La Commissione Affari Costituzionali della Camera dei deputati ha sentito il professor Gian Carlo Blangiardo, Presidente dell’Istituto Nazionale di Statistica (ISTAT), nel corso dell’indagine conoscitiva in materia di politiche dell’immigrazione. Il Presidente Blangiardo, dopo aver presentato un’analisi della popolazione straniera residente, ha relazionato la Commissione sulle acquisizioni di cittadinanza, sulla presenza di cittadini non comunitari, rifugiati e richiedenti asilo, e sulle caratteristiche delle seconde generazioni.
ALLEGATO: Documentazione presentata dal Presidente dell’Istituto Nazionale di Statistica (ISTAT)
GIAN CARLO BLANGIARDO, Presidente dell’Istituto Nazionale di Statistica (ISTAT). Grazie, presidente, e buongiorno a tutti. Anche per motivi di tempo, ho messo a disposizione della Commissione del materiale che è stato distribuito; si tratta di una sorta di analisi del fenomeno, con allegati dei dati statistici che consentono di avere elementi a supporto delle considerazioni svolte nel testo.
Io mi limiterò a riprendere i punti fondamentali e a svolgere qualche semplice riflessione, rimanendo a disposizione per eventuali domande.
Relativamente al fenomeno dell’immigrazione, comunque in relazione alla presenza straniera, l’Istituto nazionale di statistica giustamente e doverosamente svolge un ruolo di conoscenza, direi di conoscenza oggettiva. Ci sono delle fonti che sono attivate. Alcune fonti sono direttamente attivate all’interno dell’ISTAT, altre vengono acquisite e armonizzate da altre provenienze. Diciamo che si mettono insieme informazioni che provengono, per fare qualche esempio, dall’anagrafe nazionale della popolazione residente, dal Ministero dell’interno, in particolare, e in parte anche dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali.
Sono state svolte – ci si augura che potremo farne ancora – indagini più specifiche su alcuni elementi tematici, perché magari può interessare approfondire alcuni aspetti di questo fenomeno.
Tra gli altri compiti c’è ovviamente quello di far circolare le informazioni. A tal fine l’Istat ha realizzato un sistema informativo chiamato «Immigrati e nuovi cittadini», con otto aree tematiche: popolazione e famiglie; salute e sanità; lavoro; istruzione e formazione; condizioni economiche delle famiglie e disuguaglianze; assistenza; partecipazione sociale; criminalità. Sono diversi aspetti di una realtà, che è quella appunto della presenza straniera sul territorio italiano, i cui aspetti quantitativi andremo tra poco a riconsiderare.
Mettere insieme i dati dei residenti a quelli sull’archivio dei permessi di soggiorno consente di dare una fotografia che descrive il fenomeno e le sue caratteristiche, ma soprattutto mette in evidenza anche le sue evoluzioni nel tempo e aspetti differenziali nella localizzazione territoriale.
Veniamo a qualche dato rapido. Anzitutto, la dimensione quantitativa: quanti sono gli stranieri in Italia? Abbiamo 5.255.000 cittadini non italiani, quindi stranieri, residenti in uno dei circa 8.000 comuni italiani. Questa è la situazione al 31 dicembre 2018, quindi l’ultimo dato disponibile.
Faccio notare che, rispetto a venti anni prima, c’è stato un aumento di circa il 400 per cento. E faccio notare che, per esempio, rispetto al 2017, c’è stato un aumento di 111.000 unità, che si inserisce in un contesto di dinamica demografica che invece ha segnato una diminuzione della popolazione. In sostanza, abbiamo a che fare con una realtà in cui la componente popolazione residente diminuisce complessivamente e, nonostante questo, la sottocomponente straniera cresce; naturalmente, diminuisce in maniera piuttosto pesante la componente con cittadinanza italiana.
Complessivamente, all’interno di queste presenze – ho parlato di stranieri – ce ne sono 3.683.000 provenienti dai cosiddetti Paesi terzi, cioè non comunitari, in gran parte Paesi in via di sviluppo, per capirci, anche se naturalmente ci sono dentro anche gli Stati Uniti, il Giappone o la Svizzera. Nel 2018, le iscrizioni anagrafiche dei cittadini provenienti dall’estero sono state circa 300.000, un po’ aumentate rispetto all’anno precedente. Quanto alla localizzazione territoriale, gran parte della popolazione straniera risiede al Centro-nord, in particolare nell’area occidentale.
