2. Le critiche alla “casta”: esegesi parziale e letteratura
Il libro di Gian Antonio Stella e di Sergio Rizzo, intitolato “La Casta”7, sottotitolo “così i politici sono diventati intoccabili”, venti edizioni e oltre un milione di copie vendute in dieci mesi, è stato il fenomeno editoriale del 2007 (e oltre). Un libro “azzeccato” (per rubare il gergo a Di Pietro), scritto in modo brillante, che ha incontrato il sentimento di disagio diffuso tra i cittadini nei confronti della politica e lo ha a sua volta alimentato.
Non è certo un caso che, dopo alcuni mesi dall’uscita del libro, e dopo quotidiani dibattiti su di esso sulla stampa e nelle televisioni, sia stato convocato Vaffa-Day dal comico Beppe Grillo, comico ma non troppo.
Si farebbe un torto agli Autori, e ai molti lettori, se si tentasse una spiegazione superficiale delle ragioni del successo editoriale e molte chiavi di lettura sono state già offerte: da quelle più politiche sulla transizione incompiuta dalla Prima alla Seconda Repubblica, a quelle più sociologiche circa il qualunquismo italiano, da Giannini ai nostri giorni. Ma è difficile sottrarsi all’osservazione che balza agli occhi già solo dal confronto tra la dedica del libro ai figli (“nella speranza che crescano appassionandosi alla politica. Diversa, però”) e il titolo del primo capitolo “Un’oligarchia di insaziabili bramini. Da Toqueville a De Gregorio: la deriva della classe politica”, che è in realtà il leit-motif dell’intero libro.
In effetti il merito degli Autori, la chiave editoriale del successo, sta nell’aver individuato la risposta ai problemi, storici e complessi, della politica italiana. Un merito notevole, se non da Nobel almeno da Oscar della letteratura: le colpe della politica sono i politici. Una spiegazione semplice, comprensibile, per tutti. I politici immorali, senza etica pubblica, innamorati dei propri privilegi, i parlamentari in particolare, tutti, uniti dal vincolo di “casta”.
La ricerca dell’oggetto, dei mali e dei problemi che riguardano il funzionamento delle istituzioni e il sistema politico, la lentezza e l’inefficienza delle decisioni, l’eccesso di frammentazione partitica, i costi esagerati e gli sprechi, le condotte riprovevoli dei singoli, l’eccesso di società pubbliche, il bipolarismo e il bicameralismo imperfetti, tutto viene di colpo reso secondario e irrilevante da una risposta spiazzante: è il soggetto, non l’oggetto, il problema; sono i politici i responsabili di tutto, è “l’oligarchia degli insaziabili bramini”. Insomma è un problema di status, si può credere nella politica ma non nei politici. E’ il teorema della politica senza i politici, un po’ come la nutella senza burro e l’amore senza pene.
È quella visione della politica che spaventa D’Alema, ma anche Andreotti, perché fatta dai media, dai loro padroni e dai poteri forti, ove al posto dei cittadini e degli (imperfetti) strumenti della democrazia vi sono “l’opinione pubblica” e la “gente”.
Eppure, tra imprecisioni e provocazioni e scontando lucidamente il rischio del qualunquismo, il libro di Stella e Rizzo ha denunciato efficacemente molte degenerazioni della società e della politica italiana: dagli eccessivi costi delle istituzioni pubbliche e parlamentari8, alle perversioni del sistema di finanziamento dei partiti, dalle società pubbliche trasformate in comodi rifugi per politici trombati o in carriera, alle comunità montane all’altezza del mare.
Quando si torna all’oggetto, alla denuncia delle molte cose che occorre cambiare, il libro diventa una fonte ricca e documentata che sfida la “casta”, e che sembra offrire una via di appello alla condanna apparentemente definitiva contenuta nel titolo. Perché, è chiaro, qualche umano dovrà necessariamente occuparsi di affrontare quelle realtà degenerate, di cambiarle per il bene dell’Italia e della democrazia, ad ogni costo, anche a costo di farsi “casta”. Magari una “casta” più sobria, più efficiente, più “eticamente sensibile”.
D’altronde il rapporto rapsodico tra soggetto (il politico) e oggetto (i problemi della politica), ove il primo è indicato già nel titolo come colpevole e dunque artefice dei mali che si denunciano (almeno per omissione, “non poteva non sapere”), sta diventando quasi una linea editoriale del momento.
Il libro di Antonello Caporale, dal titolo “Gli impuniti”9 si muove sulla stessa scia e , se vogliamo, con ancora maggiore chiarezza.
Il ragionamento è il seguente: “è un tratto caratteristico del nostro Paese. Gli uomini passano, le colpe restano e non c’è mai nessuno che se ne assuma la responsabilità. Non si sa bene chi debba o possa rimediare agli errori, alle mancanze, agli scempi. Dirigenti scellerati si dimettono da consigli di amministrazione dietro pagamento di liquidazioni milionarie; politici si lasciano alle spalle bilanci disastrati, enti prossimi al fallimento, per rifarsi una verginità con un nuovo incarico, che nulla sa del precedente. Incarico nuovo, vita nuova e reputazione tirata a lucido.
