Gaetano Stella, Presidente di Confprofessioni: «Nel corso degli ultimi mesi si sono susseguiti diversi interventi normativi che riguardano le professioni: dall’art. 3 comma 5 del decreto legge n. 138 del 13 agosto 2011 recante “ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e lo sviluppo”, convertito con modificazioni con legge 14 settembre 2011 n. 148; all’art. 10 della cosiddetta Legge di stabilità (Legge 12 novembre 2011 n. 183); fino all’art. 9 del decreto legge 24 gennaio 2012 n. 1 – “Disposizioni urgenti per la concorrenza, lo sviluppo delle infrastrutture e la competitività”.
Nel complesso, tali interventi palesano evidenti limiti di mancanza e/o di insufficiente coordinamento e di disorganicità, che inficiano spesso la chiarezza e la coerenza del quadro normativo risultante. Dal punto di vista programmatico, tali provvedimenti sono ascrivibili alla politica di liberalizzazione e di adozione di misure pro-concorrenziali auspicata dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato, nel dichiarato intento di consentire al settore delle libere professioni di “completare il processo di modernizzazione già avviato” e di svolgere un ruolo adeguato di sostegno alla crescita del Paese.
Riteniamo che le liberalizzazioni debbano essere strettamente collegate a processi di sburocratizzazione e ammodernamento delle istituzioni finanziarie (Poste, banche e assicurazioni) e della pubblica amministrazione (sia a livello centrale che territoriale) che in questa prima fase sono state inopinatamente stralciate. In questo ambito, ci si attende anche un sensibile snellimento delle procedure e degli adempimenti che sono a carico del liberi professionisti.
Solo così si può comprendere l’impostazione pro-concorrenziale del processo normativo in atto che, comunque, può essere condivisa soltanto se raccordata con la fondamentale premessa che le attività delle libere professioni, anche se organizzate in forma di impresa, non producono beni materiali o di consumo, ma coinvolgono beni ed interessi collettivi e generali.
Gli ultimi provvedimenti normativi riferiti alle libere professioni scontano l’assenza di un preventivo confronto con le associazioni e confederazioni di rappresentanza delle categorie, fino a delineare in alcune disposizioni una sorta di pregiudizio nei confronti dei liberi professionisti e dell’intero mondo professionale. Per esempio, notai e avvocati sono entrati nel mirino dei provvedimenti con questo pregiudizio, che sembra più orientato a sollecitare il sostegno/riscontro dell’opinione pubblica e dei consumatori, piuttosto che fondarsi ragionevolmente sull’effettivo sviluppo degli effetti liberalizzanti.Si rischia, in questo modo, di minare alla radice il rapporto fiduciario tra il professionista e il suo cliente, veicolando un’ingiustificata svalutazione del ruolo e delle funzioni essenziali delle libere professioni, che sono il vettore trainante del settore dei servizi dell’economia moderna. E che, non ultimo, intendono offrire concrete risposte alle necessità di occupazione dei giovani anche grazie al contratto collettivo stipulato nel novembre 2011 da Confprofessioni con le organizzazioni sindacali dei lavoratori.
Il decreto legge sulle liberalizzazioni lascia irrisolte alcune questioni centrali per l’assetto competitivo delle libere professioni.
Non del tutto condivisibili, invece, appaiono quelle norme che, seppure nel dichiarato intento di favorire l’esercizio delle attività professionali in forme più moderne, disciplinano le società di capitali tra professionisti (art. 10 Legge 183/2011). Vengono introdotti indiscriminatamente per tutte le professioni modelli alternativi di esercizio tipici di forme capitalistiche, che non garantiscono la salvaguardia dei valori fondamentali delle libere professioni, quali l’indipendenza del professionista, l’assenza di conflitti di interesse, la tutela del segreto professionale. La previsione di società di capitali tra professionisti dovrebbe prevedere un apporto di capitale di soci non professionisti non maggioritario e, comunque, attribuire la governance di dette società esclusivamente ai soci professionisti, al fine di salvaguardare la necessaria indipendenza e autonomia dei professionisti.
