Le professioni nel patto per la crescita, un racconto, una proposta

Intervento dell’On. Prof. Pierluigi Mantini

presentazione del volume:

I PROFESSIONISTI A CREMONA. UNA STORIA PLURICENTENARIA
a cura di Valeria Leoni e Matteo Morandi

Associazione Professionisti della Provincia di Cremona

A) Meno ideologia, più politiche per le professioni. Un racconto

 

Dopo l’indagine dell’Antitrust sulle professioni e gli ordini professionali, pubblicata nel noto Rapporto del novembre 1997 che suscitò un vivo dibattito, Massimo Severo Giannini ed il sottoscritto ricevettero l’incarico di svolgere uno studio sul Rapporto, poi pubblicato per i tipi di Maggioli con il titolo “La riforma delle professioni intellettuali in Italia” (1999).

Mi permetto di citare testualmente una parte dell’introduzione e delle conclusioni di quel libro.

« “Corde di sabbia, queste sono solo corde di sabbia”, sbotto John Rockefeller con i suoi colleghi capitani d’industria, nel corso di una cena riservata a New York, in una sera dei primi anni Ottanta del secolo scorso. Si riferiva alle prime intese con le quali avevano cercato di fermare la battaglia dei prezzi e di spartirsi i mercati, dopo anni di sanguinose guerre competitive.

Guerre che avevano lasciato i vincitori con grandi industrie che producevano più di quanto il mercato fosse in grado di assorbire e che ormai lavoravano in perdita. Serve qualcosa di più solido – pensava Rockefeller – per dare stabilità ai prezzi e ai mercati. E così fu lui, con i suoi avvocati, a inventare l’uso del trust…

Si creava così un sistema nel quale pochissime persone erano in grado di concordare le strategie di varie imprese. In altre parole: a decidere erano in pochi e tutto filava liscio.” Con questa bella pagina Giuliano Amato apre il suo libro intitolato “Il gusto della libertà. L’Italia e l’Antitrust” (Laterza 1998).

In effetti, come si avrà modo di chiarire, l’Autorità garante della concorrenza e del mercato, nipote dell’americano Sherman Act del 1890, si è fatta soggetto ispiratore e promotore di una vasta riforma delle professioni che costituisce questione delicatissima non solo dell’agenda politica ma, anche, di ogni seria riflessione sui valori della società del Duemila.

Tesi di fondo dell’Antitrust, ribadita in un nuovo parere (febbraio 1999), è che le professioni intellettuali debbano in tutto equipararsi alle attività delle imprese; gli ordini a vocazione pubblicistica debbano essere aboliti, in favore di libere associazioni private; le tariffe professionali eliminate; la pubblicità pienamente ammessa; le società professionali essere costituite con soci di puro capitale non professionisti, ecc.

L’auspicio principale è lo stesso di Amato: che in futuro non possano esserci altre cene in cui capitani di industria o di finanza decidano come spartirsi i mercati dei servizi professionali.»

Questa l’introduzione; di seguito, invece, alcune conclusioni.

«L’indagine dell’Autorità Garante sulle professioni, come rilevato nel presente studio, costituisce un’utile occasione di riflessione circa le forme di organizzazione e le regolazioni delle attività professionali nell’epoca usualmente definita della globalizzazione dei mercati.

Tuttavia, alcune delle tesi principali ivi sostenute in via propositiva risultano infondate, alla luce del diritto vigente o di considerazioni di carattere metodologico; altre tesi risultano viceversa opinabili o scarsamente condivisibili sotto il profilo dell’opportunità.

Rientrano tra le tesi infondate:

A) la concezione del mercato come “a priori” rispetto al diritto, “luogo delle libertà”, separato dalle regolazioni pubblicistiche e dalle sue istituzioni storiche (tra cui, gli Ordini professionali): il problema non è dunque quello di valutare la sussistenza di “eventuali imperfezioni del mercato (come afferma l’Autorità Garante) ma piuttosto di considerare la rispondenza e l’attualità delle normative esistenti ai fini di pubblico interesse;

B) l’idea che il problema delle “asimmetrie informative” ossia di quel particolare stato di soggezione del cliente/utente dinanzi al potere disciplinare del professionista in ordine alle possibilità di conseguire un certo risultato ed ai mezzi, ai costi, al tempo necessari, sia un problema in sé quasi risolto dalle nuove dinamiche di mercato e non meritevole di specifiche tutele pubblicistiche a garanzia della qualità, della buona fede e della correttezza della prestazione; la trasformazione della prestazione professionale da obbligazione di mezzi in obbligazione di risultati, con le già illustrate conseguenze di aleatorietà delle garanzie e di peggioramento del quadro dei rapporti cliente/professionista e professionista/professionista.;

C) l’abolizione dell’iscrizione obbligatoria agli Ordini o Collegi professionali, che risulta in contrasto con le esigenze pubblicistiche e di responsabilizzazione sociale dei professionisti, affermate dalle recenti leggi che prevedono l’esercizio di funzioni di certificazione legale ausiliarie delle amministrazioni pubbliche, nonché in contraddizione con gli orientamenti assunti sia in sede di regolamento delle professioni in forma societaria che di schema di legge-quadro;

D) la piena libertà di pubblicità che, lungi dal favorire le possibilità dei più giovani, che ben poco avrebbero da comunicare in termini di, risultati conseguiti, si tradurrebbe in un aumento delle tecniche (di massa e quindi di scarsa qualità) di suggestione del pubblico con conseguente aumento dei costi dei servizi.