Per alcuni il conto in banca lievita ad ogni passaggio, per altri ogni passaggio è un grado in più nella scala del potere. Non sono latitanti. Non fuggono, né si nascondono, i responsabili. È la memoria corta del Paese che li rende irreperibili. Fa di loro degli incolpevoli e dunque degli impuniti”. Anche nel libro di Caporale vi è dunque un processo di soggettivizzazione dei mali e delle colpe, con una chiamata di correo più vasta che non si limita alla politica ma coinvolge tutti i gruppi dirigenti e sfiora le corde agli italici costumi, in una più generale denuncia di assenza di accountability.
Il viaggio nelle storie di un “sistema incapace, sprecone e felice” è graffiante, ben documentato, a volte esilarante, dal veleno potabile di Pescara, alla “fenomenologia della puzza” a Napoli, alle provvidenze della Valle D’Aosta “terra promessa”.
E non mancano i temi di riflessione di sicura profondità politica come a proposito degli sprechi del federalismo o delle analisi dei luoghi ove l’antipolitica è già al potere (nelle esperienze dei sindaci di Taranto, Treviso, Salerno).
Ma anche il bel libro di Antonello Caporale ha bisogno di quel titolo “impuniti”, non dissimile dagli “intoccabili della casta”, che rinvia alla sequenza del male – autore del male – punizione, anche senza processo giudiziario e senza processo democratico.
Anche in questo caso è una questione di status ove i cattivi, i responsabili del male, il potere, si difendono “confondendosi in una nebulosa grigia dai confini labili”, per garantire a se stessi “l’impunibilità”.
Ha un titolo diverso il recente libro di Milena Gabanelli, autrice delle fortunate inchieste televisive di Report, uno dei migliori prodotti del giornalismo di inchiesta da molti anni. Si intitola “Cara Politica”10 siamo dinanzi ad un classico e qualificato lavoro di giornalismo di inchiesta.
Qui l’oggetto non è solo il soggetto ed anzi il titolo ci riporta alle due tradizionali accezioni di politica intesa come politics, nell’imperfetta traduzione italiana di relazioni interne al sistema politico o politica politicante, e come policies ossia politiche pubbliche sui temi del Paese. Ed è soprattutto di queste ultime e di gestione e malagestione che si occupa utilmente il libro della Gabanelli che raccoglie le principali e fortunate inchieste del programma televisivo Report.
Il proliferare di poltrone nei consigli di amministrazione delle società pubbliche (troppe!), l’esercito di lavoratori nullafacenti che “non alza un dito e non può essere licenziato, lo spreco di denaro pubblico nella gestione di comuni e regioni, l’aumento incontrollato delle province”. Temi reali, indagati in profondità, con cifre e dati, come un buon giornalismo d’inchiesta deve fare, andando anche controcorrente e violando i “santuari”.
Piuttosto, l’appassionata introduzione di Milena Gabanelli ci allarma sui rischi concreti che corre chi conduce inchieste di questo tipo: decine di denunce, cause per risarcimento danni, ostacoli nella carriera, difficoltà da superare con spirito eroico. Dovrebbe essere il normale ruolo della stampa, in un paese normale, il giornalismo d’inchiesta, senza eroismi, con una propria cifra etica e professionale. Naturalmente nel rispetto della verità dei fatti. Dovrebbe essere, e non lo è in molti paesi, come ci ricordano la vita e la morte di Anna Politovskaya e di decine di giornalisti russi.
Ma qui si tratterebbe di esaminare “altre caste”, finanziarie, pseudoeditoriali e professionali, di cultori del giustizialismo basato sugli atti del P.M. e sullo scandalismo funzionale al sistema, di vestali del conformismo e dello status quo, che spesso ostentano un ruolo moralizzatore ma che fanno non pochi danni al Paese.
Forse in questo ultimo profilo va inquadrato il recente nuovo libro di Marco Travaglio e Peter Gomez “Se li conosci li eviti” (2008), dedicato generosamente (si fa per dire) a centinaia di parlamentari rei delle peggiori cose: colpevoli, ignoranti, indagati, voltagabbana eccetera, secondo uno stile da “parlamentarismo noir” che evidentemente rende bene, spesso anche a scapito della verità.
Diverso e più oggettivo, nonostante il titolo “L’altra casta”11 (Bompiani, 2008) è il libro di Stefano Livadiotti dedicato invece ai privilegi del sindacato.
Già la quarta di copertina è esplicita: “la sola CGIL ha un giro di affari valutato in un milione di euro. I delegati delle tre centrali sindacali sono 700 mila, sei volte più dei carabinieri. I loro permessi equivalgono a un milione di giornate lavorative al mese. E costano al sistema-paese un miliardo e 854 milioni di euro l’anno”. Ancora una volta l’oggetto è il soggetto, ma l’analisi non è solo denigratoria e allarga lo sguardo con lucidità alle trasformazioni reali e profonde dei nuovi mercati del lavoro.