C’è una differenza sostanziale, tra l’Operazione Piombo Fuso condotta da Israele a Gaza nel 2009 e l’Operazione Colonna di Difesa di oggi. Ed è quello che c’è attorno Israele e Gaza. Non solo le opinioni pubbliche arabe, da sempre a sostegno dei palestinesi, e ancor di più negli ultimi anni, fecondate anche – ma non solo – da una informazione regionale non più piegata ai singoli regimi nazionali. Ci sono i nuovi governi usciti dalle rivoluzioni, con una netta e inequivocabile prevalenza di islamisti. È l’islam politico in posizioni di potere, dunque, a gestire in questo momento la crisi, a mediare, a ospitare i due contendenti.
Hamas rafforzato
L’Egitto di Mohammed Morsi ospita al Cairo i colloqui separati con la dirigenza di Hamas e con due funzionari israeliani che fanno la spola con i propri governanti. In ballo non c’è solo un cessate il fuoco che ponga fine al disastro, militare e umano. C’è soprattutto il ‘dopo’. E in questo ‘dopo’ Hamas esce ancora una volta rafforzato da un conflitto, anche in chiave mediatica: Gaza City non è più un posto da evitare, ma è diventata una tragica, paradossale vetrina per i leader dell’area, dal premier egiziano Hisham Qandil, al ministro degli esteri tunisino. E poi, molto atteso, quello turco.
Ad aiutare l’Egitto di Morsi c’è peraltro proprio la Turchia, anzi, c’è Recep Tayyep Erdogan in persona, assieme all’emiro del Qatar, sheykh Hamad bin Khalifa el Thani, che poco meno di un mese fa era a Gaza a portare molti soldi per la ricostruzione. Una terna islamista di non poco conto, negli equilibri della regione, ha in mano la crisi e la sua soluzione.
Se questi sono i protagonisti, è ben evidente che il futuro sarà diverso da quello mediato e concordato per far tacere le armi dopo l’Operazione Piombo Fuso. Quando le ostilità si chiusero, mantenendo comunque la Striscia di Gaza sigillata e il regime di Hamas isolato.
Hamas, in sostanza, è ora a pieno titolo parte dell’ondata islamista nella regione, come lo stesso movimento palestinese aveva sperato quando aveva abbandonato il rifugio non più sicuro di Damasco e aveva sposato – a suo modo – i risultati del Secondo Risveglio Arabo. Questo significa che, a differenza di quattro anni fa, Hamas è un movimento riconosciuto e sostenuto dalle leadership che contano nella regione.
Abu Mazen ai margini
Il primo ministro israeliano Netanyahu aveva, forse, altre ragioni per iniziare un’operazione militare di questo tipo. Saggiare la reazione degli Stati Uniti al secondo mandato obamiano, spingere l’opinione pubblica israeliana a concentrarsi sul pericolo dei razzi che arrivano da Gaza e distogliere lo sguardo dalla frattura socioeconomica che vive il paese, indebolire ancor di più (se pur ve ne fosse stato bisogno) l’Autorità nazionale palestinese (Anp).
È solo quest’ultimo obiettivo, l’indebolimento dell’Anp, che Netanyahu ha finora raggiunto. Perché l’Anp è del tutto scomparsa dagli schermi di questa crisi, gestita in toto da Hamas. Lo ha detto chiaro e tondo, intervistato da Amira Hass per Haaretz, uno dei leader di Hamas in Cisgiordania. “Se Israele vuole continuare a esistere nella regione – ha detto Mahmoud A-Ramahi – deve aprire un canale di dialogo politico con l’islam politico della regione, compresa Hamas”.
E a conferma di un risultato potenzialmente diverso da quanto Netanyahu aveva preventivato, ci sono le indiscrezioni sui ‘negoziati’ in corso al Cairo. In ballo è una tahdiyya, una tregua di lunga durata, che gli israeliani chiedono a Hamas. Non era, forse, quanto si stava già trattando con il capo dell’ala militare di Hamas, Ahmed al Jabari, di cui parla in questi giorni proprio colui che aveva partecipato ai pourparler, e cioè Gershon Baskin?
Pietra tombale
Una tahdiyya, una tregua di 15 anni. Una tregua, e non una pace. Una proposta non nuova, per Hamas, che anzi ha sempre osteggiato l’idea di una pace con Israele, proponendo al contrario una tregua. Ebbene, di questo ora si discute al Cairo, con anni di ritardo e migliaia di morti (palestinesi e israeliani) sotto le lapidi di un conflitto che dimentica presto gli errori.
Se ne è parlato da decenni, della tregua al posto della pace: lo aveva proposto sheykh Ahmed Yassin, pochi giorni prima che l’allora premier Netanyahu desse l’ordine nel 1997 di eliminare Khaled Meshaal, scampato all’avvelenamento da parte del Mossad. Lo aveva proposto Ismail Abu Shanab, terzo nella nomenklatura di Hamas, prima che il premier Ariel Sharon desse nel 2003 l’ordine di ucciderlo, in un omicidio mirato simile a quello in cui è stato ucciso Ahmed al Jabari.
Tregua, e non pace: la pietra tombale sul processo di Oslo, sulla soluzione dei due Stati e su un modo di trattare il più difficile dei conflitti mediorientali. Dalla tregua al posto della pace parte un altro capitolo, di questa storia luttuosa. Un capitolo che riguarda a pieno titolo la stessa ricomposizione della politica palestinese, in cui a essere preminente non è più l’Anp, ma l’Olp.
Paola Caridi, Rivista Affari Internazionali (http://invisiblearabs.com/) è giornalista.