L’Euro: chi cerca il colpevole chi attende il salvatore

di Vito Tanzi

Perché gli Stati europei hanno bisogno di una severa disciplina di bilancio, non di un’unione fiscale

Le difficoltà che i Paesi dell’Unione monetaria europea stanno attraversando in questi mesi hanno creato un’industria letteraria in forte attività, fatta di commenti e articoli scritti da presunti “esperti” che annunciano la fine prossima dell’euro, mentre attribuiscono a questi o a quelli la colpa di tutto ciò. Mentre l’annuncio della fine dell’euro potrebbe essere prematuro, la discussione sulle cause di quella fine, e a chi o a che cosa sia da attribuire la responsabilità, sicuramente continuerà negli anni a venire.

 

Alcuni famosi economisti (tra cui Martin Feldstein, in vari articoli, e Milton Friedman, dodici anni fa, prima della sua morte, in un commento rilasciato in Brasile) avevano considerato il disegno originale dell’euro come strutturalmente difettoso, e avevano anticipato che l’esperimento sarebbe fallito. Le ragioni che avevano addotto erano: la mancanza di flessibilità in Europa nel mercato del lavoro, la mancanza di mobilità dei lavoratori da Paese a Paese (a causa di ostacoli strutturali e differenze linguistiche), l’assenza di un’autorità fiscale a livello europeo, assieme ad altre difficoltà di minor rilevanza. Questi elementi avrebbero impedito l’assorbimento da parte di tutto il sistema di shock a livello locale. Presumibilmente questi problemi non esistevano nell’unione monetaria costituita dagli Stati Uniti d’America.

Altri “esperti” hanno diretto le loro critiche non all’architettura del sistema, ma all’incapacità da parte di alcuni elementi del sistema stesso di reagire alla crisi finanziaria ed economica degli ultimi quattro anni, considerata di carattere ciclico, e a presunti “attacchi speculativi”. Ci sono state anche critiche alla Banca centrale europea per non aver agito come lender of last resort (prestatore di ultima istanza), finanziando i governi in difficoltà. Altri hanno accusato la Germania per non aver seguito una politica fiscale più espansionistica e più altruistica, per non aver permesso (finora) l’emissione di Eurobond, buoni che avrebbero la garanzia non solo dei Paesi di emissione, ma di tutti i Paesi dell’euro. Ci sono state anche critiche contro il gruppo dei G-20, per non aver messo a disposizione dell’Europa le ampie risorse che alcuni dei Paesi emergenti (Cina, Brasile, Russia ecc.) hanno accumulato negli ultimi anni.

In aggiunta, alcuni economisti criticano con preoccupazione la sound finance e favoriscono la functional finance, cioè una politica fiscale più espansionistica, per far emergere l’Europa da una situazione considerata recessiva per carenza di domanda, come sostengono le teorie keynesiane. Secondo queste teorie con una più alta spesa statale e un ulteriore indebitamento pubblico si potrebbe creare la domanda necessaria a fare uscire i Paesi dalle crisi.

Una discussione dettagliata di tutti questi aspetti richiederebbe troppo spazio. Mi limiterò a fare qualche osservazione su alcuni punti.

L’Unione monetaria europea nacque come una specie di club in cui un Paese sceglieva se appartenere al club oppure no, dopo aver soddisfatto alcuni requisiti iniziali e dopo aver fatto alcune promesse in merito ai comportamenti futuri. Quelli che decisero di farne parte presero impegni precisi, come si fa in tutti i club.

Questi impegni richiedevano alcune riforme strutturali e specialmente la disciplina dei propri conti pubblici. Oggi è evidente che molti Paesi non hanno rispettato gli impegni sottoscritti. Alcuni possono fin dall’inizio aver anche mentito sulla loro situazione. Taluni Paesi non hanno rispettato gli impegni presi anche perché i loro governanti credevano, o furono convinti dai loro consiglieri economici, che l’indebitamento avrebbe aiutato l’economia a crescere più rapidamente. Per di più, alcuni Paesi riuscirono ad allentare gli impegni che avevano assunto, quando modificarono il Patto di stabilità e crescita. In conclusione, i problemi che si crearono non possono essere attribuiti all’euro, ma principalmente all’inosservanza degli impegni presi.

Il secondo aspetto che vorrei discutere è la mancanza di un’autorità fiscale a livello europeo. Alcuni osservatori vedono il caso americano, con un governo federale che ha importanti responsabilità fiscali, come l’esempio che avrebbe dovuto essere seguito e che dovrebbe essere adottato in futuro. Si chiede ora la creazione di una struttura fiscale europea con potere di controllo sui conti pubblici nazionali. Se gli stati americani, che compongono il governo federale, avessero avuto la libertà di indebitarsi a piacimento (come hanno fatto la Grecia, il Portogallo e altri Paesi della zona euro), le differenze tra gli Stati Uniti e l’Unione monetaria europea sparirebbero. Le differenze sussistono perché la gran parte degli stati americani ha leggi che impongono il pareggio dei conti pubblici. A dispetto di quest’obbligo, alcuni stati, come la California, stanno attraversando grandi difficoltà perché hanno fatto spese che li hanno portati ad accumulare debiti correnti e anche grandi debiti futuri (contingent liabilities che non appaiono ancora nei conti ufficiali), specialmente in relazione agli obblighi assunti verso i dipendenti e i pensionati statali. È improbabile che questi stati saranno capaci di affrontare queste spese future, ed è improbabile o impensabile che il governo federale o la Banca centrale americana possano andare in loro soccorso. Saranno costretti a fare le riforme necessarie per diminuire le proprie uscite, e alcuni degli stati hanno già cominciato a farle.

