si chiede talvolta se l’autorizzazione debba riguardare solo le restrizioni delle libertà personali classiche o non anche altre (ad esempio misure cautelari quali la sospensione dagli uffici).

Vi sono poi esigenze di natura procedurale: ad esempio, l’opportunità di regolamentare i tempi della pronuncia dell’insindacabilità per evitare, per intuibili ragioni di economia processuale, ma anche di depotenziamento del conflitto tra poteri, che tale pronuncia intervenga in una fase molto avanzata del processo (ad esempio dopo la condanna di primo grado o di appello). Ci si è chiesto poi, con riferimento alle cosiddette «intercettazioni indirette», nelle quali compaiano notizie derivanti da parlamentari non oggetto di intercettazione, quale debba essere la sorte di tali verbali.

Risposte parziali a tali quesiti sono state date con la legge n. 140 del 2003, attuativa dell’articolo 68 della Costituzione, e con la sentenza della Corte costituzionale n. 390 del 2007, in materia di piena utilizzazione delle cosiddette «intercettazioni indirette» nei confronti di non parlamentari.

Ma la stessa legge n. 140 del 2003, all’articolo 1, aveva previsto il cosiddetto «lodo» per le alte cariche dello Stato stabilendo che:

«1. Non possono essere sottoposti a processi penali, per qualsiasi reato anche riguardante fatti antecedenti l’assunzione della carica o della funzione, fino alla cessazione delle medesime: il Presidente della Repubblica, salvo quanto previsto dall’articolo 90 della Costituzione, il Presidente del Senato della Repubblica, il Presidente della Camera dei deputati, il Presidente del Consiglio dei ministri, salvo quanto previsto dall’articolo 96 della Costituzione, il Presidente della Corte costituzionale.

2. Dalla data di entrata in vigore della presente legge sono sospesi, nei confronti dei soggetti di cui al comma 1 e salvo quanto previsto dagli articoli 90 e 96 della Costituzione, i processi penali in corso in ogni fase, stato o grado, per qualsiasi reato anche riguardante fatti antecedenti l’assunzione della carica o della funzione, fino alla cessazione delle medesime.

3. Nelle ipotesi di cui ai commi precedenti si applicano le disposizioni dell’articolo 159 del codice penale».

Com’è noto la Corte costituzionale, con sentenza n. 24 del 2004, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 1, per violazione degli articoli 3 (principio di eguaglianza) e 24 (diritto di difesa) della Costituzione. Nell’occasione la Corte ha rilevato che «L’automatismo generalizzato della sospensione incide, menomandolo, sul diritto di difesa dell’imputato, al quale è posta l’alternativa tra continuare a svolgere l’alto incarico sotto il peso di un’imputazione che, in ipotesi, può concernere anche reati gravi e particolarmente infamanti, oppure dimettersi dalla carica ricoperta al fine di ottenere, con la continuazione del processo, l’accertamento giudiziale che egli può ritenere a sé favorevole, rinunciando al godimento di un diritto costituzionalmente garantito (articolo 51 Costituzione). Ed è appena il caso di osservare che, in considerazione dell’interesse generale sotteso alle questioni di legittimità costituzionale, è ininfluente l’atteggiamento difensivo assunto dall’imputato nella concretezza del giudizio».

A giudizio della Corte «sacrificato è altresì il diritto della parte civile la quale, anche ammessa la possibilità di trasferimento dell’azione in sede civile, deve soggiacere alla sospensione prevista dal comma 3 dell’articolo 75 del codice di procedura penale».

Sotto il profilo della natura «generale, automatica e di durata non determinata della sospensione» la Corte ha osservato che «all’effettività dell’esercizio della giurisdizione non sono indifferenti i tempi del processo. Ancor prima che fosse espressamente sancito in Costituzione il principio della sua ragionevole durata (articolo 111, secondo comma), questa Corte aveva ritenuto che una stasi del processo per un tempo indefinito e indeterminabile vulnerasse il diritto di azione e di difesa (sentenza n. 354 del 1996) e che la possibilità di reiterate sospensioni ledesse il bene costituzionale dell’efficienza del processo (sentenza n. 353 del 1996)».

È alla luce della giurisprudenza della Corte costituzionale che occorre considerare ogni nuova ipotesi di garanzia per le «alte cariche dello Stato» e per i parlamentari, ove la seconda ipotesi risulta largamente assorbente la prima.

In sostanza, secondo la Corte, la guarentigia non può essere automatica e non può essere a tempo indeterminato.

