Pierluigi Mantini, presidente della Consulta professioni dell’Unione di Centro: «noi avremmo osato di più… ma la riforma ha il merito di aggiornare un quadro normativo assolutamente vetusto. Forse, come diceva S. Agostino, è meglio zoppicare sulla strada giusta che correre lungo quella sbagliata».
«La riforma dell’ordinamento professionale forense, approvata dalla Camera dei deputati il 31 ottobre è ora, per la sua seconda lettura, all’esame del Senato.
Dopo molti anni vi è dunque la possibilità concreta di far uscire l’avvocatura italiana (circa 220.000 iscritti, 3 o 4 volte il numero di Francia o Germania) dalle vecchie regole degli anni ’30.
Ma è una buona riforma? Noi avremmo osato di più, in materia di società, di giovani e, soprattutto, nel distinguere la grande area della consulenza legale (in crescita) dagli avvocati della giurisdizione. Ma, in sostanza, la riforma è un passo in avanti che coniuga la specificità della funzione dell’avvocato, che è di rilievo costituzionale, con i principi della riforma delle professioni, che è mossa dall’esigenza di una maggiore concorrenza e competitività.
Non è un punto di equilibrio facile da raggiungere e la lettera del ministro Severino alla Camera ha segnato i nodi controversi, non tutti ben risolti dal testo approvato.
In primo luogo, il testo di riforma, composto da 67 articoli, interviene in materia di consulenza legale e di assistenza stragiudiziale prevedendo una riserva “quasi” esclusiva in favore degli avvocati, salve le competenze riconosciute ad altri professionisti. È una norma di principio ad alto valore simbolico ma di dubbia praticabilità anche perché la Corte Europea ha più volte escluso una riserva di tale natura.
Con riferimento ai parametri tariffari, emanati ogni due anni dal ministero su parere del Consiglio nazionale forense, si è deciso che essi vengono utilizzati come criterio orientativo nel rapporto tra avvocato e assistito.
Anche in questo caso sarebbe bastato prevedere una presenza “terza” per superare la critica secondo cui non possono gli ordini esprimersi sui compensi in caso di conflitto con i clienti perché non sono soggetti neutri.
In materia di tirocinio, il testo di riforma prevede che abbia durata di 18 mesi e possa essere svolto per i primi sei mesi anche nel corso dell’ultimo anno di laurea in giurisprudenza. La pratica forense sarà altresì, compatibile con il lavoro dipendente e adeguatamente compensata in funzione dell’apporto dato allo studio legale, ma anche nella misura comunque non inferiore del 30 per cento degli apprendistati negli studi professionali. È un punto molto innovativo per i giovani e anche un punto d’onore per l’avvocatura.
Per quel che concerne il preventivo, scompare la previsione dell’obbligatorietà salvo nel caso in cui lo stesso non sia espressamente richiesto dal cliente. Si tratta di una soluzione discutibile perché il preventivo, sia pur di massima ed aperto, è un atto utile di trasparenza, una “fatica” che, con ragionevolezza, può dare dei frutti.
La pubblicità informativa viene ammessa con riferimento all’attività professionale, all’organizzazione e struttura dello studio e alla eventuale specializzazione del professionista. Viene richiesto, in ogni caso, che la pubblicità sia trasparente, veritiera, non comparativa o denigratoria nei confronti di altri studi legali.
Le società tra avvocati saranno disciplinate dal governo, entro sei mesi, con un apposito decreto delegato. Dovranno essere esclusi i soci di puro capitale, come chiediamo da un anno, ma anche i professionisti non avvocati e questo ultimo punto è ben discutibile perché la realtà professionale è oggi interdisciplinare, soprattutto nei mercati globali.
Il titolo di specialista viene conseguito attraverso due vie: o a mezzo di percorsi formativi affidati alle facoltà di giurisprudenza, con le quali il Consiglio nazionale forense e i consigli degli Ordini territoriali potranno stipulare convenzioni per corsi di alta formazione, o attraverso il conseguimento del titolo per comprovata esperienza professionale (otto anni di iscrizione all’albo di cui cinque passati a occuparsi di uno specifico settore), sulla base però di una specifica valutazione e non di un automatismo.
Anche in questo caso avremmo preferito una soluzione più chiara a garanzia del merito. Crediamo molto, anche per il futuro, al valore delle specializzazioni professionali .
Il potere disciplinare e sanzionatorio viene attribuito ai Consigli distrettuali di disciplina a cui non potranno partecipare membri appartenenti all’Ordine a cui è iscritto il professionista interessato.
L’azione disciplinare si prescrive in sei anni dalla commissione del fatto e in due anni dal momento della condanna definitiva per reato non colposo. Nel complesso è un passo in avanti che evita i potenziali conflitti di interessi e dà più credibilità e vigore alla deontologia professionale.
Viene previsto, infine, che il Consiglio nazionale forense rimanga in carica quattro anni mentre i suoi componenti non possono essere eletti consecutivamente per più di due volte.
Si sono considerati altri modelli di rappresentanza della categoria (oggi articolata in CNF, OUA, ANF, AIGA, Camere Penali, Camere Civili, ecc.) ma certamente la materia non è oggetto di delega al governo ma di un’autonoma riconsiderazione.
Abbiamo detto dei punti principali e di quelli più controversi. Ma, più in generale, la riforma ha il merito di aggiornare un quadro normativo assolutamente vetusto. Forse, come diceva S. Agostino, è meglio zoppicare sulla strada giusta che correre lungo quella sbagliata.
Ora la riforma deve essere conclusa al Senato e, soprattutto, occorre ridare slancio all’agenda giustizia risolvendo i problemi della mediazione e investendo i risparmi della spending review nel processo telematico, una rivoluzione possibile al servizio dei cittadini, degli avvocati, dell’Italia.