Altra caratteristica: si tratta di una popolazione giovane, cioè l’età media è di circa 34 anni, a fronte degli oltre 40 del complesso della popolazione (siamo intorno ai 45 per la popolazione italiana). Da questo punto di vista è considerato un contributo certamente importante per la vitalità di un Paese come il nostro, che vive processi di invecchiamento. Poi però bisognerà tener presente che, nel momento in cui c’è stabilizzazione, chi è giovane, non resta giovane in eterno, quindi in qualche modo è un beneficio per certi aspetti un po’ temporaneo.
Quanto alle cittadinanze, ce ne sono quasi duecento diverse. Praticamente quasi tutti i Paesi del mondo sono rappresentati. Cinquanta cittadinanze hanno almeno 10.000 residenti, e in particolare le cinque più numerose: la romena, con 1.200.000 residenti; l’albanese, con 441.000; la marocchina, con 423.000; la cinese, con 300.000; l’ucraina, con 239.000. Ebbene, queste cinque rappresentano circa il 50 per cento della presenza complessiva.
Un altro fenomeno che si nota nei nostri dati di fonte anagrafica e che apre una riflessione, è quello relativo alle residenze in convivenza. Per convivenza si intendono non le famiglie, ma quei luoghi di vario genere (ospedali, caserme, centri di accoglienza) che ospitano più persone residenti in quel luogo. Andando a prendere per esempio l’ultimo dato disponibile, abbiamo visto che nelle convivenze nell’anno 2017 c’è stato un aumento di 20.000 unità, in gran parte di componente maschile. Che cosa vuol dire? Che si tratta di un effetto indiretto della presenza di coloro che arrivano, spesso attraverso sbarchi sulle nostre coste, e poi vengono dislocati all’interno di centri di varia natura. È qualcosa che si è presentato recentemente e che ovviamente un po’ di anni fa non esisteva.
Tra gli altri elementi che caratterizzano questo fenomeno, c’è un processo di uscita dalla condizione di straniero. C’è il completamento di un percorso, che è anche quello che porta alla cittadinanza italiana. Ebbene, nel 2016 abbiamo avuto in Italia 202.000 acquisizioni di cittadinanza; nel 2017, siamo scesi a circa 150.000; nel 2018, a 120.000 scarsi. Sono un po’ diminuite. Le spiegazioni sono varie, anche perché gran parte di coloro che avevano maturato i dieci anni per la naturalizzazione proveniva in precedenza dai grandi movimenti di ingresso, dalle grandi regolarizzazioni dell’inizio secolo. Quello che, però, vale la pena sottolineare è che anche nel 2017, ultimo dato disponibile in termini di comparazione internazionale, noi siamo il Paese in Europa al primo posto per concessione di cittadinanza; chi sta al secondo posto, il Regno Unito, è distanziato di 20.000 unità, mentre la Francia e la Germania sono distanziate di 30.000 unità.
Un altro elemento che vale la pena sottolineare, per citare qualche elemento curioso, è che, per esempio, tra queste acquisizioni di cittadinanza, ci sono signori e signore, e non pochi (circa 8.000), che diventano italiani ius sanguinis – passatemi il termine – ovvero gli oriundi, per capirci, come si definivano i calciatori (nella mia infanzia, ricordo Sivori, Altafini e così via). Non sono pochi. Sono diventati 8.000. E sono molto spesso latinoamericani con una discendenza da italiani, da nonni, bisnonni e così via, emigrati a suo tempo.
All’interno dell’acquisizione di cittadinanza i dati strategici sottolineano come il 40 per cento riguardi minori. Noi siamo stati e siamo un Paese che attribuisce la cittadinanza italiana secondo modalità tali per cui ogni dieci nuovi cittadini quattro sono minori. Perché? Senza cambi legislativi, l’articolo 14 della legge n. 91 del 1992 consente, quando un genitore diventa italiano, che il minore a carico automaticamente diventi italiano. Questa è un elemento che qualche volta si tende a non ricordare.
Complessivamente, la crescita avvenuta in questi anni ha fatto sì che, secondo le nostre stime al 1° gennaio 2018, in Italia ci fossero 1.340.000 ex stranieri; ovviamente si tratta di italiani a tutti gli effetti, che hanno però un passato da stranieri, quindi che hanno acquisito la cittadinanza italiana. Ed è verosimile che nei prossimi anni questo contingente andrà ulteriormente ad accrescersi.