Ne discende altresì che essa debba essere posta con riforma di rango costituzionale, come conferma la più recente giurisprudenza costituzionale.

Ed è su tale tema che insiste la presente proposta di legge costituzionale alla luce di alcune necessarie considerazioni di natura politica.

In Italia la conflittualità tra potere politico e magistratura risulta tuttora altissima: ed è da questo conflitto che sorgono, in sede politica, le proposte di modifica dell’attuale sistema di garanzie.

In particolare si sostiene, da parte di alcune forze politiche, che l’esistenza di processi penali che vedono imputati esponenti dell’attuale maggioranza e lo stesso Presidente del Consiglio dei ministri determinerebbe un vulnus nell’assetto democratico del Paese, un tentativo di delegittimazione del voto liberamente espresso dal popolo; o peggio, si sostiene che l’esercizio dell’azione penale nei confronti di membri autorevoli del Parlamento e del Governo costituirebbe una sorta di «golpe» per via giudiziaria, un sovvertimento delle regole fondamentali della democrazia.

Da tali tesi nascono le proposte oggetto di dibattito nel periodo più recente: da quella della sospensione dell’azione penale per determinati reati a quella della reintroduzione dell’autorizzazione preventiva a procedere, a quella di nuove garanzie per le «alte cariche dello Stato».

Le proposte avanzate muovono tutte dalla asserita preoccupazione di esorcizzare il cosiddetto «golpe giudiziario» ossia il rischio che eventuali sentenze di condanna del Presidente del Consiglio dei ministri in carica e di altri esponenti di rilievo possano determinare un sovvertimento del risultato elettorale.

Una preoccupazione per il vero molto enfatizzata e non condivisibile atteso che in ogni Stato di diritto il potere politico non è irresponsabile nei confronti della legge e che comunque anche l’ipotesi eventuale di una condanna di primo grado del Presidente del Consiglio dei ministri non può e non deve causare alcuna conseguenza sul legittimo risultato elettorale, in presenza del principio costituzionale di non colpevolezza fino alla sentenza definitiva. Ciò nonostante il dibattito sulla riforma del cosiddetto «sistema delle immunità parlamentari» muove da questa preoccupazione, talvolta espressa in modo ossessivo.

Pur essendo convinti, come sostenuto, della sostanziale correttezza dell’attuale sistema delle garanzie delineato dall’articolo 68 della Costituzione, che merita attenzione ulteriore solo per talune questioni attuative, si ritiene utile, a titolo personale, avanzare una proposta di riforma dell’articolo 68 della Costituzione che tenga conto del dibattito in corso e della tesi, certamente non condivisa, secondo cui anche da un’eventuale condanna di primo grado del Presidente del Consiglio dei ministri in carica potrebbe derivare un vulnus per il governo e per la democrazia.

Il Paese è dilaniato da un conflitto istituzionale e politico ormai insostenibile. Risulta pertanto necessario un atto di pacificazione affermando il principio di conciliazione tra politica e giustizia.

L’articolo 7, modificando l’articolo 68 della Costituzione, si fa carico di tale preoccupazione e affida alla singola responsabilità del parlamentare, oggetto di azione penale, la richiesta al ramo del Parlamento di appartenenza, di sospensione dell’azione penale per l’intera legislatura corrente.

Dunque, coerentemente con il rilievo della Corte, non si tratta di una misura automatica potenzialmente lesiva del diritto di difesa.

La pronuncia della Camera, assunta con il criterio decisionale della maggioranza assoluta, determina la sospensione dell’azione penale e del processo, fatti salvi i termini di prescrizione, per l’intera legislatura in corso. Ne consegue che il processo riprenderà comunque al termine della legislatura anche in caso di rielezione.

Inoltre, il testo proposto presenta due ulteriori peculiarità: la sospensione può essere richiesta solo dopo il rinvio a giudizio, nell’intento di non determinare pregiudizio alla fase delle indagini; la sospensione può riguardare per «stralcio» la posizione del singolo parlamentare ma non impedisce che il processo prosegua per altri eventuali coimputati.

La norma costituzionale attualmente non prevede una tale rilevante differenziazione del regime processuale, pertanto si offre una soluzione equilibrata alle preoccupazioni innanzi richiamate di possibile «sovversione per via giudiziaria» del voto elettorale, ponendo al riparo dagli effetti processuali i parlamentari eletti e nel contempo garantendo che il processo possa comunque svolgersi senza compromettere in via definitiva le esigenze di giustizia.

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