In Italia purtroppo e molto spesso, la globalizzazione è stata vista in molte imprese come una minaccia alle posizioni acquisite, spesso di nicchia, invece che come una straordinaria occasione di rilancio a scala planetaria dei propri prodotti e delle proprie tradizioni industriali. In questo atteggiamento diffuso, di chiusura e di lentezza a capire i mutamenti di scenario, hanno forse giocato anche un ruolo importante le difficoltà delle imprese a capire che cosa bisogna cambiare e quali sono le manovre essenziali da compiere. Il provincialismo e talora le semplificazioni che caratterizzano la nostra cultura economica e di impresa ci hanno fatto ritardare azioni e riflessioni che potevano essere fatte prima.
Le riflessioni che seguono cercano di dare una risposta alla domanda che oggi tutti ci poniamo: che cosa bisogna migliorare per fare uscire dalla crisi il nostro sistema industriale? Credo che molti spunti possono venire da una domanda simile : che cosa possiamo imparare dal caso Fiat?
Una prima riflessione riguarda i fattori principali che consentono di competere nel mercato mondiale. La varietà e diversità delle situazioni settoriali è ovviamente enorme ed è quindi molto difficile fare delle sintesi generali. Tuttavia è sempre più chiaro che le imprese che hanno successo nel mercato globale sono quelle che riescono contemporaneamente a manovrare efficacemente su tre ambiti diversi ma in modo sinergico.
In primo luogo è importante la gamma dei prodotti e la rete di vendita globale. Pur nella diversità e specificità dei prodotti e dei marchi bisogna essere in grado, da un lato di ampliare e innovare la gamma dei prodotti per renderla appetibile a scala globale, ma dall’altro lato bisogna saperla rendere semplice dal lato produttivo per ottenere economie di scala adeguate, attraverso opportune modularità e standardizzazioni. Basta ricordare quanto sia stato rilevante, nella crescita che negli ultimi anni ha caratterizzato il gruppo Volkswagen, il sistema di modulazione multipla dei prodotti indicato come “multipiattaforma”.
In secondo luogo è rilevante la struttura snella ed efficiente delle fabbriche e di tutti i centri logistici e progettazione. Sul raggiungimento di performance elevate di costi, qualità, tempi e flessibilità c’è ormai una vasta letteratura e molteplici esperienze. Esse indicano come strada principale quella di adattare i principi del sistema di produzione Toyota alle specifiche realtà produttive dei vari settori industriali.
In terzo luogo è importante il network produttivo globale. Cioè quale è l’architettura della cosiddetta Global Supply Chain, che risolve alcuni problemi cruciali come: dove e cosa produrre (in fabbriche proprie), dove e cosa comprare (da chi approvvigionarsi dei componenti), e con quale sistema logistico rifornire la rete di vendita.
La gestione della Global Supply Chain lega insieme il mondo dei prodotti e della rete di vendita con il mondo della produzione e della catena di fornitura e di acquisto.
A questo punto ci si può chiedere come sta andando il gruppo Fiat su questi tre grandi temi? Dove sta mettendo il suo impegno? Quali sono i risultati visibili? Che cosa possiamo imparare.
Dal punto di vista di un osservatore esterno, posso notare che indubbiamente il Gruppo Fiat ha fatto notevoli passi in avanti, soprattutto nel periodo pre-crisi (2004-08), sul secondo punto citato, relativo alle strutture di fabbrica snelle ed efficienti, con il grosso impegno sulla lotta agli sprechi e al miglioramento continuo in fabbrica. I notevoli successi ottenuti dai vari progetti di WCM (World Class Manufacturing) nel tagliare gli sprechi, migliorare la qualità, l’efficienza degli impianti, la coesione delle persone e i tempi di attraversamento in tutti gli stabilimenti del gruppo sono stati ben documentati. Ma soprattutto si sono visti i risultati nel processo di risanamento del Gruppo tra il 2004 e il 2007. Come è noto Fiat era rimasta piuttosto indietro rispetto agli altri grandi produttori di auto nell’innovazione dell’organizzazione produttiva ispirata ai sistemi Toyota, nonostante che il cambiamento fosse stato lanciato sin dai primi anni ’90 col famoso progetto “Fabbrica integrata”. La rapida diffusione del WCM, (una versione evoluta e molto strutturata del Toyota Production System) nelle fabbriche Fiat dopo il 2005 ha colmato in larga misura il gap che divideva Fiat da quasi tutti gli altri grandi produttori di auto, e ha reso competitivi gli stabilimenti Fiat con quelli dei concorrenti.
