La principale e apparente ragione per cui la crisi siriana è così lunga, travagliata e sanguinosa è che il paese è diviso tra etnie, religioni, gruppi di potere, interessi vecchi e nuovi, che hanno bisogno di un estenuante processo per scomporsi e, prima o poi, ricomporsi.
Perché nella recente, post-ottomana, storia della Siria, quello degli Assad è stato l’unico periodo di spietata stabilità, giunto dopo un turbinoso periodo di amministrazione francese, che ha volutamente accentuato le divisioni – in particolare il ruolo degli alawiti – e il caos postbellico, culminato in un vortice di colpi di stato tra il 1949 e il 1954.
Mappa etnico-religiosa
La rivolta contro Assad è durata così a lungo, e continuerà, perché non c’è intesa sul dopo. Aspetto paradossale per un paese povero, con poco petrolio. Basta fare un confronto tra la relativa rapidità della crisi libica e le estenuanti divisioni che continuano a lacerare la comunità internazionale sulla soluzione siriana . Ciò è dovuto alla particolare posizione del paese, incastonato tra realtà arabe e non arabe (Turchia, Israele), ma soprattutto con un tratto di costa sul Mediterraneo dove c’è il porto di Tartous, l’unica base navale russa fuori dal territorio dell’ex Urss
Il regime di Assad è l’ultimo baluardo della presenza russa nel Medio oriente arabo e Mosca fa di tutto per rifornirlo di armi e sostenerlo. Lo sforzo di trovare una soluzione in sede Onu è ormai in pratica cessato con le amare dimissioni dell’inviato speciale Kofi Annan.
I vicini arabi temono il caos siriano: il Libano ne risentire direttamente a causa dei legami tra Hezbollah e il regime di Assad, la Giordania perché è una monarchia strutturalmente fragile, l’Iraq perché ha i suoi problemi e non ne vuole altri. La Turchia, in cerca di rilancio nel mondo arabo, vede la guerra civile siriana come un masso nel già rissoso stagno mediorientale; Israele, che si concentrava sul nucleare dell’Iran, scopre con orrore che il regime di Assad, vecchio e irriducibile nemico con cui non si voleva nemmeno parlare di Golan, è pur sempre meglio di un guazzabuglio dove circolano armi chimiche che possono finire in chissà quali mani.
E anche la mappa etnico-religiosa del paese, complessa e antica, viene deformata dai profughi che fuggono dalle battaglie o dal terrore del regime, o che cercano sicurezza in zone etnicamente affini, come gli alawiti che affluiscono sulla costa. Chi fugge nei paesi vicini difficilmente tornerà nella zona di provenienza, nelle stesse condizioni. Se si somma alle perdite umane questa semplificazione forzata, la Siria di domani, comunque sia, sarà ben diversa, e non in termini positivi. Questo è già accaduto in Libano, paese che ha spesso anticipato o partecipato delle crisi siriane, e in Iraq.
Una cosa però è sicura: ogni minoranza ne sarà danneggiata, e la maggioranza sunnita pagherà il prezzo delle tensioni di tutti. Soprattutto gli alawiti, sciiti eclettici, che dal mandato francese al regime degli Assad, hanno avuto un ruolo privilegiato: il loro dramma attraversa anche i confini e coinvolge pesantemente quelli che sono in Turchia. Poi minoranze come i cristiani, sempre più impauriti in un Medio Oriente che ne vede ridursi la presenza. Curdi e drusi hanno la relativa fortuna di una localizzazione in regioni periferiche, ma la tensione lungo i confini danneggia anche loro e un nuovo assetto dei curdi siriani avrebbe ripercussioni nello stato che non c’è, coinvolgendo anche Turchia, Iran e il già reale Kurdistan iracheno. Minoranza assai particolare sono i palestinesi, ufficialmente neutrali ma ora anch’essi bombardati dal regime.
Ombre del Golfo
Nella crisi siriana arrivano inoltre, per aiutare i ribelli – elementi teoricamente innovatori e libertari – paesi ultraconservatori come l’Arabia Saudita. Assieme al Qatar fornisce armi agli insorti, ma in realtà copre un ruolo americano e soprattutto vuole che sparisca l’unico regime arabo amico dell’Iran. Argomento che andrebbe discusso con cura: qui basta sottolineare come il gioco dei sauditi, sulla carta a favore della maggioranza sunnita della Siria, in funzione anti-Assad, anti-sciita e quindi anti-Iran, è di estrema contraddizione.