Rientrano invece tra le tesi scarsamente condivisibili sul piano dell’opportunità:

a) l’ammissione del modello delle società di capitali, con socio terzo di capitale, per l’esercizio delle professioni intellettuali, modello assai poco compatibile, al di là di speciali discipline, con lo svolgimento di attività che richiedono specifiche qualificazioni dei soggetti oltre che con le fisiologiche dinamiche di competizione e di concorrenza del settore;

b) la scarsa considerazione dei percorsi formativi abilitanti alla professione (corsi post-laurea presso Università, Ordini, ecc.) in alternativa sostanziale non solo al tirocinio ma all’esame di Stato come attualmente previsto (nel rispetto dell’art. 33, comma 5, Cost.);

c) l’abolizione delle tariffe professionali o della natura vincolante dei minimi tariffari, che corrispondono invece ad evidenti esigenze di garanzia del cliente oltre che del professionista, sebbene risulti opportuno prevedere sia una maggiore terzietà dell’Ordine in sede di determinazione degli onorari che una soglia di flessibilità dei minimi tariffari per i servizi professionali aggiudicati tramite gara (ferma restando la validità di ogni altra tecnica negoziale di determinazione degli onorari in relazione ai risultati conseguiti, compatibilmente con le previsioni tariffarie).

La fuga verso un modello statunitense (o cinese?) delle professioni non giova alla responsabilizzazione dei mercati e alle migliori garanzie per gli utenti; è invece preferibile una razionale modernizzazione della tradizione europea.»

Mi sono permesso questi ampi riferimenti, ancora attuali ad oltre dieci anni di distanza, perché in seguito, dismessi i panni dello studioso per assumere quelli del politico e del parlamentare, ho provato a mantenere una rotta di azione riformatrice per nulla affatto suggestionata dalle mode di un pensiero dominante, che definirei pseudo-liberista, in materia di professioni e di assai altro ancora, che pure ha affascinato molti.

Ricordo le premesse di Giuliano Amato che, nel capitolo “professioni” del Programma dell’Ulivo per le europee 2004, auspicava la “minore remunerazione dei servizi professionali”, come punto essenziale per la crescita di imprese, banche e assicurazioni.

Ricordo di aver personalmente scritto, con Romano Prodi nella mitica “Fabbrica del Programma” di Bologna, le pagine del programma di governo sulle professioni che includevano, ad esempio, il mantenimento dei minimi professionali per prestazioni di pubblico interesse, e comunque con tariffe sempre negoziabili, pagine che vennero invece subito travolte dalle “lenzuolate di Bersani”.

Ho svolto centinaia di interventi, convegni, articoli, dibattiti per cercare di convincere gli amici del PD che, per chi ha a cuore il lavoro e i lavoratori, è impossibile non vedere che esistono i nuovi lavoratori della conoscenza, il capitalismo intellettuale o individuale, secondo le diverse suggestioni sociologiche. In questo lavoro ho spesso realizzato utili convergenze con Michele Vietti.

È stato impossibile far comprendere che la necessaria modernizzazione degli ordini professionali e dell’organizzazione delle nuove professioni non coincideva del tutto con l’assioma liberista, che lo slogan “aboliamo gli ordini che negano il lavoro ai giovani”, scritto sui manifesti della Sinistra giovanile, era falso e ingiusto, che la convergenza tra Confindustria e CGIL sul punto avrebbe dovuto far riflettere.

Nella mia sofferta decisione di lasciare il PD questa incomprensione delle trasformazioni sociali e del lavoro ha giocato un ruolo non secondario.

Per un decennio mi sono sentito effettivamente dilaniato tra pseudo-liberismo e conservazione, che si sono alimentati a vicenda, in una guerra frontale che ha penalizzato qualsiasi possibilità di una seria azione riformatrice.

Ci sono stati momenti di progresso e di apparente convergenza di opinioni (anche sul mio testo di riforma alla Camera dei Deputati, ove sono stato relatore nella breve XV legislatura).

Ma ancora oggi si stenta ad imboccare la “terza via” delle riforme. È utile che il furore pseudo-liberista si sia attenuato, che i professionisti e le loro organizzazioni siano guardati per ciò che sono, non come un nemico da abbattere o da conservare negli ordinamenti del primo Novecento, non come rentier o speculatori, ma come una straordinaria e variegata risorsa della società della conoscenza da accompagnare nelle difficili trasformazioni.

È tuttavia singolare che, in questa fase più matura, in cui forse sono depotenziati gli scontri ideologici, non vi sia però un sano e pragmatico sdegno per la totale assenza di politiche per le professioni nella crisi economica.

Se non ora quando? Abbiamo presentato decine di emendamenti e proposte in parlamento, troppo spesso in solitudine.

Un approccio riformatore ed equilibrato deve nutrirsi di un sano pragmatismo e della capacità di sostenere le battaglie giuste del momento.

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