Il governo cinese ha adottato il secondo piano nazionale d’azione per i diritti dell’uomo per il periodo 2012-2015.
Il secondo piano nazionale d’azione per i diritti dell’uomo è un documento intrinsecamente politico ed ideologico, nel senso tanto dell’immancabile e monotona ricognizione di successi rispetto al piano precedente (2009-2010), quanto della conferma dell’impostazione del tutto estranea al tenore del dibattito internazionale, che rimane in prevalenza coerente con una visione giuridica liberale ed euro-atlantica.
La lettura del documento è consigliabile per cogliere almeno alcune sfumature di linguaggio e prospettiva. Queste sembrano confermare la volontà della leadership cinese di governare una, sia pur lentissima, transizione in questo settore.
I concetti evocati devono tuttavia venire interpretati all’interno del contesto cinese, connotato sia dalle radici confuciane sia dall’impostazione ideologica ufficiale: in apertura si riconosce, ad esempio, che “l’attenzione dei cittadini cinesi per i diritti del’uomo è cresciuta in modo significativo” e che “vi è stato un generale costante avanzamento della protezione dei diritti dell’uomo nell’orbita dell’istituzionalizzazione e del principio di legalità” . Nel testo inglese, però, il riferimento è alla formula “rule by law”, ben distinta dal “rule of law” e volta a privilegiare marcatamente la volontà politica del legislatore rispetto a qualunque interpretazione da parte di un giudice che possa aspirare ad una qualche indipendenza.
Inoltre, ribadita la continuità politica volta a “mantenere alta la bandiera del socialismo con caratteri cinesi”, si richiama il principio della Triplice Rappresentanza (di tutto il popolo, dell’imprenditoria e della tecnocrazia culturale) che ispira la presente fase della transizione del “socialismo di mercato” e che fornisce dunque il crisma dell’ortodossia ufficiale almeno al discorso pubblico sui diritti dell’uomo.
Infine, innovando rispetto al precedente Piano, si introduce un ultimo capitolo (“attuazione e controllo”) nel quale – benché manchi qualsiasi riferimento all’istituzione che, nella concezione occidentale ispirata alla separazione dei poteri, costituisce la garanzia istituzionale naturale e principale dei diritti dell’uomo, ossia il sistema giudiziario – si attribuisce il compito primario di attuazione e controllo ad un meccanismo congiunto facente capo al governo centrale e al ministero degli affari esteri (a conferma del rilievo della dimensione internazionale della materia).
La realizzazione degli obiettivi del Piano stesso, invece, non solo viene ricondotta ad una pluralità di destinatari – dal Comitato centrale del Partito alle istituzioni di governo centrale e locali – ma è altresì affidata alla “iniziativa e creatività del pubblico [al fine di] innovare il meccanismo di gestione sociale e promuovere il ruolo costruttivo delle Organizzazioni Non Governative in tema di protezione dei diritti dell’uomo”. Grazie anche all’incoraggiamento rivolto ai “mass media per svolgere un ruolo positivo nel pubblicizzare, attuare e controllare il Piano d’Azione”.
Primum vivere
A parte questi timidi segnali di possibile evoluzione guidata, il Piano d’Azione conferma l’inquadramento unitario dei diritti dell’uomo anche se esso “continua a conferire la priorità ai diritti del popolo, alla sussistenza e allo sviluppo, tutela strenuamente e migliora la vita del popolo, non risparmia alcuno sforzo per risolvere i problemi di maggiore ed immediato rilievo per il popolo […] promuove l’equità sociale, al fine di assicurare che ogni membro della società abbia una vita più felice e con maggiore dignità”.
Il primo capitolo è dedicato ai diritti economici, sociali e culturali: per il lavoro si anticipano interventi per garantire l‘occupazione (con l’obiettivo di mantenere la disoccupazione nelle aree urbane sotto il 5%), le condizioni di lavoro (salute e sicurezza) e l’espansione della contrattualizzazione (per includere il 90% delle imprese); si indica l’obiettivo dell’aumento del reddito pro-capite in linea con la crescita del Pil (7%) anche nelle zone rurali e di ampliare la disponibilità di alloggi; ci si propone di agire sulla sicurezza sociale, sul sistema pensionistico (anche se gli obiettivi quantitativi – 357 milioni di lavoratori nel 2015 – appaiono irrisori), sul sistema sanitario da estendere a tutti gli abitanti anche delle zone rurali.
