7. Dal soggetto all’oggetto, dalla “casta” alla “deriva”
Un anno intenso di libri, articoli, grilli parlanti, migliaia di ore TV, hanno prodotto forse più consapevolezza (!?) e il ritorno del precedente governo Berlusconi con il chiaro voto degli italiani nelle elezioni del 14 aprile 2008.
Non interessa in questa sede giudicare se vi sia un nesso tra questi fatti.
E’ più utile credere, anche perchè l’illusione è il primo dei piaceri, come diceva Voltaire, che la fase della denuncia e della “soggettivizzazione del male” possa lasciare (giustamente) spazio alla proposta e all’azione per le riforme.
Il nuovo libro di Stella e Rizzo può forse essere visto come un ritorno all’ “oggetto” alle policies.
Il Corriere della Sera ha presentato, in due recentissimi articoli pubblicati il 28 e il 29 aprile 2008, l’ultimo lavoro di due dei suoi più conosciuti inviati ed editorialisti, Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo ora autori del nuovo volume dal titolo “La Deriva. Perchè l’Italia rischia il naufragio”.
Esattamente un anno dopo le denunce sui costi della politica divulgate nella loro precedente opera “La Casta”, i due autori tornano sul tema nel nuovo libro “La Deriva”, una riflessione post Casta che affronta i rischi per il futuro del Paese che da essa derivano, mettendo a nudo due punti strettamente legati tra loro: le accanite resistenze opposte da destra e sinistra a tagliare davvero i costi della politica; la necessità di disboscare i privilegi e arginare l’alluvione di cariche pubbliche e le interferenze dei partiti proprio perché per invertire la rotta e riguadagnare la fiducia dei cittadini una classe dirigente deve essere credibile, autorevole, rispettata.
La Casta ci ha portato alla deriva! E’ la tesi di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella in questo loro nuovo lavoro. Quella Casta, denunciata nel libro che con 1.250.000 copie ha rappresentato un fenomeno editoriale, sociale, politico degli ultimi anni, non solo è insopportabile agli occhi dei cittadini, sempre più scandalizzati dal corporativismo della politica incapace di liberare l’Italia dalle pastoie del malgoverno, ma è il sintomo di un Paese in gravissima difficoltà.
Un’inchiesta dura, documentata, senza sconti per nessuno, che rivela realtà sconcertanti, a volte sconosciute ridicole, e che cerca di spiegare come, senza una scossa che coinvolga tutti, governo e opposizione, imprenditori e sindacati, il Paese stia scivolando verso un declino sempre più vistoso, sempre più traumatico.
I due giornalisti raccontano l’Italia che non funziona: dalle infrastrutture frenate da mille lacci e laccioli, all’attività parlamentare troppo farraginosa; dai ritardi nell’informatica che ci fanno arrancare dietro paesi come la Lettonia o la Slovacchia, agli ordini professionali chiusi a riccio davanti ai giovani; dal mercato delle nomine dei primari negli ospedali, a quello delle lauree comprate; dall’energia che consumiamo quanto Austria, Turchia, Polonia e Romania insieme, ma che compriamo quasi interamente all’estero, all’invecchiamento della classe dirigente. L’Italia è un paese alla deriva. Un paese che una classe dirigente prigioniera delle proprie contraddizioni, dei propri privilegi e della propria autoreferenzialità non riesce più a governare. E il confronto con gli altri paesi diventa così impietoso da togliere il fiato.
Nel primo degli articoli del Corriere della Sera, che anticipano i temi del nuovo libro, si punta l’indice contro «quell’emendamento indecente infilato nell’ultimo decreto milleproroghe varato il 23 febbraio 2006 dalla destra berlusconiana, ma apprezzato dalla sinistra. Emendamento in base al quale in caso di scioglimento anticipato del Senato della Repubblica o della Camera dei Deputati il versamento delle quote annuali dei relativi rimborsi è comunque effettuato. Col risultato che nel 2008, 2009 e 2010 i soldi del finanziamento pubblico ai partiti per la legislatura defunta si sommeranno ai soldi del finanziamento pubblico del 2008, 2009 e 2010 previsto per la legislatura entrante». E la denuncia prosegue, «300 milioni di euro incassati nel 2008 dai partiti sulla base della legge indecorosa che distribuisce ogni anno 50 milioni di rimborsi elettorali per le Regionali (anche quando non ci sono), più 50 per le Europee (anche quando non ci sono), più 50 per le Politiche alla Camera (anche quando non ci sono: quest’anno doppia razione) e più 50 per le Politiche al Senato (doppia razione) non fossero un’enormità in confronto ai contributi dati ai partiti negli altri Paesi occidentali».
