Dal Decreto Liberalizzazioni un primo passo verso un mondo nuovo, fatto di approcci mercato soprattutto in un settore, quello dell’economia della conoscenza e delle professioni, dove più importante è il contributo della concorrenza per tutelare il cliente/consumatore e creare sviluppo e nuove opportunità per i nostri giovani. Un percorso faticoso perché ostacolato da soggetti che hanno maturato nel tempo importanti rendite di posizione e che vedono in questo nuovo orizzonte competitivo il primo passo verso la perdita di immeritate posizioni di privilegio.
Dal declino al cambiamento: selezione competitiva e meritocrazia per una visione comune del futuro
L’Italia sta cambiando. Ci sta provando anche se, per il momento, si tratta di un movimento sottotraccia, complesso da decifrare per la difficoltà intrinseca che manifesta quando tenta di trasformarsi da congiunturale a strutturale. Senza dimenticare che agli occhi di un osservatore esterno sembriamo ancora un Paese troppo innamorato dei propri vizi per cambiare davvero. Basta pensare al Decreto Liberalizzazioni: ognuno continua a rinchiudersi nella difesa di rendite non più sostenibili e officia riti di difesa senza significato in un gioco degli specchi e contro specchi per cui le riforme sono necessarie, ma sempre da un’altra parte e con il contributo, in termini di sacrifici, di qualcun altro che non siamo noi.
Tuttavia, i venti del cambiamento soffiano potenti da lontano e con effetti in qualche caso già visibili anche da vicino. Per aggredire in profondità le cause del nostro declino, l’Italia ha bisogno di una grande opera di selezione qualitativa. Dobbiamo potare qualche ramo della pianta per farle produrre più frutti nel futuro. E non si tratta solo di tagliare rami secchi ma anche qualche ramo che, pur produttivo, lavora con logiche di monopolio e rendita di posizione. E questo, in termini economici e sociali, è facile a dirsi ma difficile a farsi. È difficile perché si tratta di tagliare parti del tessuto economico e sociale che hanno una loro capacità, per quanto distorta, di sopravvivenza. Perché laddove noi vediamo delle rendite, qualcun altro vede un diritto acquisito.
Senza dimenticare che selezione competitiva e meritocrazia hanno costi psicologici importanti per tutti e, in particolare, per le giovani generazioni. Una cosa è fallire perché si combatte contro le raccomandazioni degli altri, le rendite degli altri, gli abusi di potere degli altri. Altra cosa se il fallimento avviene in un ambiente competitivo, dove la colpa finisce per ricadere sui limiti di ciascuno di noi. Il problema psicologico vero della concorrenza è che qualcuno vince. Tuttavia, questo riposizionamento strategico del nostro Paese, per quanto duro e faticoso, è ormai indispensabile perché i costi dell’assenza di crescita e sviluppo sono ormai insopportabili. Non esistono alternative se vogliamo valorizzare le risorse del nostro Paese per tornare a crescere.
In altri termini, al di là dei singoli settori da liberalizzare, l’orizzonte concreto e pragmatico non deve essere quello di una mera crociata ideologica contro le rendite, ma in una politica capace di offrire una visione d’insieme per il futuro. Se la politica ha una visione e indica un obiettivo raggiungibile, anche il sacrificio di qualche ramo può essere accettabile. Altrimenti, senza visione, senza progetto, ognuno si rinchiude nella difesa del proprio ramoscello, nelle barricate corporative che hanno bloccato le riforme negli ultimi decenni.
È proprio questo lo sforzo che è necessario fare: offrire una visione unitaria degli interventi che servono al Paese, e individuare gli ostacoli politici che si sono finora frapposti alla loro realizzazione. Quali sono questi ostacoli? Senza tanti giri di parole: profondi ritardi culturali e strenue difese corporative. Se si vuole selezionare, non si può fare a meno di puntare su due parole chiave: mercato e valutazione che, però, sono concetti che provocano crisi di rigetto quando si tenta di impiantarli nella cultura collettiva degli italiani. Attratti da un generico egualitarismo di maniera, siamo sempre pronti a vedere l’ombra della disuguaglianza dietro a questi due politiche economiche.