Sull’applicazione del Wcm si può fare un solo appunto, a mio avviso, che riguarda il tipo di coinvolgimento diretto dei lavoratori di fabbrica nel processo di innovazione e miglioramento. Come noto, i nuovi modelli ispirati alla Lean production prevedono un protagonismo nuovo e diretto degli operatori (tecnici, managers e operai di fabbrica) che risulta fondamentale per il completo successo del cambiamento. In Italia, per tradizione, il coinvolgimento diretto delle persone è scarso e limitato. Ciò avviene sia a causa delle relazioni industriali, che hanno una base conflittuale, sia a causa delle relazioni dirette di fabbrica che si basano sulla forte gerarchizzazione e sul paternalismo. Ebbene, per avere un pieno successo, il WCM avrebbe dovuto cercare di innovare profondamente anche la tradizione “paternalistica” Fiat, puntando a un coinvolgimento forte e diretto dei lavoratori, in modo non subalterno alla gerarchia aziendale. Ciò implicava, a mio avviso, un qualche accordo con i sindacati non nel merito dei progetti WCM, che sono prerogativa dell’azienda, ma sui modi di procedere nel coinvolgimento stesso (chi coinvolgere, come, con quale intensità). Una convergenza coi sindacati e le RSU su questo punto avrebbe assicurato che il coinvolgimento dei lavoratori non sarebbe stata semplice formazione sul WCM, oppure la scelta top down dell’impresa su chi deve partecipare ai gruppi di lavoro e di miglioramento. Purtroppo, nonostante molti sforzi profusi in questo senso, nulla di questo si verificato. A mio avviso, questo è un grosso punto di debolezza che deve essere superato da tutti e che dobbiamo evitare nel resto del sistema industriale
Diversa e complessa è la valutazione sugli altri punti, cioè sul tema della gamma dei prodotti e sulla integrazione industriale e differenziazione di mercato dei marchi.
Per quanto riguarda la gamma dei prodotti, già la “vecchia Fiat” aveva avuto notevoli difficoltà a valorizzare i marchi Lancia e Alfa Romeo e a integrarli adeguatamente nel proprio sistema produttivo. Pur avendo acquistato questi due marchi da molti anni, la loro valorizzazione è stata deludente sin dagli anni ’90. Nel caso Lancia si è puntato per anni a prodotti-base Fiat che venivano arricchiti con più accessori e un design più curato: esempio tipico è il gemellaggio tra Fiat Punto e Lancia Y, prodotte con leggere varianti sulla stessa catena per molti anni.
Molto a rilento è andata anche l’integrazione industriale delle piattaforme e dei sistemi produttivi tra la gamma Fiat Auto e la gamma Alfa Romeo. Nel caso Alfa Romeo l’integrazione di gamma è stata molto faticosa e talora è sembrato che invece di diffondere ai modelli più bassi le prestazioni tecniche di quelli più alti, si puntasse alla rovescia, cioè attribuire i caratteri del basso di gamma, anche all’alto di gamma. Anche un grande manager del gruppo Fiat, come Giorgio Garuzzo, tra gli artefici del successo industriale degli anni ’80, ha scritto nel suo libro di memorie sugli anni ’80 e ’90 alla Fiat, che se la gamma IVECO e CNH gli appariva ben congegnata da un punto di vista industriale, invece quella di Fiat Auto presentava molti problemi.
Su questa tradizione di difficile integrazione delle gamme prodotti dell’auto, è arrivata la fusione con Chrysler, che ovviamente ha amplificato enormemente i problemi. E’ noto che le automobili americane sono un universo completamente diverso da quelle europee e presentano architetture di prodotto assai distanti; in particolare la distanza è massima tra la Chrysler, che ha molti marchi di alta gamma, e Fiat, che ha tradizione di prodotti “essenziali”, di massa e piccoli. La cosa può essere interessante per la complementarietà sui mercati, ma può essere critica per l’integrazione. Si tratta, in breve, di una sfida straordinaria.
La domanda è se si potrà andare oltre le linee più semplici di integrazione già avviate. Esse, come noto, riguardano: la sinergia tra le catene di vendita, la cessioni di tecnologie, la diffusione del WCM anche in Chrysler. Queste tre linee stanno indubbiamente portando molti benefici in Chrysler e in Fiat (forse in misura minore) ma probabilmente non sono sufficienti.