Una denuncia graffiante e documentata che conferma la necessità di riformare le forme di finanziamento della politica (v. infra, cap. IV).
Ed ancora: “dove va un Paese che per fare un ponte di 81 metri ci mette il triplo del tempo impiegato dai cinesi per uno di 36 chilometri sul mare? Che infligge a chi ha un’impresa fino a 233 scadenze fiscali e amministrative l’anno? Che ha processi civili fissati al febbraio 2020? Che movimenta in tutti i porti meno container di Rotterdam? Che progetta Tav con 15 stazioni in 150 chilometri? Che assume maestri e professori solo per sanatorie e promuove tutti anche se somari?”
Nella “Deriva”, a differenza della “Casta”, dal soggetto di torna all’oggetto, ai nodi e ai problemi del paese.
Ma resta, inquietante e neppure sotteso, l’interrogativo: riuscirà la Casta a invertire la Deriva?
Fuori da ogni iperbole, è questa la sfida decisiva della nuova stagione politica, all’esordio della XVI legislatura.
2 Per questa ragione, comprensibilmente, saranno utilizzati nel testo numerosi atti e documenti ufficiali dei lavori parlamentari.
3 Sulla stagione delle leggi ad personam la letteratura è vasta. Mi permetto rinviare, ex multiis, a Mantini P. Frammenti di giustizia in Parlamento, Roma, Camera dei Deputati, 2003, in specie pag. 19 e ss.
4 Questo tema ha notevole rilievo politico perchè non può essere escluso il rischio di un approccio partigiano e strumentale alla “questione morale”. Sulla sua dimensione storica ha recentemente insistito Ernesto Galli della Loggia, Il Moralismo in un paese solo, in Corsera, 13 luglio 2008 “Una storia che antica, dicevo, questa del moralismo. Una storia che comincia subito dopo l’ Unità, quando lo sdegno per le miserie del Paese e il venir meno delle grandi speranze risorgimentali si tramutano nella messa sotto accusa delle sue classi politiche, del «Paese legale»; che prosegue poi con l’ antigiolittismo di tanta parte della cultura nazionale la quale, alla denuncia delle malefatte del «ministro della malavita», associa ora la novità importante della denuncia dell’ inadeguatezza morale dell’ opposizione socialista, colpevole di essere collusa e di tenergli bordone. Una storia, infine, che fino ad oggi sembrava culminare e compendiarsi nella fiammeggiante predicazione di Gobetti e nel suo culto per le «minoranze eroiche» chiamate a lottare contro tutto e contro tutti. Contro Giolitti, contro Turati, contro Mussolini: tutti colpevoli egualmente, anche se a vario titolo si capisce, di promuovere la «diseducazione» morale e politica del popolo italiano. Considerato peraltro – c’ è bisogno di dirlo? – non desideroso di altro. Sono stati gli scrittori, i poeti, il ceto accademico, gli intellettuali in genere, a svolgere un ruolo centrale nel far sorgere e nell’ alimentare questa tradizione del moralismo divisivo. Un ruolo che rimanda al ruolo politico di coscienza della nazione che sempre gli intellettuali hanno avuto in Italia, prima e durante il Risorgimento, e che hanno mantenuto fino ad oggi. La storia politica italiana specie nel ‘ 900 è stata per molti versi, infatti, una storia d’ impegno politico degli intellettuali; e questo impegno si è esercitato quasi sempre come denuncia e scomunica dai toni moralistici non di una politica con nome e cognome, ma dell’ Italia «cattiva», di «quest’ Italia che non ci piace», secondo le parole famose di Giovanni Amendola”.
8 Su questi temi occorre ricordare il precedente e documentato libro di Salvi C. e Villone M. Il costo della democrazia, Mondadori, 2005.
13 Altre interessanti proposte sono contenute in Salvi C. e Villone M. Il costo della democrazia, cit., pag. 170 e ss.
16 Nel Corruption Percepition Index 2005 l’Italia è al quarantesimo posto con Ungheria e Corea del Sud, bem sotto tutti i paesi dell’Europa centrale e dell’America settentrionale. Nel 2005 il costo della corruzione in Italia è stato calcolato in 70 miliardi di euro (2,5% del P.I.L.).
