Il dibattito. Una cura alternativa per il morbo nazionale delle tangenti nell’intervento del politologo Alberto Vannucci sul «Mulino»
È inutile sperare in una legge salvifica: l’Italia deve cambiare dalle fondamenta. Le possibili ricette di una politica anti-corruzione presentano un minimo comune denominatore: la presenza di una élite politica disposta a investire in questa battaglia risorse di credibilità e di consenso lungo un arco di tempo sufficientemente esteso, auto-vincolandosi attraverso un impegno credibile agli occhi di cittadini, amministratori, imprenditori. Per prevenire e contrastare efficacemente il fenomeno occorre infatti incidere sulle aspettative che indirizzano le scelte di potenziali corrotti e corruttori, accentuando concorrenza, trasparenza e rendicontabilità nell’esercizio del potere pubblico, semplificando i processi decisionali, inasprendo controlli e sanzioni per le violazioni, promuovendo i valori del servizio pubblico.
È difficile, però, spezzare i consolidati equilibri della corruzione sistemica. Tutte le politiche anticorruzione soffrono infatti di una debolezza di fondo. I vantaggi delle misure anti-corruzione ricadono su una platea indistinta di beneficiari, in genere inconsapevoli e disposti al più a un tiepido appoggio, mentre le ricadute negative si concentrano su categorie circoscritte di soggetti consci della loro posizione di rendita – politici e burocrati corrotti, imprenditori e professionisti collusi -, ai quali per giunta è conferito un decisivo potere di iniziativa o di veto. Soltanto la spinta derivante dall’attività di un «imprenditore politico» abile nel capitalizzare il consenso della mobilitazione dei molti dispersi beneficiari, legando tali provvedimenti a trasformazioni di più ampio respiro del sistema politico-amministrativo, può spezzare le resistenze al cambiamento, creando le condizioni per l’attuazione di misure efficaci e durature.
Nulla di simile ha conosciuto l’Italia, nonostante la conclamata emergenza nazionale dei primi anni Novanta. L’aspettativa di una trasformazione palingenetica del sistema politico si è tradotta nel subentrare ai vertici delle seconde file, meno esposte di un apparato decimato dagli scandali, un personale politico in buona misura compromesso, che ha guidato la restaurazione adattiva degli equilibri preesistenti, assecondata – sia pure con traiettorie diverse – dai principali alfieri del potenziale rinnovamento: il Berlusconi proveniente dalla «trincea del lavoro», la Lega degli esordi, l’ex magistrato Di Pietro. È vero che sull’onda di Mani pulite sono state varate alcune riforme rilevanti, anche sotto il profilo simbolico: l’abolizione per via costituzionale del vecchio sistema di autorizzazione a procedere dei parlamentari; la modifica in senso maggioritario del sistema elettorale, a livello sia nazionale sia locale; le leggi per la semplificazione e la trasparenza dell’attività amministrativa. Ma, passata la tempesta, l’impulso riformatore è venuto meno, l’inerzia bipartisan della classe politica ha prevalso, il tema è uscito dall’agenda. Fatta salva una tardiva ratifica della convenzione Onu, gli scarsi provvedimenti si sono tradotti in altrettanti fallimenti.
Sull’altro piatto della bilancia pesano invece i provvedimenti calibrati con i quali maggioranze di diverso orientamento politico hanno da un lato frapposto ostacoli al perseguimento giudiziario della corruzione, dall’altro reso più allettanti le occasioni per delinquere. L’elenco sarebbe lungo, ma vale la pena citare il depotenziamento dei reati fiscali, di abuso d’ufficio e falso in bilancio (considerati dai magistrati «reati sentinella» che segnalano possibili crimini sottostanti), l’ex Cirielli, con la riduzione dei tempi di prescrizione, l’indulto esteso ai reati contro la pubblica amministrazione, l’estensione surrettizia di criteri emergenziali o discrezionali nell’assegnazione di concessioni, i variegati «scudi» calibrati sulle esigenze giudiziarie di un singolo imputato eccellente. Misure approvate frettolosamente, che hanno scontato per questo abrogazioni parziali e totali ad opera della Corte costituzionale e per via referendaria, ma che hanno comunque fornito al pubblico un segnale inequivocabile dell’atteggiamento indulgente o autoassolutorio delle forze di governo verso l’irrisolta questione della corruzione.
La classe politica appare oggi sempre più delegittimata, anche per la sensazione diffusa di una corruzione dilagante, e si condanna così a un’inerzia funzionale agli interessi degli stessi corrotti. Per uscire da questa impasse occorre forse cambiare paradigma, distaccarci dalla cultura giuridica dominante che ci porta a prospettare quale soluzione naturale di qualsiasi problema collettivo l’approvazione (quasi mai l’abrogazione) di provvedimenti legislativi. Un approccio che si traduce in una visione calata dall’alto dei processi politici, e dunque delle politiche anti-corruzione, delegate alla volontà del legislatore e delle maggioranze politiche che ne animano le scelte. Purtroppo, però, quando i decisori sono inoperosi, inetti o mossi da motivazioni di segno opposto, le politiche restano sulla carta o producono pessimi risultati.
Ma le politiche anti-corruzione possono nascere anche dal basso. Già esiste, infatti, un sapere pratico costruito dai soggetti che a vario titolo si occupano quotidianamente di questi temi nella loro esperienza amministrativa, per ragioni di ricerca o di impegno civile. Questi attori hanno col tempo elaborato una serie di iniziative, provvedimenti e meccanismi utili a recepire segnali del rischio di corruzione e infiltrazioni criminali. È un quadro ancora frammentario, in via di evoluzione. Si pensi alla pressione esercitata dalla campagna promossa da Libera e Avviso pubblico nel corso del 2011, con la raccolta di quasi due milioni di firme per la ratifica delle convenzioni internazionali; al codice etico per gli amministratori politici – la «Carta di Pisa» – proposto nel 2012 da Avviso pubblico e già adottato da un numero crescente di enti locali; al movimento Signori Rossi che, facendo tesoro dell’esperienza personale dell’ex consigliere dell’Amiat torinese Raphael Rossi, fornisce online servizi di consulenza giuridica per cittadini e amministratori che fronteggino profferte o richieste di tangenti.
Altre esperienze positive e «buone pratiche» devono però essere censite, valorizzate, proposte come modello, così da favorire l’avvio di un circuito virtuoso di imitazione e di apprendimento. Se il disinteresse o la rassegnazione sono il brodo di coltura della corruzione, «mettere in rete» e costruire una massa critica di interessi sensibili ai temi dell’integrità pubblica può essere di per sé condizione sufficiente a riattivare gli stessi circuiti di controllo democratico.
Alberto Vannucci, Corriere della Sera