Non c’è nessuna illusione che la soluzione verrà da fuori, anche perché il governo federale (cioè nazionale) ha accumulato grossi debiti, presenti e futuri.

Un aspetto che non sembra essere compreso, anche dalla più parte degli economisti, è che le differenze che esistono tra gli stati americani, sia nei tassi di disoccupazione sia in quelli dell’inflazione, sono spesso altrettanto grandi o anche più grandi di quelle che esistono tra i Paesi dell’Unione monetaria europea. È sbagliato credere che l’esistenza di un governo a livello federale, o la flessibilità del mercato, eliminerebbero queste differenze. Per esempio, secondo le ultime statistiche disponibili, in Nevada il tasso di disoccupazione è ora al 12,7 percento e quello della California è all’11,2 percento, mentre nel North Dakota la disoccupazione è solo al 2,6 percento e nel Nebraska è al 3,8 percento. Anche il tasso d’inflazione varia da regione a regione. Per l’inflazione ci sono solo statistiche a livello di città, e non di stato. Secondo gli ultimi dati, Dulles (in Texas) ha un’inflazione del 4,4 percento, mentre Los Angeles (in California) ha un’inflazione del 3,1 percento.

Un’autorità a livello europeo avrebbe probabilmente meno successo nel controllare le spese dei vari Paesi di quanto non possano averne leggi severe che obblighino tutti i Paesi a non indebitarsi. Nell’Unione monetaria europea il peccato originale fu quello di permettere ai Paesi di avere debiti pubblici fino al 60 percento del Pil e di indebitarsi ogni anno fino al 3 percento del Pil. Per di più, non ci sono state conseguenze per i Paesi che non hanno osservato questi pur deboli vincoli. Anche senza la crisi finanziaria, le difficoltà ci sarebbero state di sicuro, anche se forse con qualche anno di ritardo.

Date le condizioni esistenti nei conti pubblici dei diversi Paesi, e considerati gli ostacoli che molti governi stanno incontrando nelcoprire con finanziamenti legittimi e a costi ragionevoli i debiti che hanno accumulato, è assurdo chiedere – come alcuni continuano a fare – che i governi introducano una spinta di tipo keynesiano. Nelle condizioni attuali tale spinta non può avvenire e, anche se potesse avvenire, non produrrebbe i risultati sperati.

Taluni chiedono addirittura che l’espansione o il finanziamento dei debiti sia fatto dalla Banca centrale europea, a cui attribuiscono il titolo di lender of last resort. Una banca centrale non può essere un lender of last resort per i governi, ma solo per il sistema bancario, e tecnicamente solo per alcune banche. Naturalmente, nel breve

termine, può cercare in qualche occasione di limitare la variazione giornaliera nel rendimento di taluni strumenti finanziari.

È straordinario come alcuni economisti dimentichino le lezioni della storia. O forse non le hanno mai imparate. La storia ci insegna che l’espansione monetaria, se sostenuta, porta sempre all’inflazione e le condizioni dell’economia reale non impediscono questi risultati. Negli anni Ottanta l’Argentina ebbe una riduzione del 15 percento del suo Pil reale (una vera “depressione”), mentre i prezzi andarono alle stelle. Già nell’area dell’euro l’inflazione media è ora del 3 percento, a dispetto della debolezza delle economie. È facile immaginare cosa succederebbe se la Banca centrale europea cominciasse a finanziare, direttamente o indirettamente, il debito pubblico.

A proposito, con un’inflazione del 3 percento i rendimenti reali (cioè corretti tenendo conto dell’inflazione) dei buoni del tesoro sono meno alti di come si pensa. Un rendimento nominale del 6 percento diventa un rendimento reale del 3 percento una volta aggiustato in rapporto all’inflazione. Storicamente il 3 percento era stato ritenuto un rendimento normale. I rendimenti nominali di alcuni Paesi come l’Italia al momento sembrano molto alti solo se comparati con gli straordinariamente bassi livelli degli ultimi anni.

In conclusione, l’Europa ha la possibilità di uscire dalla crisi facendo riforme che avrebbe dovuto fare anni fa e che l’aiuterebbero a diventare più efficiente e più competitiva. Tra queste riforme ci dovrebbero essere quelle che riducono la spesa pubblica inefficiente, e riforme di carattere strutturale che darebbero più flessibilità all’economia e più equità all’azione dei governi. Rimane da vedere se i governi saranno capaci di fare queste riforme. Tutte le altre alternative proposte non sono vere alternative: sono solo sogni.

VITO TANZI. Fra i più noti economisti italiani al mondo, Vito Tanzi è stato direttore del Dipartimento di Finanza Pubblica del Fondo Monetario Internazionale dal 1981 al 2001, e Sottosegretario all’Economia e alle Finanze dal 2001 al 2003.

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