Anche qui, qualche curiosità: per ogni cento stranieri marocchini in Italia, ci sono 44 italiani che erano marocchini; per ogni cento albanesi oggi in Italia, ci sono 38 italiani che erano albanesi. Cito marocchini e albanesi, perché stiamo parlando delle cittadinanze che da più tempo sono in Italia, e che quindi più di altre hanno beneficiato della naturalizzazione, che è la via ordinaria.
Naturalmente, ci sono comportamenti diversi. Ci sono cittadinanze che tendono ad essere acquisite più facilmente o meno facilmente. Per i cinesi, tanto per dire, diventare italiani significa rinunciare alla propria cittadinanza, quindi qualche volta si sceglie di non richiederla. In altri casi, per esempio quelli in cui è consentita la doppia cittadinanza, si sceglie di procedere.
Un’altra considerazione è che non sempre chi diventa italiano rimane in Italia. Anche questo va messo in conto. Alcuni di questi stranieri diventano italiani seguendo i processi e le regole stabilite dalle norme; una volta che, però, hanno in tasca il passaporto italiano, forse già contemplando in un progetto iniziale di andare altrove, se ne vanno, spesso seguendo inclinazioni naturali: i pachistani vanno nel Regno Unito, i latinoamericani vanno in Spagna o spesso anche loro nel Regno Unito. Si osserva, quindi, una mobilità ulteriore e successiva all’acquisizione della cittadinanza. Secondo i nostri dati, su 669.000 cittadini non comunitari divenuti italiani tra il 2012 e il 2017, circa 42.000 hanno trasferito la loro residenza all’estero.
Passo a qualche altro dato e a qualche altra considerazione. Parlavamo di stranieri in generale. Se osserviamo nello specifico i dati relativi ai permessi di soggiorno, ovviamente ci focalizziamo sulla componente non comunitaria, per la quale è richiesta un’autorizzazione al soggiorno. I dati sono di circa 3.700.000 permessi che fanno capo a soggetti non comunitari.
Un elemento che va sottolineato è che c’è sempre più, però, una presenza di cosiddetti permessi di lungo periodo: di questi 3.700.000, 2.300.000 sono lungo-soggiornanti, praticamente i due terzi, che significa che sono persone che non devono rinnovare il permesso, e che quindi in qualche modo hanno un progetto di stabilità abbastanza ampio.
Riguardo ai permessi di soggiorno, quindi ai flussi di concessione di nuovi permessi, un dato che credo valga la pena sottolineare è come sia cambiata nel tempo la motivazione. Mentre una volta avevamo in mente un’idea di permesso per venire in Italia a lavorare, dovuto ad un forte richiamo del mercato del lavoro, oggi, secondo gli ultimi dati disponibili, i permessi concessi per motivi di lavoro sono il 4,6 per cento; 100.000 permessi sono concessi per motivi umanitari e motivi connessi; l’altra grossa quota, il 43 per cento, sono per motivi familiari, spesso ricongiungimenti.
È cambiata, quindi, la motivazione. In un certo senso, è l’indizio di un processo che combina maturazione (ricongiungimenti familiari) a trasformazioni indotte da un cambiamento degli scenari internazionali.
Vado rapidamente verso la chiusura.
Un altro tema ovviamente importante e centrale è quello relativo ai rifugiati e ai richiedenti asilo. Che ci dicono qui i dati statistici? A monte di rifugiati e richiedenti asilo ci sono, evidentemente, persone che arrivano sul territorio italiano con quest’obiettivo, con questa finalità dichiarata. I dati sugli sbarchi penso che li abbiate visti abbondantemente, e forse avrete occasione anche attraverso il Ministero dell’interno di averne ulteriori dettagli. Tanto per richiamare qualche numero: nel 2015, 154.000 arrivi; 183.000 nel 2016; 119.000 nel 2017; 23.000 nel 2018; a giugno 2019, 3.000. Va da sé che il fenomeno per vari motivi si è fortemente ridimensionato.
Naturalmente, dopo lo sbarco c’è la procedura di richiesta. La considerazione un po’ «grigia» che è possibile svolgere grazie ai dati statistici – molto spesso, questi fenomeni non si riescono a documentare in maniera perfetta – è che si è passati da una fase – qualche anno fa – in cui all’arrivo, in un progetto di migrazione verso il nord Europa, si attraversava l’Italia e si svicolava altrove, a una fase successiva in cui le uscite erano più controllate, dunque più difficili; quindi, non si poteva facilmente andare altrove. Si arrivava, si rimaneva, si cercava di capire come muoversi e magari, già che ci si era, si chiedeva lo status – non importava se si avevano i requisiti o meno – perché questo quantomeno consentiva di muoversi con una certa legalità e di avere poi una serie di aiuti, di assistenza. Questa è un’evoluzione successiva, direi tutto sommato degli ultimi anni.