La Siria, con o senza gli Assad, ha sempre avuto un Islam lontano dalle chiusure wahabite, e l’opposizione, dove già si sono infiltrate forze che vengono definite, più o meno accuratamente, vicine ad Al Qaeda (nota avversaria dei sauditi), è il terreno del tutti contro tutti. Si naviga a vista, tutto è imprevedibile, ogni mossa rischia di ritorcersi contro chi la compie.
L’Iran non vuole perdere l’unico regime arabo amico e voci insistenti parlano di migliaia di iraniani che combattono a sostegno di Assad, volontari o magari pellegrini, come quelli appena catturati dai ribelli.
È notevole invece l’assenza dell’Egitto, paese che con la Siria ha avuto complessi rapporti ma al momento molto preso dalla proprie questioni interne. Quando l’Egitto si riaffaccerà sulla scena regionale e internazionale sarà un bene per tutti.
Sul fronte militare, molte voci riferiscono di crisi dei rifornimenti per le forze di governo, ma finché i russi metteranno il regime in grado di far volare gli elicotteri da combattimento armati di missili e finché gli insorti non saranno in grado di abbatterli, Assad potrà perdere sul terreno ma mantenere la capacità di ritorsione sulla popolazione civile. In questi giorni si combatte per Aleppo, la capitale economica del paese, rimasta a lungo quasi indenne. Perdere Aleppo significa per Assad la fuga o l’arroccamento, e la battaglia per l’antica città, concordano tutti, sarà decisiva.
Libanizzazione
Ma appunto è il dopo Assad che angoscia. Un dittatore che non rappresenta solo una dinastia durata mezzo secolo, ma soprattutto un sistema di potere nato 60 anni fa, con il partito Baath, dove fasce sunnite si incrociano con i sostenitori alawiti o cristiani. Nato con ambizioni socialiste e transazionali, il Baath è poi divenuto poi macchina di potere di cui Bashar Assad, di cui oggi sembra il maggior prigioniero. Il che, certo, ne riduce le gravi responsabilità per il punto cui si è giunti.
Una perfetta rappresentazione del caos prossimo venturo, dopo la fine o quasi della guerra civile, viene dal ricordo di quel che è stato il Libano e soprattutto di quel che oggi è l’Iraq. Negli stessi giorni in cui si contavano centinaia di vittime in Siria, di più – e senza l’enfasi della prima pagina – se ne vedevano in Iraq, in dozzine di attentati. È impossibile che la Siria esca dalla guerra civile e trovi presto un assetto che assomigli alla pace, perché la catena delle vendette incrociate e la guerra diffusa continueranno a lungo, come in Iraq.
All’impossibile composizione degli interessi degli stati coinvolti, si sovrappone la impossibile definizione di una leadership siriana alternativa. Della cosiddetta opposizione, Aron Lund ha ricostruito una mappa (1) per l’Unione europea, da cui risultano protagonisti spesso fuoriusciti di lungo corso e assai divisi tra loro.
Ma fattore determinante è l’opposizione armata sul campo, che per le naturali dinamiche di una guerra civile ha metodi e aspettative ben diversi da quelli dei politici, nonché una composizione e un peso che cambia di battaglia in battaglia, assolutamente imprevedibile. Mentre i ribelli sul terreno accumulano perdite ma anche conquiste e sostegno, all’estero si tenta di creare una futura leadership, che unisca i tanti gruppi. I sauditi hanno da poco mandato in scena un giovane generale fuggito dalla Siria, Manaf Tlass, di famiglia sunnita a lungo sodale degli Assad. È però difficile che una persona con questo profilo abbia credibilità all’interno del paese, e la manovra saudita appare goffa e indice dell’estrema incertezza del momento.
La guerra civile siriana va quindi vista come un confronto regionale, del Medio Oriente asiatico e delle grandi potenze vecchie e nuove, Cina compresa, con imprevedibili ripercussioni di lungo periodo, ma che andranno oltre le varie crisi dal dopoguerra ad oggi, guerre di Israele e del Golfo comprese. E i siriani rischiano di pagarne il prezzo più alto.
Maria Grazia Enardu, affarinternazionali.it, ricercatrice di Storia delle Relazioni Internazionali e docente di Storia di Israele moderno, Facoltà di Scienze politiche, Firenze