L’Italia è da sempre uno dei paesi più costosi al mondo in fatto di carburanti, nonostante i petrolieri italiani abbiano usufruito per molti anni di petrolio libico a prezzi agevolati. Di fronte alla proposta di aumentare le trivellazioni nei mari italiani, una domanda sorge spontanea: estrarre più petrolio autoctono aiuterebbe davvero a ridurre il prezzo finale dei carburanti e ad aumentare la sicurezza energetica dell’Italia?
Squilibri. In un recente volume di Pietro Dommarco intitolato “Trivelle d’Italia. Perché il nostro paese è un paradiso per petrolieri”, l’autore mette in evidenza come, grazie a leggi permissive, le compagnie petrolifere operanti in Italia paghino alcune tra le più basse “compensazioni ambientali” o royalties del pianeta.
Ad un irrisorio 4% di compensazioni sull’estrazioni di greggio dal mare pagate all’Italia, si contrappongono un corposo 80% riscosso dalla Russia, un 60% dall’Alaska, un 45% dal Canada e cosi via. Dunque, non solo l’Italia viene risarcita in piccolissima parte per i danni ambientali che subisce a causa delle trivellazioni, noi cittadini siamo anche costretti a pagare i prezzi del carburante più alti del mondo. La conclusione è ovvia: più si trivella l’Italia, più a rimetterci sono proprio gli italiani.
Va da sé che sostenere l’offshore drilling, o trivellazione in mare aperto, significa non solo proiettare il paese verso un futuro anteriore, ma soprattutto ignorare le dinamiche energetiche mondiali che si stagliano all’orizzonte. Il disastro della piattaforma petrolifera Deepwater Horizon in Messico, e il più recente incidente ad una piattaforma Shevron a largo delle coste brasiliane, hanno chiaramente messo in evidenza i rischi ambientali connessi con l’estrazione di petrolio a grandi profondità marine. Simili incidenti nei nostri mari causerebbero danni inestimabili con ripercussioni catastrofiche sul settore turistico e sulla pesca.
Ci sono poi altre ragioni per districarsi dalla morsa della dipendenza dal petrolio. In un volume del 2008 intitolato “Rising Powers, Shrinking Planet: The New Geopolitics of Energy”, lo studioso americano Micheal Klare ha evidenziato come la crescente riduzione delle riserve mondiali di petrolio stia contribuendo alla formazione di un nuovo ordine geopolitico mondiale, nel quale l’influenza di una nazione sulla scena internazionale non deriverebbe più dal suo potere economico o militare, bensì dal suo accesso a risorse energetiche o dalla sua capacità di poterle facilmente mobilitare.
Da un simile quadro, si può dedurre che l’Italia si trova attualmente al di fuori dall’orbita energetica internazionale intorno alla quale dovrebbe invece ruotare, anche perché è uno dei maggiori importatori di gas naturale e petrolio in Europa. Un fatto che, unito alla mancanza di significative riserve domestiche, rende la penisola estremamente vulnerabile all’aumento dei prezzi dei carburanti e all’instabilità politica dei paesi produttori.
Mosse per il futuro. I risultati dell’analisi del prof. Klare implicano che in futuro la sicurezza energetica di un paese dipenderà sempre di più dalla capacità di fare a meno dei carburanti fossili. Sorprende, dunque, che nell’analisi di Caffio lo sviluppo di fonti energetiche rinnovabili venga criticato. Si dimentica, inoltre, che l’Italia dispone più di altri di una risorsa naturale la cui importanza dal punto di vista energetico è destinata ad aumentare notevolmente in futuro: il sole.
Anziché promuovere pericolose ed anacronistiche soluzioni come le trivellazioni in mare aperto, una politica energetica moderna, sostenibile ed efficace non può prescindere dalla costruzione di impianti solari di nuova generazione. Non si fa riferimento qui all’installazione dei noti “pannelli fotovoltaici”, bensì ai più efficienti e rivoluzionari impianti di energia solare concentrata (Csp). Essi funzionano come normali centrali termoelettriche ma, a differenza di queste ultime, utilizzano degli specchi chiamati “eliostati” per riflettere i raggi solari su un ricevitore, posto al centro dell’impianto, producendo il vapore necessario ad attivare delle turbine che generano a loro volta energia. Perché tali impianti possano funzionare in modo efficiente è necessario disporli in spazi estesi e molto assolati, come ad esempio il Nord America, l’Africa settentrionale o l’Europa meridionale.
Alternative. Secondo il geofisico tedesco Gerhard Knies, pionierie di questa tecnologia ed iniziatore della Fondazione Desertec (un network di scienziati impegnati nello sviluppo di Csp in Nord Africa) “in sei ore i deserti del nostro pianeta ricevono più energia di quanta l’intera umanità ne consumi in un anno”. Ciò significa, secondo lo studioso, che una porzione di Sahara grande quanto la superficie del Galles basterebbe a coprire i bisogni energetici dell’intera Europa.
Il progetto, tutt’altro che fantascientifico, prevede, già a partire dal 2014, l’esportazione in Italia di energia elettrica prodotta negli impianti solari tunisini. Perché l’Italia non investe in simile tecnologie?
Se centrali Csp grandi quanto il Galles – che ha una superficie di 20.779 km2 – coprirebbero il fabbisogno energetico “dell’intera Europa” e dei suoi 730 milioni di abitanti; per rifornire 60 milioni italiani basterebbero, quindi, circa 1700 km2 di impianti. Una superficie, quest’ultima, corrispondente a circa l’1,5 % del territorio di Sicilia, Calabria, Puglia, Basilicata, Campania e Sardegna, messe insieme.
È dunque evidente che l’autosufficienza energetica italiana passa attraverso investimenti in energie rinnovabili che valorizzino il territorio e le sue risorse naturali, e non attraverso l’aumento indiscriminato dello sfruttamento ambientale causato dalle trivellazioni in mare aperto. Le trivellazioni contribuirebbero esclusivamente ad arricchire avide compagnie petrolifere e a degradare ulteriormente il nostro inestimabile patrimonio naturale.
Stefano Salustri, M.A. in European Studies presso l’Università di Bath, collabora con la rivista ufficiale dell’IsAG.