6. Dall’antipolitica alla buona politica, attraverso l’etica pubblica
Il fiume carsico dell’antipolitica, che si fonde però con la critica del sistema politico, delle sue regole, dei suoi comportamenti, ha ovviamente i suoi percorsi e le sue stagioni.
Sarebbe però assai sbagliato trascurare il fondamento da cui questi fenomeni di denuncia prendono le mosse e le questioni di fondo che essi ripropongono.
La prima questione è costituita dalla qualità della democrazia, tema antico e attualissimo.
Vi è oggi l’esigenza di una rivisitazione del sostantivo “democrazia”, che vada ben oltre l’eredità classica che lega la parola alla conquista del voto universale, e dia contenuto e vita al principio costituzionale della sovranità popolare.
Abbiamo tre accezioni di democrazia da approfondire.
In primo luogo la dimensione quantitativa e orizzontale, intesa come estensione della democrazia nei paesi che ancora ne sono privi, e come democrazia nelle istituzioni internazionali e nelle global governance, che ha come parametro di misura l’affermazione dei diritti civili fondamentali.
In secondo luogo, la dimensione verticale e qualitativa, espressa con la formula della “democrazia esigente”, fondamentale nella società contemporanea (democrazia amministrativa, digitale, dei mercati e dei consumatori, nell’accesso alla conoscenza, democrazia di genere, nei partiti ecc…).
In terzo luogo, abbiamo un’area di questioni che riguardano la dimensione funzionale della democrazia, la dicotomia tra rappresentanza e governo, i temi dell’efficienza e della democrazia dell’alternanza.
Abbiamo definito queste esigenze, il soggettivo bisogno di andare oltre i limiti formali della democrazia classica, con l’espressione “neodemocratici”19.
Ma, a ben vedere, dobbiamo anche rilevare la sussistenza, non solo in Italia, di una quarta e fondamentale dimensione della “questione democratica” che potremmo definire con l’espressione “democrazia dei valori”.
Lo storico dibattito filosofico e religioso sulla “cosa ultima”, sui principi fondamentali e sui valori, è diventato di centrale attualità nella politica e nella società.
Su cosa si fondano gli Stati e le loro costituzioni? Cosa c’è scritto nel “contratto sociale”? Se, secondo il lungimirante art. 2 della Costituzione italiana, la “Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove di svolge la sua personalità…”, se li riconosce e non solo li definisce, dove occorre guardare ai fini del “riconoscimento”? Cosa c’è prima della costituzione? L’indagine sui rapporti tra diritto naturale o diritti umani fondamentali e diritto positivo è antica e ricca di implicazioni.
Ma il dibattito più recente ha preso le mosse dalla rivisitazione di un saggio dell’eminente costituzionalista cattolico Ernst Wolfgang Bockenforde, del 1964 ( ), ove in sostanza si afferma che “lo Stato liberale secolarizzato vive di presupposti che esso stesso non può garantire. Questo è il grande rischio che si è assunto per amore della libertà”.
In modo più specifico, ci si chiede: di che cosa vive lo Stato e dove trova la forza che lo regge e gli garantisce omogeneità, dopo che la forza vincolante proveniente dalla religione non è e non può più essere essenziale per lui? Fino al XIX secolo, in un mondo interpretato dapprima in modo sacrale, poi in modo religioso, la religione era sempre stata la forza vincolante più profonda per l’ordinamento politico e per la vita dello Stato. Ma è possibile fondare e conservare l’eticità in maniera tutta terrena, secolare? Fondare lo Stato su una “morale naturale”? E se ciò non fosse possibile, lo Stato potrebbe vivere sulla base della soddisfazione delle aspettative eudemonistiche dei suoi cittadini? Tutte queste domande ci riportano a una domanda più profonda, di principio: fino a che punto i popoli uniti in Stati possono vivere sulla base della sola garanzia della libertà, senza avere cioè un legame unificante che preceda tale libertà?”
Nell’importante dialogo su “etica, religione e stato liberale” (in Humanitas 2/2004, pag. 232 e ss.) agli interrogativi di Bockenforde, viene data una risposta conciliante e convergente da parte di Jurgen Habermas e di Joseph Ratzinger, che rilanciano l’alleanza necessaria tra fede e ragione.
Quel dibattito è stato oggetto di molte attenzioni20.
Le implicazioni sono molte e chiaramente esulano da questa sede.
Ma ora il vero tema è quello dell’etica e dei valori. Può esistere un’etica laica e democratica o occorre attingere all’etica cristiana, in Italia?
E quale è l’esatta natura di quest’ultima?