La rivoluzione silenziosa: il capitalismo intellettuale
E in questo dimentichiamo che, nella nostra epoca, i processi di cambiamento impongono di sperimentare strade diverse per crescere ed essere competitivi. Viviamo in una realtà veloce, interconnessa dove è fondamentale per la sopravvivenza di Stati, imprese ed organizzazioni imparare a fronteggiare il movimento continuo, i cicli congiunturali, la tempesta dinamica delle crisi e dei cambiamenti in atto. Ed è evidente come la nuova sfida del nostro sistema economico, quella legata ai processi di interdipendenza fra crescita, redditività e ricchezza, sia legata ad uno scenario complesso dove i fattori di accelerazione della competizione costringono tutti gli attori ad una drammatica ricerca verso nuove vie di efficienza e di differenziazione competitiva. Al di là delle polemiche da giornali, è qui che emerge il nuovo rapporto che le imprese hanno instaurato con il mercato: il vero bene di scambio, il vero anello strategico della catena di creazione del valore diviene la conoscenza, ovvero l’insieme di rapporti e di capitale immateriale che ogni Istituzione, organizzazione o individuo ha accumulato nel corso della propria esperienza.
Siamo dunque in presenza di un salto di qualità che ha cambiato le regole del gioco ed ha prodotto una svolta fondamentale: l’ICT e la globalizzazione hanno geneticamente mutato i confini del mercato, trasformandoli da fisici a logici, e lo sviluppo dell’economia si è concettualmente e operativamente saldato con l’evoluzione tecnologica. Il nuovo capitalismo, intellettuale ed antropocentrico, si sviluppa sul valore economico della creatività, della professionalità, delle innovazioni tecnologiche. E’ la sintesi finale, la simbiosi vincente, la saldatura competitiva tra economia, conoscenza e tecnologia. L’uomo ritrova un posto centrale nel sistema economico perché tramonta il modello dello sfruttamento meccanico di capitale e lavoro e la conoscenza diventa il motore dell’innovazione e della capacità concorrenziale di imprese e sistemi-Paese.
Una rivoluzione sconvolgente perché mette in discussione anche il concetto di stato-nazione e le istituzioni su cui era basato il modello industriale. I confini nazionali, l’appartenenza di classe, la fabbrica vengono infatti sostituiti o superati dalle reti locali e globali di scambio e condivisione delle informazioni a cui partecipano soggetti individuali, sociali, imprese, istituzioni, movimenti culturali. Le guerre dei saperi e dei talenti diventano le guerre di potere dell’economia della conoscenza ed hanno come palcoscenico reti tecnologiche e media del sistema globalizzato e come nodi di contatto i blog, i social network, gli opinion leader e i professionisti stessi. E’ qui che emerge il significato profondo del capitalismo intellettuale: spostare la visione dell’economia dalla produzione alla condivisione, ossia dal consumo razionale ma finito dei fattori disponibili (capitale e lavoro) alla creazione di reti che facilitano la condivisione intelligente di quanto i capitalisti intellettuali conoscono, sanno e sanno fare.
E questo perché la conoscenza ha, diversamente dagli altri fattori della produzione, caratteri accrescitivi e non diminutivi: quanto più si diffonde e si distribuisce, tanta più ricchezza è in grado di creare. È la caratteristica di fondo di ogni rete, che vive solo se non è singolare ma plurale e prospera al crescere dei nodi di cui è dotata. La vera rivoluzione nella rivoluzione è dunque lo scambio e la condivisione delle conoscenze: è questo il vero motore della creazione di valore nell’impresa e nella società. La competizione si vince allora diffondendo sempre più la conoscenza stessa, abbassandone i costi ed i tempi di scambio, ed assecondando la novità più importante di questa nuova era: per la prima volta nella storia dell’”homo oeconomicus” diventa conveniente investire nei processi di apprendimento e di manipolazione dei saperi.
