Per la seconda volta ci sono state a Bengasi violente manifestazioni di protesta per blasfemie occidentali riguardanti il Profeta. Anni fa furono contro il consolato italiano per la maglietta satirica sul Profeta che l’allora ministro Calderoli provocatoriamente indossò e mostrò in pubblico.
Le manifestazioni dell’11 settembre scorso si riferiscono a un grossolano filmetto privato che è circolato in rete e la cui origine è meno chiara dei fumetti danesi da cui scaturì la manifestazione anti-italiana. Inoltre, la nuova manifestazione è stata un vero e proprio attacco militare contro il consolato americano, a seguito del quale ci sono state vittime fra cui l’ambasciatore degli Stati Uniti a Tripoli. Anche le manifestazioni anti-italiane furono estremamente violente, ma il regime di Gaddafi aveva delle forze di sicurezza che la Libia rivoluzionaria invece non ha, e che quindi non sono intervenute.
Cause e pretesti
L’attacco di Bengasi è stato preceduto da manifestazioni al Cairo nel corso delle quali l’ambasciata americana è stata attaccata e penetrata, anche se da azioni meno organizzate militarmente di quelle di Bengasi e senza conseguenze altrettanto micidiali. Mentre in Libia la sicurezza manca, al Cairo esiste ed era ben presente, ma ha platealmente mancato di intervenire in modo adeguato.
A Bengasi, infine, Al Qaida ha rivendicato l’attacco come vendetta per la recente uccisione di Al-Libi in Afghanistan, un alto leader dell’organizzazione di origine libica. In effetti, le circostanze dell’attacco e il suo carattere fanno ritenere che il filmetto blasfemo sia stato un pretesto. Ci si trova invece davanti ad un’azione politicamente più complessa, sicuramente condotta dai salafiti radicali libici, tanto più adirati in quanto, a differenza dei salafiti politici di Egitto, sono stati sonoramente battuti nelle elezioni dello scorso luglio.
I salafiti libici sono dei dichiarati jahadisti reduci dall’Afghanistan, raccolti nella città di Derna, Cirenaica orientale. Il legame con Al Qaida potrà essere più o meno strutturato dal punto di vista organizzativo, ma comunque esiste e si è manifestato.
Qual è il significato politico di questi dati? Come al solito la Libia resta un caso isolato e diverso dalle tendenze che attraversano il mondo arabo. Sebbene l’attacco di Bengasi sia ben più grave di quello del Cairo, le reazioni delle autorità libiche sono state per l’Occidente assai più tranquillizanti di quelle egiziane. C’è stato da parte libica sincero rammarico, mentre c’è stata evidente reticenza da parte egiziana. In realtà, se questi incidenti sono rapportati all’evoluzione regionale, è evidente che le preoccupazioni nascono dall’Egitto e dalla Tunisia più che dalla Libia.
Rischio deriva
Le ultime evoluzioni della “primavera araba” dicono che i regimi islamisti di centro che l’Occidente ha riconosciuto, legittimato e talvolta anche appoggiato, sono ora in difficoltà e rischiano di abbandonare la posizione mediana che hanno subito occupato come islamisti democratici a seguito delle rivoluzioni. In Tunisia, la coalizione di governo fra islamisti e non islamisti mostra segni di cedimento, e il partito islamista di maggioranza relativa è molto diviso fra coloro che vorrebbero continuare una politica di collaborazione al centro e mantenere lo stato come spazio secolare neutrale e coloro che vorrebbero un programma più francamente islamico.
In Egitto, i Fratelli musulmani hanno trovato fra i militari degli interlocutori che hanno consentito il defenestramento di Tantawi e del suo gruppo ormai chiaramente orientato in senso reazionario. Per ora non è possibile però sapere se i nuovi militari sono stati leali alla costituzione oppure saranno leali ai Fratelli musulmani, i quali potrebbero facilmente trasformarsi, dopo aver liquidato l’autoritarismo secolarista, in un regime autoritario islamista. In effetti, i Fratelli musulmani invece di essere parte del processo bilanciato immaginato all’inizio, in cui gli islamisti avevano il potere legislativo e il presidente era un non islamista, hanno ora tutto in mano.
La situazione è molto diversa nei due paesi, ma in entrambi i regimi islamisti nati centristi rischiano di evolvere verso posizioni estreme – in cui non avrebbe più nessun senso il loro progetto democratico – o perché non hanno trovato partner secolari adeguati o perché non riescono a resistere alle pressioni che vengono dalla più ampia platea di islamisti che spingono verso indirizzi fondamentalisti o jihadisti.
Dilemma occidentale
L’attacco di Bengasi e le manifestazioni del Cairo sono espressione di questa debolezza dei partiti islamisti centristi su cui l’Occidente ha puntato per un’evoluzione moderata e democratica della regione. Essi mettono gli Stati Uniti e gli europei (che in realtà non si sono spesi un granché sul piano politico) di fronte a un dilemma: impegnarsi ancora di più verso gli islamisti di centro per impedire la loro deriva, o cominciare a pensare che nel Medio Oriente stanno spuntando dei nuovi nemici?
Questo dilemma è particolarmente spinoso per il presidente degli Stati Uniti che ha mostrato in vario modo la volontà di ritirare gli Usa dalla regione su una posizione non interventista e collaborativa. Ma Obama si trova ora stretto fra il radicalismo israeliano e una possibile nuova ondata di antiamericanismo e radicalismo in Nord Africa, a appena due mesi dalle elezioni.
L’opinione pubblica degli Stati Uniti, inoltre, sarà inevitabilmente molto colpita dal vedere il loro paese preso nuovamente di mira da Al Qaida nell’anniversario delle Torri Gemelle. Già prima dell’uccisione di Bin Laden, la presidenza Obama aveva chiuso la guerra al terrorismo nei termini paranoici in cui l’aveva lanciata la presidenza Bush. Il terrorismo, tuttavia, non sembra ancora sconfitto.
Non si può, d’altra parte, non collegare questo sviluppo con quello dell’occupazione del Mali settentrionale da parte della coalizione fra il movimento islamista dei tuareg, Ansar el Din, e Al Qaida nel Maghreb. Non che ci sia un collegamento organico, ma c’è l’emergere di una prospettiva conflittuale e violenta che la politica di Obama doveva far declinare e che invece sembra indomabile. Tutto ciò mette certamente in imbarazzo Obama, anche se l’opinione pubblica americana desidera la pace e, almeno su questo punto, appoggia la sua rielezione.
Roberto Aliboni, consigliere scientifico dell’Istituto Affari Internazionali