Le ambizioni della cooperazione italiana

 

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Sta muovendo i primi passi il dibattito, in Senato, sulla riforma della cooperazione. Il confronto sembra destinato a ruotare attorno alla nuova figura del ministro per la cooperazione (attualmente ricoperta da Andrea Riccardi), introdotta dal governo Monti. Figura salutata con entusiasmo dalla società civile ma fonte di problemi di coordinamento non indifferenti con il Ministero degli Affari esteri (Mae), titolare per legge delle relative competenze.

Il dilemma è se mantenere il nuovo ministero (senza portafoglio), spostando definitivamente le competenze dalla Farnesina, o ripristinare il modello del viceministro degli esteri con delega alla cooperazione, sperimentato (con successo) durante il governo Prodi.

Ruolo ancillare
L’idea del divorzio dalla Farnesina ha le sue ragioni. Alla cooperazione, pur definita dalla legge 49 “parte integrante della politica estera”, all’interno del Mae sembra non essere mai stata riconosciuta una vera caratura “politica”. Al contrario, è spesso sembrato che venisse considerata una sorta di “Bancomat” per dare sostanza ad alcune iniziative politico-diplomatiche.

Questa scarsa valorizzazione ha contribuito, insieme alle generali difficoltà di bilancio dell’Italia, al declino storico delle risorse destinate all’Aiuto internazionale allo sviluppo, che nel triennio 2008-2011 hanno subito una riduzione del 78%. La rigidità e la scarsa flessibilità della macchina ministeriale, l’insufficiente trasparenza ed efficienza del sistema degli esperti e la non sempre adeguata preparazione dei diplomatici su questi temi hanno fatto il resto. Il rapporto tra cooperazione e Mae si è così gradualmente consumato e oggi in molti pensano sia meglio il divorzio.

Per fare cosa, però? L’esperienza dei ministeri senza portafoglio tematici o di coordinamento in Italia (lo sport, i giovani, la ricerca etc.) è stata, infatti, non sempre positiva ed esiste il fondato sospetto che un ministero della cooperazione affidato a una personalità meno capace e autorevole dell’attuale ministro perderebbe molto peso politico, retrocedendo rapidamente in seconda fila. Per dare corpo effettivo al ministero occorrerebbe, inoltre spostare la direzione generale della cooperazione, con tanto di esperti e fondi, presso il nuovo ministero ed evitare il classico compromesso istituzionale all’italiana, con un’incerta ripartizione di competenze, la sovrapposizione con la Farnesina e un ulteriore calo di efficienza.

Nuovo ruolo
L’aspetto più interessante della questione riguarda però altro. Il ministero della cooperazione eserciterebbe (come è sottolineato anche nel recentissimo decreto che definisce le deleghe al ministro Riccardi) una “funzione di indirizzo, promozione e coordinamento” delle attività di cooperazione allo sviluppo di tutti i ministeri, compresi gli Esteri, “al fine di assicurare unità coerenza ed efficacia alla politica di sviluppo nazionale, secondo le indicazioni Ocse/Dac”.

Si tratta dunque di un’idea che si inscrive, da una parte, nel fenomeno di “presidenzializzazione” della politica estera, ovvero il crescente impegno diretto dei primi ministri in campo internazionale; dall’altra in un processo di graduale sottrazione alla diplomazia nazionale di prerogative nel campo europeo, delle relazioni economiche internazionali o nella negoziazione dei grandi trattati su temi globali come l’ambiente o la gestione dei flussi migratori.

Di qui l’idea di collocare a palazzo Chigi un ministero per la cooperazione in grado di coordinare meglio, in quanto dipartimento della presidenza del Consiglio, le nuove forme della politica di cooperazione ed assicurare sia la coerenza dell’azione internazionale italiana, svolta attraverso i canali dei vari ministeri, sia il perseguimento di una finalità di sviluppo economico e promozione delle partnership con i paesi emergenti. Con buona pace del Mae, la cui utilità rimarrebbe legata alla tradizionale rappresentanza generale, ovvero al servizio amministrativo reso attraverso la rete consolare.

Risorse private
Una cooperazione, dunque, con meno interventi e più accordi di partnership, fondata sul “budget support”, la condizionalità nei rapporti economici e commerciali, la comune ricerca di trasparenza ed efficienza tra i governi. Più aiuto in formazione e “capacity building” e meno asili.

Gli interventi diretti saranno lasciati alla responsabilità degli attori pubblici locali, di beneficiari e donatori, oppure agli attori privati (Ong, fondazioni), oramai capaci di una significativa capacità di raccolta fondi, nel privato. Sarà più importante sostenere la società civile con interventi legislativi e amministrativi (5 x mille, riduzioni ed esenzioni fiscali, legge “più dai meno versi, tariffe postali agevolate, servizio civile internazionale) che cercare di darle poche e incerte risorse pubbliche e in tempi biblici.

Della vecchia cooperazione pubblica resterà probabilmente il ruolo di controllo, quello di “last resort” (gli interventi che nessun altro vuole o può fare) e di fissazione di alcuni parametri qualitativi negli interventi. Per il resto, la cooperazione dovrà svolgere un ruolo più ambizioso all’interno della cooperazione bilaterale e favorire una partecipazione più incisiva nelle scelte delle grandi organizzazioni internazionali di cui l’Italia fa parte.

La capacità di concludere accordi di partnership e di co-sviluppo sarà parte sempre più integrante della politica estera nazionale, espressione del modo di essere dell’Italia (e dell’Europa) nel mondo e un asset del “soft power” nazionale.

Anche per questo ragione la cabina di regia di una più ambiziosa politica di cooperazione non potrà che essere condivisa tra il presidente del Consiglio e Mae, titolare della gestione della politica estera del paese.

Condivisione
Il confronto con gli altri partner Ocse anche in questo caso aiuta: secondo “Better Aid – Managing Aid – practices of Dac members countries” (Oecd 2009) l’Italia è isolata nella scelta di non avere istituito una “executing Agency” per gli aiuti, ma non per quella di mantenere al Mae il ruolo di direzione e guida politica, come infatti avviene in molti e importanti paesi tra cui Giappone, Olanda, Usa, Francia e Norvegia.

Sul punto, l’Ocse raccomanda di individuare una figura “senior e controllabile pubblicamente con chiare responsabilità a livello politico” in grado di avere “l’autorevolezza necessaria” a garantire il coordinamento delle attività dei diversi attori.

Questo compito, difficile per il Mae, è impossibile per un ministero senza portafoglio che rimarrebbe un ministero degli aiuti “vecchio stile”, capace forse di ritagliarsi un ruolo tecnico-amministrativo di gestione dei pochi fondi Aps (ruolo che dovrebbe assumere invece un’Agenzia specializzata come chiede l’Ocse), ma privo istituzionalmente della forza, della struttura amministrativa, del know how, dello standing per fare politica del dialogo e della cooperazione a livello più alto.

 

Emilio Ciarlo, della rivista Affarinternazionali, è avvocato e consulente parlamentare. La versione integrale del Documento da cui è tratto l’articolo è consultabile su www.emiliociarlo.it.

 

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