Persone e reti al centro del sistema socio-economico
Una sola straordinaria conseguenza: la tendenza alla professionalizzazione sta ridisegnando dalle fondamenta il contesto competitivo del pianeta. I meccanismi e le regole di controllo dell’offerta di professionalità diventano sempre più cruciali. Senza dimenticare che la conoscenza non si trasmette meccanicamente da computer a computer, non circola da sola nelle reti, non crea spontaneamente soddisfazione e ricchezza. La conoscenza è innanzitutto nella mente delle persone: sono i singoli individui, le persone, i capitalisti intellettuali che decidono i modi di’appropriazione, le forme della selezione, gli obiettivi dell’utilizzo, le modalità di conservazione e trasmissione. Sono loro che gestiscono i saperi e li mettono a frutto nei fatti concreti. In questo ambito, la diffusione dei professionisti/knowledge workers rappresenta molto più di un arricchimento delle mansioni dei lavoratori tradizionali. Questa è una delle trasformazioni dalle conseguenze più vaste e rilevanti di cui probabilmente siamo ancora ben lontani dall’aver compreso e valutato la portata.
La più importante, la più significativa di queste trasformazioni è che l’economia della conoscenza, l’economia della fusione tra informazioni, saperi e tecnologia è caratterizzata da un differente livello di equilibrio rispetto alla precedente. Si vince solo se si alimenta costantemente l’innovazione e, come dimostrano i più recenti successi sul mercato, se vincono tutti: la relazione esistente tra le grandi imprese, i grandi successi e i tanti soggetti imprenditoriali e professionali di nicchia è una sorta di competizione cooperativa, simbiotica. Una specie di ecosistema in cui convivono anche tanti altri: predatori, vittime e soggetti indifferenti. I nuovi soggetti dominanti sono però quelli che vivono, per così dire, in simbiosi fra di loro.
Tale riflessione evolutiva è di fondamentale importanza per leggere gli scenari prossimi venturi e capire come può evolvere il nostro Paese in termini competitivi: nell’economia tradizionale i prodotti/servizi “best-seller” toglievano spazio agli altri. Tra i primi e i secondi vigeva la legge di Pareto sulla distribuzione della ricchezza: il 20% dei prodotti/servizi generava l’80% del fatturato. Nelle riallocazioni distributive del capitalismo intellettuale queste logiche non esistono più: le “killer application”, i prodotti/servizi più competitivi sono quelli che si mettono meglio al servizio degli altri, sempre più spesso attraverso la rete. Si pensi a Google: esiste ed ha ragione di essere perché esistono tutti i siti che contribuisce a trovare, così come i siti di nicchia hanno senso perché esiste un motore di ricerca che consente di farne emergere i contenuti.
Il salto di paradigma è straordinario: mentre nell’economia industriale il valore era dato solo dalla scarsità (si pensi al prezzo delle materie prime), ora il valore è dato anche dall’abbondanza. Nel sistema economico delle reti quanti più telefonini ci sono tanto più conta e ha valore quella rete. Tutta la storia più recente del capitalismo andrebbe riletta sotto questa nuova luce: non si fa più competizione individuale, si fa competizione cooperativa, simbiotica. Non si vince più da soli: o vincono tutti o, spesso, non vince nessuno.
Italia, liberalizzazioni e concorrenza
Uno scenario globale con una sola derivata chiara e trasparente per il nostro Paese. La consapevolezza per cui l’economia italiana non ripartirà veramente finché non verrà liberata dai mille vincoli che bloccano la condivisione concorrenziale della conoscenza e consentono l’accumularsi di rendite di posizione di pochi, pagate dai molti soggetti che operano sul mercato senza ombrelli monopolistici. La politica delle liberalizzazioni ha bisogno di alcune prime realizzazioni, per essere vista come un’avanzata graduale ma inarrestabile. Lo abbiamo già detto: le lobbies si opporranno (come stanno già facendo) ed è proprio questo il momento più critico perché, nonostante i primi provvedimenti, le liberalizzazioni stesse sono tutt’altro che acquisite. Se la tensione si allenta, le corporazioni si riorganizzano. In ogni caso, non possiamo dimenticare che si tratta di riforme strutturali che tutti attendono da anni. E questo anche se si tratta di una strada in salita in cui occorre convincere gli interessati che la concorrenza, se pur riduce in termini percentuali le singole quote di mercato, in termini assoluti aumenta la torta e, quindi, i profitti, i posti di lavoro e le opportunità, purché s’inneschi un processo competitivo basato sull’innovazione e sulla migliore qualità dei servizi.