17 Einaudi L., La bellezza della lotta (1923) ora in Le lotte del lavoro, Torino, Einaudi, 1972, p. 13.
18 Rinvio occasionalmente al libro di Tremonti G., La Paura e la speranza, Mondadori, 2007 che sviluppa questi temi in modo solido e attuale, a prescindere dalla relativa condivisione di alcune soluzioni indicate.
19 Mi permetto rinviare a Mantini P. in Quaderni dei democratici, Gangemi Editore, n. 1/2006 e n. 2/2007.
20In limine, sia consentito rinviare a Mantini P. L’Ulivo e le moral issues, Milano, Bevivino Editore, 2005, ove formulavo tre tesi sul piano politico: 1° Tesi: La politica, in tempi di risk society, è chiamata a rispondere alle precarietà materiali ma anche, sempre più intensamente, alle precarietà immateriali delle persone, sollecitate dai mutamenti portati dalla globalizzazione (società cosmopolite e pluriconfessionali), dai processi di secolarizzazione (nuovi costumi sociali e familiari) e dai progressi della scienza (questioni scientificamente controverse e bioetica).
La destra in Italia ha compreso ciò da tempo: nel 2001 ha vinto le elezioni cavalcando i temi della paura (criminalità, immigrazione, omofobía, dazi ecc.); oggi, con lo slogan dei “teoliberal” (Pera, Adornato, Ferrara, Buttiglione ecc.): “giù le tasse, su i valori”.
Il centrosinistra è troppo fermo, un pò pigro e convenzionale e ancora diviso tra guelfi e ghibellini…
Occorre recuperare le moral issues alla politica (nuova cittadinanza, sostegno ai patti civili di solidarietà e no ai matrimoni gay, riforma dell’affidamento condiviso, una moderna e laica disciplina della fecondazione assistita ecc.) e sviluppare un intenso rapporto tra fede e ragione, su un piano di equiordinazione, non di subordinazione dell’una sull’altra (v. Habermas, Ratzinger in Humanitas, 1/2004).
2° Tesi: L’esperienza politica dei cattolici democratici in Italia è più sensibile alle moral issues ma si dimostra più esposta all’ingerenza delle gerarchie ecclesiali per due ragioni: a) perché da tempo la Chiesa “da partito si è fatta pulpito”, rinunciando all’intermediazione di un partito cattolico; b) perché il bipolarismo ha posto in crisi l’identità dei cattolici democratici in politica spingendoli a convivere entro (e a condividere) altri contenitori politici (Margherita, Ulivo).
Vi è dunque una nuova questione della laicità che attraversa i cattolici democratici.
Le moral issues interpellano tutti, credenti e non credenti (non solo gli “atei devoti”).
La distinzione tra laici e cattolici, su questi temi, è profondamente sbagliata. Con senso pratico potremmo dire che la distinzione più significativa è quella tra “cattolici laici e cattolici integralisti” (o clericali) e che tale distinzione attraversa il campo dei “cattolici democratici”.
Per chi compie scelte politiche, e ancor di più per quanti hanno responsabilità pubbliche, la prima opzione dovrebbe essere obbligatoria, nel rispetto dell’altro, nel rispetto della Costituzione.
Il tema è antico e ponderoso e ha ormai nuovi significati.
A ciò si unisce, promiscuamente, una ripresa di attenzione verso i profili identitari del cattolicesimo democratico, sotto la spinta dell’affermazione di contenitori e forme della politica che tendono a contaminare e unire diverse tradizioni (cfr. Pombeni P. Lo strano ritorno della questione cattolica, in Il Mulino n. 415; Levi A. Laici e credenti: il dialogo necessario in Il Mulino n. 416, 2004; Augias N., Covotta A. I cattolici e l’Ulivo, Donzelli Editore, 2005).
Quando uso la distinzione tra “cattolici laici” e “cattolici integralisti” molti provano disagio, o tendono a rifiutare la distinzione, preferendo quella più comoda e tradizionale, tra laici e cattolici.
Eppure, come ricorda Castagnetti (“Pensiamo al futuro del cattolicesimo democratico” n. 11/12 Enne Effe, 2004), Giuseppe Dossetti si definiva “anticlericale” e un merito storico del cristianesimo in Europa è stato quello di de-sacralizzare il potere e lo Stato, affermando la distinzione tra Stato e religione.
Se si ha riguardo per la vicenda politico-parlamentare degli anni recenti si ha motivo di dubitare di tale consapevolezza.
