Nel disegno di legge costituzionale del Governo si sottopone a critica l’espressione «iniziativa economica», che costituisce l’ “incipit” dell’articolo 41 della Costituzione, perché limitativa della più complessiva «attività economica» che deve parimenti essere «libera», non solo nella sua fase iniziale. La critica dell’espressione, che ha origini storiche anche sotto il profilo della semantica e della cultura politica del tempo, può essere condivisa perché in effetti il principio della libertà economica è più ampio di quello relativo alla sola fase dell’ «iniziativa».
Tale riconosciuto favor libertatis non può tuttavia spingersi fino alle conseguenze proposte nel disegno di legge costituzionale del Governo secondo cui «è permesso tutto ciò che non è espressamente vietato dalla legge». Se tale principio ben si adatta al diritto penale («nullum crimen sine lege») non può certo ritenersi condivisibile né applicabile tout court nel campo delle attività economiche, soggette per natura a regolazioni pubbliche o di parte terza (si pensi, sin dalle origine storiche, alle misure metriche, come la moneta, il tempo-calendario, pesi e misure, fino alle più recenti regole della borsa e della finanza o della tutela dell’ambiente).
D’altronde l’uso dell’avverbio «espressamente» spingerebbe a delineare un’ipertrofia normativa della legislazione, un effetto certamente indesiderato anche dai proponenti, allo scopo di eliminare gli atti dell’amministrazione (autorizzazioni, permessi, concessioni, regolamenti, piani, sovvenzioni, eccetera), ma una tale concentrazione di «espressi divieti nella legge», oltre che risolversi nell’antistorica pretesa di una «legislazione senza amministrazione», tipica dei regimi assoluti, finirebbe per favorire un modello di governo centralista, con gli enti locali vincolati dalla legge, e per ridurre le garanzie degli stessi operatori economici nei confronti degli abusi del potere, non potendosi ricorrere nei confronti dei divieti di legge, se non per i profili di incostituzionalità.
A noi sembra invece che, ove si voglia riformare il testo dell’art. 41 della Costituzione per meglio adattarlo alle più recenti esigenze dell’attuale fase storica, ciò possa essere fatto facendo emergere ed affermando i principi di «concorrenza e di responsabilità sociale» accanto alla libertà dell’attività economica privata ed aggiungendo ai compiti che costituiscono riserva di legge il rispetto del principio di «semplificazione amministrativa».
In effetti, con la riforma costituzionale del 2001, la materia della «tutela della concorrenza» è stata per la prima volta considerata nella Costituzione italiana sotto il profilo dell’attribuzione alla competenza legislativa esclusiva dello Stato [art. 117, secondo comma, lettera e). Ma, proprio perciò, è utile e opportuno che il principio di concorrenza sia affermato anche nell’articolo 41, come condizione ordinaria, salve eccezioni per legge stabilite, dello svolgimento delle attività economiche. È un principio costitutivo dell’originario Trattato istitutivo della Comunità europea e ribadito nei successivi trattati e nelle politiche dell’Unione europea, espressione cardine di una moderna cultura liberale che vede nella par condicio concorsuale le condizioni migliori per l’efficienza dei mercati e per lo sviluppo della libertà e del benessere sociali.
A ben vedere, libertà di attività economica e responsabilità sociale di essa, intesa come orientamento al bene comune, costituiscono un binomio inscindibile del modello europeo, le radici stesse della cultura liberaldemocratica e dell’umanesimo cristiano che coniugano libertà e solidarietà. La letteratura è assai vasta e le trasformazioni dell’età della globalizzazione confermano la necessità di questo modello.
Per attenuare i rischi dell’«eccesso burocratico» della regolazione riteniamo utile aggiungere all’articolo 41, terzo comma, il rispetto del principio di «semplificazione amministrativa». L’elevazione al rango costituzionale di un principio che, soprattutto dalla legge 241 del 1990 in poi, ha avuto notevole diffusione nella legislazione ordinaria e nelle politiche delle amministrazioni pubbliche, ha un significato non trascurabile sotto il profilo politico-culturale e pratico. Il peso della burocrazia, le inefficienze e i ritardi nel provvedere, spesso aggravati dai costi della transazione politica, costituiscono un freno oggettivo all’economia ed anche un’insopportabile ingiustizia. Di ciò si dirà anche in seguito, in tema di modifiche dell’art. 97 e 118 della Costituzione ma è bene riesaminare ora funditus il tema della semplificazione amministrativa.
L’intera storia nazionale, da Zanardelli ai nostri giorni, è costellata da tentativi di semplificazione della nostra pubblica amministrazione. Negli ultimi decenni gli sforzi sono stati ripetuti e persino ossessivi e dovrebbe apparire paradossale, nell’epoca della complessità, l’asserita passione per la semplificazione: quasi un rifiuto del proprio status, una ribellione concettuale ed esistenziale, una pulsione regressiva verso lo stato di natura come se il «fanciullo» di Rousseau non incontrasse anche lui, nella foresta, «lacci e lacciuoli».
Tuttavia la retorica «semplificazionista» è fortissima: non vale per la finanza, ove è impossibile capire qualcosa, né per le scienze, le tecnologie e le professioni, sempre più sofisticate, e neppure per la giustizia o la politica, a molti incomprensibile, ma deve valere per le pubbliche amministrazioni, causa di tutti i problemi. È una retorica così forte, non solo nel Nord del Paese, che è più «semplice» arrendersi ad essa.
Poiché dopo decine di leggi di semplificazione siamo al punto di partenza, occorrerebbe quindi riflettere meglio su come intervenire. Il Governo propone la riforma costituzionale dell’articolo 41 ma il problema è diverso, e riguarda il rapporto tra legge e pubbliche amministrazioni. Con la legge 241 del 1990, dopo intenso dibattito in dottrina, si è pervenuti a fissare i principi generali per tutte le amministrazioni pubbliche. Disciplina dei termini, responsabilità, trasparenza e partecipazione, semplificazioni organizzative, autocertificazioni, moduli negoziali: principi chiari e uguali per tutte le amministrazioni. Una logica moderna, che ha creato vantaggi concreti ed efficienza, un passo in avanti significativo. Anziché migliaia di procedimenti diversi, uno per ciascun settore (scuola, ambiente, commercio, sanità, eccetera), principi comuni, per una cultura nuova e comune al servizio dei cittadini e delle imprese. Ma ecco che, anziché andare avanti per quella strada, si è deciso di sabotarla e poi di abbandonarla, di tornare al passato, al procedimento «fai da te», in nome del federalismo e della politica che prevale sull’amministrazione professionale, dell’insofferenza nei confronti dei principi di legge. Un po’ per volta la legge 241 del 1990 è stata depotenziata e aggirata, da ultimo anche dalla riforma Brunetta che l’ha annegata nel mare magnum di una carta dei doveri delle pubbliche amministrazioni.
Si dovrebbe invece attuarla di più e meglio quella riforma, non abbandonarla.