Non è impresa facile decifrare gli esiti della ripresa dei rapporti fra Governo e parti sociali, avviata nei giorni scorsi, prima con le rappresentanze imprenditoriali e ieri con i sindacati dei lavoratori. Certo è positivo che si ricominci a parlare senza quel pregiudiziale «con voi parliamo ma poi siamo noi che decidiamo» che ha portato da una parte a qualche difetto di tecnicalità in alcuni recenti decreti e dall’altra a qualche enfatico richiamo al primato della concertazione. Ma sarebbe un risultato non sufficiente per dare concretezza al confronto sui temi della ripresa e in particolare sui temi delle politiche per l’impresa.
A tutt’oggi infatti non è dato sapere se su tali temi il governo vuole privilegiare un impegno a livello europeo; o se vuole (anche) attivare una riassunzione di responsabilità delle diverse componenti domestiche del nostro sistema di imprese.
Se fra queste due scelte vale la prima, allora è naturale legare l’attenzione in primo luogo al fatto che solo contrattando a livello europeo si possono sciogliere i nodi finanziari e monetari che rendono le nostre banche e le nostre imprese prive della elementare sovranità di decidere gli investimenti; e in secondo luogo al fatto che solo a livello europeo si può comparativamente prendere atto del deficit di produttività e prendere conseguenti impegni per innalzarlo verso la media dei nostri partner. Se questa fosse la duplice scelta del governo, allora si capirebbero i sospetti con cui alcuni osservatori hanno avvertito negli incontri di mercoledì scorso e di ieri una tacita richiesta di non causare problemi prima della trattativa che si avvierà in Europa nelle prossime settimane.
A smentire tali sospetti basterebbe l’enfasi con cui il Governo ha dichiarato che oggi sono le imprese («tocca a voi») a fare ripresa, sviluppo, investimenti, nuova vitalità e rinnovata fiducia sul sistema, sfruttando magari anche quegli orizzontali interventi sui fattori messi in atto negli ultimi mesi. Una chiamata a responsabilità che molti aspettavano, nella convinzione che dalla crisi si esce certo con impegni «in trasferta», ma anche con attenta coltivazione del «foro interno».
Se tale orientamento è sincero (e non c’è davvero motivo di dubitarne) allora il discorso deve diventare più serio e complesso della attuale propensione a privilegiare la contrattazione di secondo livello, aziendale o comunque periferico.
Non si può infatti ridurre a pura vicenda contrattuale la ricchezza della nostra periferia, fatta dalle centinaia di migliaia di piccole imprese; fatta dal germogliare della media impresa e di finora sconosciuti nuovi capitalisti; fatta dalla dinamica dei distretti (nella loro coesione interna come nella ricerca di un comune destino internazionale); fatta dalla dinamica delle migliaia di crisi aziendali che si profilano all’orizzonte; fatta da assetti policentrici (e più che «federalisti») dei poteri locali; fatta dal pullulare di giovanili ambizioni politiche, spesso anticentraliste; fatta anche e forse specialmente dalla condensazione a livello locale dell’opinione quotidiana, di sfiducia come di speranza e responsabilità.
Se si tiene conto allora che l’Italia è tendenzialmente fatta di dinamiche periferiche allora è evidente che i rapporti di concertazione vanno orientati verso la dimensione territoriale e locale: meno dibattiti di alta politica economica e meno dialettica di vertice (fra domanda e offerta di provvedimenti); e più attenzione alle tante variabili che contrastano le imprese e la loro crescita, con le conseguenti esigenze di semplificazione, liberalizzazione, sburocratizzazione ecc.
Ed è pensabile che in connessione a ciò cambierà anche il peso dei vari protagonisti del rapporto di concertazione: in prima linea ci saranno verosimilmente le rappresentanze dei mondi più minuti e periferizzati (quelle, per intendersi, di Rete Imprese Italia e di Alleanza Cooperativa); e ci saranno anche, cosa ancora più nuova, gli apparati amministrativi periferici, finora grandi assenti dai tavoli della concertazione. Una duplice dinamica appena agli inizi, che comporterà qualche progressiva maturazione, ma che è verosimilmente non reversibile.
Giuseppe De Rita, Presidente del Censis