La riflessione più recente e persuasiva è quella di Gustavo Zagrebelski che merita un ampio riferimento su un punto cruciale21.
“L’etica cristiana è etica della carità o della verità? Per Gesù di Nazareth, non c’è dubbio, la carità predomina. La sua predicazione è l’amore concreto. Non risulta che egli abbia mai parlato dell’umanità, né che, in campo etico, abbia mai fatto uso di verità generali e astratte. Il suo atteggiamento è tutto compreso nel volgersi ai tormentati da malattie e dolori (Mt 4, 24), nell’indirizzare parole salvifiche concrete («Fanciulla, alzati») alla piccola figlia del capo della Sinagoga (Mc 5, 41; Lc 9, 54). Le sue parabole parlano tutte di esseri umani in carne e ossa, con i quali si è in rapporto; parlano del «prossimo» (Lc 11, 36-37). Il «più grande comandamento» è il comandamento della carità concreta, da cui tutta la legge dipende: «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente; amerai il prossimo tuo come te stesso» (Mt 22, 37; Mc 12, 33). All’adultera che, secondo la legge, avrebbe meritato la morte, Gesù, voltosi intorno e visti i suoi accusatori che, non avendo potuto «scagliare per primi la pietra», se ne erano andati via, dice «neanch’io ti condanno», e aggiunge un’esortazione, non una minaccia: «Va’ e non peccare più» (Gv 8, 9). Il Padre nostro, infine, il testo dove più facilmente avrebbe potuto annidarsi un discorso teologico sulla verità, è al contrario una commovente espressione di spirito filiale. Cosa c’è di più concreto e personale di un dialogo padre-figlio?
Su tutto questo non c’è da aggiungere altro, se non per notare, come fanno i padri gesuiti, che in effetti Gesù parla bensì talora di verità, ma questa verità (alétheia , parola che richiama saldezza nel rammentare: non-dimenticanza) non è un corpo di dottrine teologiche, filosofiche o sociali. È il Cristo stesso: «Io sono la verità» (Gv 8, 31; 14, 6). Dunque, si è nella verità quando si aderisce fedelmente a lui, perché la verità, in senso evangelico, è la vita secondo il Cristo veritiero, è imitatio Christi; è la trasformazione dell’esistenza umana secondo Gesù di Nazareth. Il Dio dei cristiani, infatti, è il Dio che Gesù ha raccontato in verità attraverso la sua vita con gli uomini.
Fin qui il messaggio cristiano evangelico. E la Chiesa cattolica? La domanda non solo non è impropria, ma è anche perfino doverosa. La fedeltà della Chiesa e della sua azione all’annuncio del fondatore non può sottrarsi a questa verifica permanente, nel corso dei tempi che mutano. Ora, non possiamo fare a meno di osservare l’impressionante complesso dottrinale venutosi a produrre nel corso dei secoli. All’imponente edificio dà oggi nuovo impulso la rinnovata alleanza fede-ragione, riproposta in termini inversi a quelli d’un tempo: non più la ragione e, al di là dei suoi limiti, la fede, ma prima la fede e poi la ragione che, sulle verità di fede, costruisce e costruisce ancora, deduttivamente e induttivamente, con pretese di validità razionale generale. Operando così, non c’è più limite: potenzialmente, ogni aspetto dell’esistenza, solo che lo si volesse, potrebbe essere ricondotto a una qualche prescrizione teologicamente imperativa.
Non dalla carità, ma dalla dottrina della verità l’etica cristiana predicata dal magistero è così venuta a dipendere.
Nella “nuova alleanza” di fede e ragione, l’etica della carità resta soverchiata e l’etica della verità si trasforma in precettistica, in codici di condotta non molto diversi da quelli giuridici”.
La chiesa post-conciliare del dialogo assume, in specie sui temi della vita e degli stili di vita, una dimensione dogmatica e precettistica rilanciando la teoria della superiorità del diritto naturale, come reinterpretato dalle gerarchie ecclesiastiche, quale prius sovraordinato rispetto al diritto costituzionale e positivo.
Ma se non si vuole arrendersi a questo approdo ossia alla definizione dell’etica pubblica solo come etica religiosa, se si crede viceversa alla più ricca dimensione dell’etica pubblica come laicità inclusiva (della sfera religiosa), aperta a credenti e non credenti, e basata sulla equiordinazione tra ragione e fede, allora occorre che i valori della ragione, i valori della libertà dell’uguaglianza degli uomini senza discriminazione, i fondamentali diritti umani e civili della persona, la democrazia in tutte le più piene declinazioni, l’impegno per la giustizia, la responsabilità sociale, l’amore per la costituzione e gli ordinamenti civili, il giusto senso nazionale, siano essi stessi rilanciati, esaltati e praticati.