Appare opportuno sottolineare in questa sede, un ulteriore profilo normativo che, oltre ad essere contraddittorio con lo spirito pro-concorrenziale del provvedimento in lettura, non è condivisibile. La norma che attribuisce ai Consigli Nazionali degli Ordini la facoltà di negoziare le condizioni generali delle polizze assicurative dei professionisti risulta restrittiva rispetto alle regole del libero mercato e potrebbe rivelarsi penalizzante per gli iscritti a un albo. Pur condividendo l’introduzione dell’obbligo per il professionista di stipulare idonea assicurazione per i rischi derivanti dall’esercizio dell’attività professionale, la negoziazione delle condizioni delle polizze con le Compagnie assicurative deve essere lasciata alla discrezionalità dei professionisti ed alle libere Associazioni o Confederazioni professionali titolate alla tutela degli interessi dei professionisti, piuttosto che da parte del sistema ordinistico.
Per la stessa ragione, non si comprende l’attribuzione agli ordini professionali della predisposizione dei percorsi di aggiornamento, formazione e specializzazione dei professionisti. Ancora una volta, si trasferisce in capo a un unico soggetto il compito di stabilire le attività oggetto di formazione, selezionare i soggetti attuatori, realizzare i corsi e misurarne il risultato. Più opportuno, ci sembra, che i Consigli nazionali degli ordini si limitino a fissare i requisiti minimi dei corsi di formazione, uniformi sul territorio nazionale, affermando il principio della libertà di formazione. Tale impostazione, da un lato, permetterebbe ai professionisti di scegliere liberamente sul mercato i percorsi formativi più idonei alla loro preparazione professionale; dall’altro, stimolerebbe il gioco concorrenziale rispetto ad altri organizzatori di eventi formativi.
Entrando nel merito del D.L. 24 gennaio 2012 n. 1 e in particolare dell’art. 9 che detta nuove disposizioni per le professioni regolamentate il legislatore interviene sulla materia già precedentemente disciplinata, con una decretazione d’urgenza, che rende ancor più gravosa, in termini di costi ed adempimenti burocratici, l’attività libero professionale.
L’abrogazione tout court delle tariffe, di per sé oramai superate dai fatti nell’acquisita consuetudine e di diverso peso nelle specifiche professioni, tuttavia, solleva dubbi sull’applicabilità nell’ambito della funzione pubblica di alcune professioni, ad esempio, i notai, la cui tariffa è pure parametro di riferimento per l’applicazione di agevolazioni a beneficio della clientela. Non solo. L’abrogazione ha creato un evidente vuoto normativo nel caso di liquidazione da parte di un organo giurisdizionale, in quanto fa un generico riferimento a imprecisati “parametri stabiliti con decreto del ministro vigilante”. Sotto altro profilo appare contraddittorio che l’utilizzazione di quegli stessi parametri, imposti quale nuovo riferimento normativo per la liquidazione dei compensi da parte di un organo giurisdizionale, venga sanzionata, come causa di nullità della clausola relativa alla determinazione del compenso qualora riscontrata nei contratti tra professionisti e consumatori o microimprese.
La normativa impone, anche nell’ultima versione, l’obbligo di pattuizione del compenso al momento del conferimento dell’incarico e di indicazione per le “singole prestazioni” di “tutte le voci di costo, comprensive di spese, oneri e contributi,” sanzionando l’inottemperanza come un illecito disciplinare. Si tratta di un obbligo che non tiene conto, per casi quali le attività giudiziali dell’avvocato o prestazioni complesse di natura economica o tecnica, della grave difficoltà se non dell’impossibilità di prevedere in anticipo tutte le suddette voci di costo, in ragione degli sviluppi imprevedibili connessi ad ogni attività di contenzioso giudiziale, di preventiva investigazione tecnica, ovvero di prestazioni aggiuntive derivanti da prescrizioni ed obblighi determinati da nuove disposizioni di legge intervenuti successivamente all’affidamento dell’incarico.
Al comma 5, del medesimo art. 9 il legislatore interviene nuovamente sui criteri di accesso alle professioni regolamentate, stabilendo che la durata del tirocinio non potrà essere superiore a diciotto mesi e per i primi sei mesi, potrà essere svolto, in concomitanza col corso di studio per il conseguimento della laurea di primo livello o della laurea magistrale o specialistica. Condividiamo la limitazione temporale del periodo di tirocinio, nonché la possibilità di espletarne una parte fin dal periodo universitario; tuttavia, rimane irrisolto il diritto del praticante ad un “equo compenso” nel periodo svolto all’interno degli studi professionali e commisurato al suo concreto apporto. È auspicabile armonizzare del suddetto tirocinio con le disposizioni già introdotte nel nuovo Testo unico sull’apprendistato, in particolare con le misure previste per l’apprendistato di ricerca e di alta formazione, che hanno disciplinato un inquadramento contrattuale e tutele di welfare per i giovani praticanti».