Forte enfasi sull’istruzione superiore, con priorità per le aree della Cina centrale e occidentale, oggi ancora in sofferenza. Per la cultura, il proposito è di potenziare la diffusione della scienza e della tecnologia e accelerare l’uso (sotto controllo) di internet: in particolare, ci si propone di far accedere ad Internet il 45% della popolazione nel 2015. In tale contesto sociale si collocano anche le politiche ambientali, nonché le numerosissime direttive del terzo capitolo in tema di diritti delle donne, dei minori, degli anziani, dei disabili.
Libertà religiosa
Il secondo capitolo si occupa dei diritti civili e politici, nel contesto proprio del sistema in conseguenza del quale “la Cina è impegnata nello sviluppo della democrazia socialista, nel potenziamento della legalità socialista, nell’espansione di una ordinata partecipazione politica dei cittadini e nella completa garanzia dei diritti civili e politici del popolo”: gli obiettivi sono di dare attuazione ad una disciplina della procedura penale a vocazione garantista, con vari interventi volti a garantire la difesa processuale, a estirpare la tortura (“verranno applicate misure preventive e risarcitorie contro l’estorsione della confessione attraverso la tortura e contro la raccolta delle prove attraverso altri mezzi illegali; e nessuno sarà obbligato a dare la prova della propria colpevolezza”) e a migliorare le condizioni carcerarie.
Si prevedono riforme di razionalizzazione del sistema sanzionatorio e misure restrittive in tema di pena di morte (con udienze pubbliche per i giudizi di appello e accoglimento delle richieste di essere ascoltati da parte degli avvocati degli imputati). Occorre dire che il tenore degli obiettivi (elementari) del precedente Piano d’Azione non era molto diverso.
Particolare attenzione, anche in ragione dei noti problemi di sicurezza interna, meritano le direttive in tema di libertà religiosa: in tal senso è rilevante il riferimento all’impegno rivolto ai musulmani per “migliorare l’organizzazione, la gestione e i servizi in favore del pellegrinaggio” e la destinazione di fondi per l’espansione dell’Istituto Islamico.
L’impegno finanziario è assicurato altresì per la costruzione di nuovi edifici scolastici dell’Accademia Buddista, nonché “per la ricostruzione e l’espansione dei luoghi per attività religiose delle aree abitate da tibetani nel Sichuan, nello Yunnan, nel Gansu e in Qinghai” (anche a ristoro di edifici e moschee danneggiati da disastri naturali).
Gli obiettivi più mirati rappresentano uno sviluppo – almeno dichiarativo – rispetto al Piano 2009-2010, diversamente da quanto occorre dire, invece, per i diritti delle minoranze etniche, rispetto alle quali non si registrano sostanziali diversità di toni (per la sensibilità occidentale suona quanto meno provocatorio prevedere che “si aumenteranno gli sforzi per coltivare e selezionare personale proveniente dalla minoranze etniche per il lavoro amministrativo ed il Partito”).
Potere pubblico
Nell’attuale contesto politico, del resto – salvo reiterare il riferimento all’auspicata maggiore partecipazione di partiti e personalità non comunisti – si diluisce l’altissima quantità di direttive in tema di libertà d’informazione, di diritti di partecipazione, di diritto ad “essere uditi” (“sbloccando tutti i canali di auto-espressione”), di diritti di controllo anche attraverso i mezzi di comunicazione oltre che delle organizzazioni sociali.
Il nuovo Piano d’Azione per i diritti dell’uomo – al di là dell’impianti concettuale e istituzionale, che rimangono saldamente ancorati a radici culturali e premesse ideologiche del regime – testimonia comunque che il discorso sui diritti dell’uomo si è venuto affermando come un contenuto ineludibile del potere pubblico, presumibilmente anche per motivi di politica interna, oltre che di immagine del paese, che mira ad ottenere maggiore credibilità internazionale.
Roberto Toniatti, professore di diritto costituzionale comparato all’Università di Trento