Il problema è se si riuscirà in un tempo ragionevole ad arrivare a una qualche integrazione e innovazione della gamma prodotti in grado di generare sia un forte interesse dei mercati, con impulso alle vendite, sia adeguate economie di scala, con riduzione dei costi globali di produzione. O non è forse meglio ragionare su gamme e marchi separati, con sinergie limitate a moduli e componenti? Attualmente questa domanda non trova ancora risposta: non ci sono segnali né verso una integrazione forte e rapida delle piattaforme, né verso un parallelismo dei due sistemi, con sinergie parziali con obiettivi propri.
Anche la riflessione sul terzo punto, quello relativo all’architettura dei network produttivi e all’assetto della Global Supply Chain è molto interessante. Anche su questo punto la “vecchia Fiat” aveva mostrato varie difficoltà a cambiare, adottando ben poco schemi innovativi di Supply Chain Management. Sino a fine anni ’90 l’architettura del Network produttivo era basata sul dualismo tradizionale tra stabilmenti “generalisti” in grado di produrre molti modelli, e stabilimenti “dedicati”, cioè progettati e costruiti per produrre un solo modello, con le diverse varianti ovviamente. Lo “stabilimento generalista” era Mirafiori, dove per avere impianti in grado di produrre diversi modelli in funzione del mercato, si mantenevano vecchie linee di assemblaggio, ad alta manualità e a bassa specializzazione, nei montaggi finali. La flessibilità ottenuta con impianti tradizionali conduceva anche ad avere sistemi logistici, di rifornimento e di magazzinaggio dei pezzi e dei componenti molto tradizionali e pieni di sprechi, da un punto di vista “just in time”. Gli altri stabilimenti erano invece dedicati alla produzione di un solo modello (e varianti) o a un gruppo di modelli simili (e varanti). Di conseguenza, presentavano performance leggermente superiori ma strettamente collegate all’andamento della vendita di quel modello. A questa architettura non ottimale, va aggiunta la tradizionale difficoltà di Fiat di sviluppare relazioni evolute e stabili di cooperazione con il sistema dei fornitori di componenti, con i quali si sono diffusi solo lentamente i principali di co-design e di collaborazione di lungo periodo.
Questa eredità della “vecchia Fiat”, di un network produttivo non ottimale e desueto, si è mantenuta anche nel periodo di risanamento del Gruppo dal 2004 al 2008; e purtroppo esso ha oggi indubbiamente un ruolo di appesantimento e aggravamento della crisi. La chiusura dello stabilimento di Termini Imerese e la riorganizzazione di Pomigliano sono indubbiamente mosse in parte obbligate e in parte di innovazione, ma che non sembrano risolutive. Le incertezze recenti nella formulazione del Piano Industriale per l’ Italia e la decisione di costruire lo stabilimento in Serbia sembrano confermare la criticità che l’architettura del network produttivo presenta tuttora per Fiat. Esso appare ad oggi ancora un problema irrisolto, mentre per i concorrenti principali, in primis i costruttori tedeschi, costituisce invece un punto di forza.
In conclusione, ci sembra importante ricordare come nelle imprese che hanno successo nella globalizzazione, i tre argomenti che abbiamo ricordato sopra siano governati e gestiti in modo strettamente integrato. Una forte integrazione tra le soluzioni a questi tre problemi consente infatti di gestire più facilmente la grande complessità che i sistemi industriali devono fronteggiare oggi e che non ha precedenti nella storia industriale del ‘900. Il management deve avere contemporaneamente un visione globale del mercato e del prodotto, una visione d’assieme dell’intero sistema produttivo a rete, compresi fornitori e venditori, e una capacità di mobilitazione delle energie delle compagini di fabbrica con il coinvolgimento delle persone. La vicenda Fiat recente ci insegna che non si può lasciare da parte (e mal risolti) per troppo tempo uno di questi problemi; alla fine le difficoltà vengono amplificate dalla globalizzazione. Inoltre è assai probabile che il più importante dei tre problemi, sia proprio quello di saper mobilitare tutte le competenze e le risorse che stanno in azienda, attraverso il coinvolgimento attivo e diretto dei lavoratori. Ma il coinvolgimento per essere efficace deve essere effettivo, cioè diffuso e condiviso e non soltanto manovrato dall’alto. Su questo punto le relazioni industriali potrebbero fare molto.
di Luciano Pero, docente di Organizzazione per il Mip Politecnico di Milano