In questo ambito, appare evidente che i nostri professionisti (protetti, regolamentati o completamente esposti alla competizione per la totale assenza di regole) sono, di fatto, penalizzati dall’inefficienza complessiva in termini di corretta competizione della nostra attuale regolamentazione. Infatti, il nostro sistema di regolamentazione professionale reagisce male al processo di cambiamento descritto in precedenza perché è un sistema di regolazione pensato nei primi del ‘900 quando i professionisti, cioè i detentori della conoscenza, erano una quota assolutamente marginale del sistema economico (circa il 3,5 per cento). Esisteva il primario, l’agricoltura e poco secondario, l’industria. Nella fase attuale, dove il terziario rappresenta i 2/3 del nostro sistema economico, il sistema non regge più perché, essendo stato progettato su piccoli numeri e poche professioni (le grandi professioni generaliste) si basa su un modello che compensa l’asimmetria informativa tra professionista e il cliente/consumatore/utente avocando allo Stato la tutela del cliente stesso, attraverso l’esame di Stato e l’inserimento nell’ordine professionale.
Questo sistema ha garantito un livello minimo adeguato fino a quando la velocità di mutamento dell’economia della conoscenza non ha cambiato le regole del gioco: come già detto, i professionisti/knowledge worker sono ormai il fulcro dello sviluppo economico attraverso i processi di diffusione dei servizi professionali in tutti i contesti produttivi, con i conseguenti meccanismi di specializzazione delle grandi professioni generaliste e l’emergere, continuo e tumultuoso, di nuove professioni generate dai processi d’innovazione del mercato.
Un simile contesto evolutivo genera poi la necessità di un’ulteriore riflessione. Ogni sistema capitalistico, infatti, tende in via principale ad una finalità: l’imprenditore vuole fare profitto attraverso un processo di consolidamento monopolistico o oligopolistico della sua quota di mercato nel settore di riferimento. Una configurazione tipica di tutte le attività economiche, comprese le professioni intellettuali. In questo ambito, la risaputa mancanza di equità nella distribuzione delle quote di mercato del nostro sistema professionale dimostra che il sistema di accesso da molti considerato un ostacolo finalizzato a mantenere assetti oligopolistici in realtà non è un problema. Se si pensa ai numeri straordinari di crescita delle professioni ordinistiche degli ultimi dieci anni, ci si può rendere conto che non si tratta di un problema di concorrenza in accesso ma di concorrenza interna: se i giovani non possono dispiegare strumenti economicie di marketingefficaci per competere con chi è più forte e/o più grande, le quote di mercato rimangono consolidate ed i processi di crescita avvengono solo per cooptazione. E’ per tali ragioni che il sistema rimane vetusto e bloccato sulle rendite di posizione esistenti.
Quelli evidenziati sono tutti problemi strutturali negativi a cui dobbiamo trovare una soluzione se vogliamo essere competitivi e, nel contempo, equi. In quest’ottica vale la pena di sottolineare che una completa liberalizzazione del sistema attuale non è “la soluzione”. E’ evidente che la tradizione delle nostre professioni ordinistiche non va persa in termini di contributo al sistema competitivo. C’è bisogno però di rinnovare profondamente. Via libera dunque ai provvedimenti di liberalizzazione contenuti del Decreto Cresci Italia anche se, onestamente, sui servizi professionali ci si poteva aspettare di più. C’è poco di nuovo e, soprattutto, una importante omissione che mina la possibilità di conseguire un ulteriore, effettivo recupero di competitività per il nostro Paese. Proviamo a sintetizzare:
- ·l’abolizione delle tariffe obbligatorie è una battaglia già vinta dalle “lenzuolate” Bersani . Il provvedimento fa bene, però, a ribadirla perché era (ed è tuttora in atto) una corsa al loro ripristino sottotraccia;
- ·all’Antitrust non va affidato solo il controllo sulla pubblicità sottraendola agli ordini, ma anche l’identificazione delle riserve di attività ancora utili e la possibilità di intervenire per l’abolizione delle imposizioni di pratiche corporative agli iscritti;
- ·fondamentale la possibilità di costituire società di capitali, ferma restando la personalità della prestazione intellettuale. Sarà un caso ma, nelle professioni tecniche dove le abbiamo da 18 anni, l’Italia ha un avanzo costante nella bilancia commerciale.