La sensazione di un atteggiamento dogmatico e acritico, alla ricerca di una “sintonia con il Vaticano”, sembra aver ispirato alcuni voti: dalla stabilizzazione degli insegnanti precari di religione, all’ostilità verso le “case da gioco”, all’apertura notturna delle discoteche; dall’abbreviazione del termine per il divorzio, alla disciplina della prostituzione, fino al voto sulla fecondazione assistita.
Il contesto di questa ricerca di identità del cattolicesimo democratico è chiaro.
In epoca post-ideologica, mentre si affermano i nuovi partiti-contenitori del bipolarismo, la Chiesa, tornando dal “partito al pulpito”, parla con voce diretta e forte, senza intermediari politici.
Si è avverato quanto scritto nell’enciclica Sapientiae Christianae del 1890: “La chiesa non può diventare un partito perché è di tutti”.
Su molti temi la voce della Chiesa si fa “autorità mondiale”: sugli squilibri nel mondo, sulla pace, contro i fondamentalismi e in favore del dialogo interreligioso.
Su altre questioni (sessualità, famiglia, bioetica) la Chiesa propone soluzioni particolari, talvolta insostenibili sul piano delle scelte politiche generali, al di fuori degli standard etici condivisi dal pluralismo sociale.
Riescono tutti i cattolici democratici a distinguere le diverse sfere e a compiere scelte responsabili sulla base della laicità della politica?
Ora, accanto alla coppia “cattolici democratici/cattolici conservatori” che connota le issues politiche, è opportuno porne un’altra, quella tra “cattolici laici (in politica) e cattolici integralisti”.
3° Tesi: Le moral issues appartengono ai parlamenti più che che ai governi. L’Ulivo deve avere una posizione comune non solo nel metodo, ma anche nel merito: con il criterio della ricerca e del rispetto dello standard etico comune al pluralismo sociale.
Secondo Ceccanti, “La Fed e L’Unione, per superare le strettoie della libertà di coscienza, hanno bisogno di laici che non entrino nella logica di Zapatero e di credenti che rimangano fermi alle consapevolezze di San Tommaso, non cedendo, alle lusinghe della lotta per la primogenitura tra i vari gruppi dell’uno e dell’altro schieramento, per dimostrare di essere i più ortodossi”.
Per un cattolico democratico il motto ambrosiano ubi fides est libertas è certo una guida di liberazione e di comunità nella complessa vicenda umana e personale.
Ma nell’esercizio delle responsabilità politiche i cattolici democratici devono affermare la libertà nella democrazia (potremmo dire che Democrazia è Libertà).
Anche nelle materie eticamente sensibili vi è dunque il dovere di ricercare, nelle scelte legislative, gli standard etici condivisi dal pluralismo sociale su cui fondare i principi comuni, senza imporre concezioni o visioni confessionali di parte.
La morale, sosteneva Kant, non si può fondare assiologicamente sul sommo bene, perchè quest’ultimo è un contenuto inconoscibile, teoricamente invisibile, inconcepibile in sè.
22 In Una teoria della giustizia, Rawls propone essenzialmente i seguenti principi: 1)Eguali diritti e doveri fondamentali per tutti; 2) Le uniche ineguaglianze accettabili sono soltanto quelle che producono benefici indiretti per gli individui socialmente più svantaggiati.
23Habitus, nel senso di modo d’essere della persona, per cui le virtù non mirano ad uno scopo, ma hanno come fine la realizzazione dell’individuo. Dalla virtù così intesa, per McIntyre, derivano non atti, ma pratiche, considerate come qualsiasi possibile forma coerente e complessa di attività umana cooperativa socialmente stabilita. Per quanto riguarda il richiamo ad Hegel, sembra che la posizione cui stiamo accennando si ricolleghi in certo senso alla indicazione hegeliana sulla connessione tra virtù individuale e comunità, oltre che al riconoscimento dell’importanza della storia. Per una diversa interpretazione dei rimandi del concetto hegeliano di etica, si veda il dodicesimo capitolo del noto saggio di Popper, La società aperta e i suoi nemici.
25 Nello stesso passo, Moore chiarisce ulteriormente che “è ovvio che se per fonte di obbligazione si intende solo un potere che ci costringe o ci impone di fare una cosa, non è questa la ragione per cui siamo moralmente tenuti ad obbedire. Solo nel caso che essa sia così buona da comandare e imporre solo ciò che è buono, può essere una fonte di obbligazione morale”.G. E. Moore, Principia Ethica, Milano, Bompiani, 1964, pp.212-213.