Le moral issues della fede civile, in una dimensione costantemente attualizzata e non stancamente derivata dalla tradizione illuministica, devono concorrere a pieno con i valori religiosi nella definizione dello spazio dell’etica pubblica, essenziale in qualsiasi società.
Nello schema dell’equiordinazione tra ragione e fede entrambe le dimensioni sono coessenziali, anche per i non credenti.
Tra processi storici di secolarizzazione e nuovi fondamentalismi ciò che conta non è la rincorsa alla gerarchia, al primato, alla sovraordinazione di una sfera sull’altra quanto, piuttosto, la vitalità e la capacità competitiva di entrambe nell’arena sociale dell’etica pubblica.
Per questo vale la pena occuparsi, in ogni ruolo e in ogni modo, della riaffermazione dei valori della fede civile.
Negli anni Settanta del secolo scorso, anche grazie alle riflessioni del filosofo statunitense Rawls, si è ripresentato con forza all’attenzione degli studiosi il tema complesso del rapporto tra etica e politica, ed è stata da più parti negata l’ipotesi di matrice illuminista di una netta distinzione tra i due ambiti.
In sede di filosofia morale si pretende di trattare anche i dilemmi dell’individuo come cittadino, considerato cioè come un soggetto che sceglie su questioni di interesse pubblico, e quando si ragiona di filosofia politica si mettono in evidenza i principi etici in ragione dei quali un certo ordine sociale può essere definito giusto.
Su questo tema, sono emerse posizioni di rilevante interesse, differenti tra loro, ma tutte ben radicate nella storia del pensiero filosofico.
Rawls, ad esempio, presenta una dottrina normativa dell’etica pubblica, che rivela un’influenza di tipo Kantiano, per cui la filosofia pubblica sarebbe un’idea della Ragione, in base alla quale valutare la liceità o meno di un assetto politico. In quest’ottica, il filosofo americano propone anche due postulati della giustizia che si richiamano per la loro funzione ai postulati kantiani della Ragion pratica22.
In un’ottica differente, con riferimento piuttosto alla concezione aristotelica della virtù come habitus, e ad una possibile interpretazione del concetto di etica in Hegel23, si pongono invece MacIntyre e, in parte, anche Arendt. In questo caso, il problema della morale si pone in relazione al contesto di pratiche che costituiscono la realizzazione della persona e che, da una parte, insieme alle tradizioni e all’ethos collettivo concorrono a formare un senso etico della comunità, e, dall’altra, assumono a loro volta senso proprio in riferimento a questo spazio pubblico.
In ogni caso, qualunque sia la difficile soluzione a questo problema, sembra di poter ammettere senza tema di smentite che esso si presenta in riferimento alla democrazia, cioè in relazione a quelle società che si trovano nella condizione che Rawls definiva di cooperazione e conflitto, in assenza cioè di principi assoluti, imposti a priori da un agente esterno, sia esso l’ideologia o un insieme di precetti religiosi.
Ciò perché, come è stato anche richiamato in un recente saggio di successo24, l’etica è per sua essenza autonoma e, in questo senso, per sua intrinseca natura, laica. Il problema della fondatezza della norma morale, infatti, non può che essere soltanto rimandato dal richiamo ad una obbligazione etero-imposta, sulla quale, peraltro, come sempre accade, non può esserci accordo se non all’interno di una setta o di un insieme limitato di individui. Chi tenti una simile operazione si metterà nella condizione di quell’indiano, cui si riferisce un famoso esempio di Locke, che, interrogato su cosa reggesse il mondo nel cielo, affermò senza esitazioni che era assicurato da un enorme elefante. Come scriveva Gorge Edward Moore, invero, “comunque un’autorità possa essere definita, i suoi comandi saranno moralmente obbliganti se e solo se, appunto, sono moralmente obbliganti”25.
Il buon funzionamento e lo sviluppo della democrazia, il rispetto della legge, la credibilità delle istituzioni, il recupero di prestigio e di nobiltà della politica e dei suoi interpreti è parte essenziale di questo impegno.
Occorre passare dall’antipolitica alla buona politica, dai “vaffa” alla proposta, dal gossip al rispetto dell’etica civile, dalla denuncia alle “regole per la casta” politica.
La sfida è quella di cancellarla la parola “casta” in una democrazia che sa promuovere ed affermare i valori su cui si fonda.
I temi delle garanzie parlamentari, dei conflitti di interesse, della disciplina dei finanziamenti e dei partiti politici, sono parte significativa e imprescindibile di questo impegno per l’etica pubblica.