- ·ridurre il numero degli ordini attraverso accorpamenti è una necessità logica se si pensa in termini di razionalizzazione delle competenze
E veniamo all’omissione. Affidare agli ordini, enti pubblici monopolisti, il compito della garanzia dell’offerta è come chiedere all’oste se il vino è buono. E dunque, cosa bisognava fare di più e cosa si potrà fare nel prossimo futuro? Credo che la strada giusta sia quella tracciata da OCSE, UE e dai tanti tavoli di confronto aperti in questi anni:
- L’esercizio delle professioni viene assoggettato, come avviene nella legislazione comunitaria, alle regole della concorrenza.
- Gli ordini professionali vengono ricondotti al progetto originario per il quale furono creati: accertatori del possesso della conoscenza di base per l’esercizio di una attività costituzionalmente protetta e magistratura speciale per il controllo del comportamento etico del professionista.
- Per gli ordini che non hanno esame di Stato o che non incidono su attività costituzionalmente protetta, viene meno l’obbligo d’iscrizione.
- Accesso per i professionisti, con particolari facilitazioni per i giovani, agli strumenti di competizione veri (multidisciplinarietà, pubblicità, marketing, compensi a forfait “all inclusive” per servizi intellettuali complessi) finalizzati ad aggredire le quote di mercato dominanti dei grandi studi professionali. I quali, a ben vedere, lavorano sempre per le grandi imprese ed hanno costi sempre troppo onerosi per piccole e piccolissime imprese.
- Riconoscimento delle libere associazioni professionali, quelle ben strutturate, con statuti democratici, senza fine di lucro, con una chiara identificazione delle attività professionali di riferimento, con un codice etico adeguato ed applicato, iniettando così il vero virus della competitività nel sistema professionale, che devono essere ammesse al rilascio degli attestati di competenza sia per le attività professionali per le quali vi è libertà di esercizio che per le specializzazioni delle attività professionali già regolate in ordine. In questo secondo caso i soggetti percettori degli attestati essere iscritti all’albo professionale e devono seguire le regole deontologiche fissate dagli ordini di appartenenza.
Associazioni professionali, tutela dei consumatori e crescita
L’ultimo punto citato riveste una particolare importanza. Il riconoscimento giuridico di un sistema associativo sulla base dei modelli prefigurati a livello OCSE e comunitario va considerato sulla base di una logica innovativa di valorizzazione competitiva delle nuove professioni o delle specializzazioni delle tradizionali professioni generaliste che tende a condensarsi attorno ad un forte approccio al mercato dei nuovi ruoli professionali. Attraverso un riconoscimento finalizzato a valorizzarne la riconoscibilità/visibilità nel sistema socio-economico, si genera una maggiore consapevolezza da parte del cliente/consumatore/utente rispetto alla qualità delle prestazioni professionali erogate (riduzione delle asimmetrie informative).
In questo senso, il sistema associativo offre vantaggi competitivi importanti rispetto al sistema ordinistico perché:
- a)non è “monocratico” ma stellare;
- b)non opera in termini di riserve e di esclusività;
- c)dunque, non rappresenta un ostacolo al pieno dispiegamento dell’offerta professionale sul mercato;
- d)di conseguenza, la maggiore concorrenza genera vantaggi molto più numerosi per la clientela.
Le associazioni professionali, infatti, non sono altro che raggruppamenti privati di professionisti che, attraverso un processo di autoregolazione e standardizzazione concorrenziale delle prestazioni, garantiscono le qualità professionali dei propri iscritti nei confronti dei soggetti terzi. Lo svolgimento di tale funzione viene riconosciuto come meritevole in termini di bene collettivo dallo Stato il quale, attraverso l’analisi e la valutazione di una serie di requisiti strutturali della singola associazione, offre loro visibilità pubblica per il tramite di un riconoscimento giuridico e dell’inserimento in un apposito registro al quale tutti (Istituzioni, clienti/consumatori e imprese) possono accedere.
E tale visibilità può essere data anche a più associazioni sullo stesso segmento, laddove è evidente che la concorrenza fra più associazioni tende a tenere ancora più elevata (come avviene normalmente sul mercato) la qualità delle prestazioni professionali. Non solo, ma la concessione del riconoscimento ad una o più associazioni non preclude il fatto che ci possano essere professionisti che esercitano sullo stesso segmento in forma individuale senza essere iscritti a nessuna associazione. Il che consente anche di dare livelli diversi di risposta/offerta a una domanda che non è mai sempre uguale: ci sono persone, imprese, committenti che chiedono una certa tipologia di prestazioni professionali, ci sono altre fasce di clienti/consumatori/utenti più o meno sofisticate che chiedono altre tipologie di prestazioni. E il mercato, per essere equo e competitivo, deve essere in grado di dare risposte diversificate e ottimizzate sul piano economico e dei prezzi per i diversi segmenti di clientela.
In questo senso, il riconoscimento del sistema associativo, cioè la delega da parte dello Stato a più soggetti esponenziali di riaggregazione dei professionisti di un determinato segmento professionale, può generare risultati superiori in termini di benessere sociale rispetto alla tradizionale regolamentazione pubblica di tipo ordinistico. E ciò anche perché è chiaramente verificato e verificabile che i nostri ordini professionali hanno spesso un forte interesse economico a diffondere quanto meno possibile informazioni relative alle ampie e profonde differenze di qualità esistenti tra i propri iscritti: tutto questo al fine di fornire al cliente/consumatore/tempo l’immagine omogenea di una realtà in cui i servizi sono di qualità uniformemente elevata in modo da evitare quanto possibile la richiesta di processi concorrenziali che mettano a confronto le diverse prestazioni erogate sul mercato e di giustificare la propria posizione di preminenza monopolistica. D’altra parte, è chiaro (e la UE lo riafferma in modo assertivo e stringente) che le restrizioni della concorrenza nei servizi professionali molto difficilmente sono veramente ed effettivamente giustificate da esigenze di interesse generale. Di qui la consapevolezza del potere deterrente della concorrenza nel limitare o scoraggiare le varie forme monopolistiche o di rendita di posizione.
Conclusioni
In conclusione, riprogettare il sistema delle professioni vuol dire non solo incidere su nodi strategici dell’economia come la qualità dei servizi alle imprese ed alle persone oppure come l’apertura di nuovi sbocchi professionali per i giovani. Vuol dire anche e soprattutto proporsi l’obiettivo di garantire meglio il consumatore sulla capacità specifica del professionista cui si affida. Le nuove regole devono essere pensate per tutelare i consumatori più deboli attraverso la costruzione di un meccanismo finalizzato a trasmettere in modo corretto le informazioni utili per il cliente.
Attraverso il riconoscimento del sistema associativo si darebbe finalmente ai cittadini la possibilità di compiere scelte di consumo consapevoli, etiche e responsabili, garantite non solo dall’imprenscindibile valutazione di merito delle competenze del professionista ma anche da un efficace e corretto processo di trasparente diffusione sul mercato di elementi quali standard medi delle prestazioni, costi/prezzi più vantaggiosi, aspetti deontologici, garanzie in caso di abusi.
Una norma a costo zero che metterebbe ancora meglio al servizio del cliente/consumatore/utente un mondo fatto complessivamente di circa 3.800.000 professionisti che producono il 9,1% del PIL a livello individuale ed il 21,1% se si considerano anche le società con cui molti esercitano l’attività professionale, facendo altresì emergere parte di questo enorme mondo a livello di base imponibile, gettito fiscale, contributi previdenziali, contributo ulteriore al PIL (+0,5% nell’ipotesi più prudente).
Angelo DEIANA
Presidente Comitato Scientifico CoLAP; Coordinamento Libere Associazioni Professionali