Naturalmente, si è avuto come conseguenza un aumento delle domande di richiesta d’asilo e, laddove le domande sono respinte, un aumento delle persone che – se non rimpatriate, non riuscendo a realizzare l’obiettivo iniziale di andare, per esempio, in Svezia – rimangono sul territorio italiano in condizione di non regolarità relativamente al soggiorno.
Quanto ai numeri, ci sono state 130.000 nuove domande nel 2017, ed erano state 83.000 nel 2015 (quindi c’è stato un forte aumento nel 2017); nel 2018, si sono fermate a 60.000; nel primo semestre del 2019, sono state poco più di 18.000. L’esito di queste domande molto spesso è negativo. Il 60 per cento di queste domande, ma forse anche più negli ultimi tempi, non viene accettato, perché non ci sono i requisiti. C’è la possibilità di fare ricorso, ma anche il ricorso molto spesso va a finire come per la presentazione della domanda iniziale. È chiaro che c’è un processo che si muove in questa direzione. Questo è per avere il quadro delle conoscenze su quest’aspetto un po’ più critico.
Quanto alle caratteristiche di coloro che seguono questo canale e appartengono a questa sotto-popolazione, si tratta prevalentemente di maschi. Si è molto ridimensionata rispetto al passato anche la stessa presenza dei minori non accompagnati, che era un altro grande problema. È un numero importante, ma è stato veramente molto importante negli anni passati. Ed erano provenienze di vario genere: dall’Albania, dall’Egitto, cioè qualche volta da Paesi dai quali non si capiva bene come si potesse verificare tale fenomeno. Comunque, questa era la realtà dei fatti. C’è una maggiore mobilità interna, cioè chi segue questi processi e questi canali è chiaro che si sposta più facilmente, anche perché ha meno radicamento sul territorio, ha meno punti di riferimento. Questo è anche facile da capire.
Concludo con un’ultima riflessione sulle seconde generazioni. L’immigrazione ha aspetti problematici, e credo che l’abbiamo intuito un po’ tutti, ma ha anche una componente importante e interessante, come ho detto prima, di ringiovanimento della popolazione italiana, in un Paese – qui faccio il demografo, consentitemelo – che da sei anni stabilisce ogni anno il record della più bassa natalità di sempre in oltre 150 anni di storia del Paese. Ogni anno miglioriamo il record al ribasso e, se posso anticipare, i primi tre mesi del 2019, confrontati con i primi tre mesi del 2018, mettono in evidenza che le nascite sono diminuite ancora del 2,4 per cento. Stiamo continuando anno dopo anno a fare record di questo tipo.
Può andar bene, secondo qualcuno. Qualche problema, secondo una mia opinione del tutto personale, quindi non come presidente dell’ISTAT, ma semplicemente come demografo, rischia effettivamente di portarcelo, se andiamo avanti in questo modo. La componente straniera ha dato un contributo. Lo ha dato in passato. Lo continua a dare. Riconosciamogli, quindi, quest’aspetto, però attenzione, riconosciamo un altro dettaglio.
Nel 2012, avevamo 75.000 – vado a memoria – nati stranieri: siamo scesi a 63.000, pur essendo aumentata la popolazione. Che cosa significa? Significa che la popolazione straniera continua a dare un importante contributo, ma naturalmente c’è un adattamento ai problemi, alle difficoltà, ai comportamenti, ai modelli della popolazione locale, anche da questo punto di vista. Se posso, aggiungere: non illudiamoci che sia la soluzione al calo delle nascite. È un contributo importante – qui parlo ai parlamentari – ma forse la soluzione va trovata anche in altri modi. Comunque, è certamente un elemento importante.
Le seconde generazioni sono una componente estremamente importante. Per darvi qualche numero, i minori di seconda generazione stranieri o già italiani sono, al 1° gennaio 2018, circa 1.300.000; di questi, tre quarti, sostanzialmente quasi un milione, sono nati in Italia, quindi sono l’investimento nel mondo dei giovani che faticosamente riusciamo a creare. Quei giovani che non creiamo, in qualche modo l’immigrazione ci ha aiutato ad averli. Questo, secondo me, è un elemento importante, a cui dare il giusto rilievo.
Come vedete, i dati sono tanti. Sono anche, credo, interessanti e, vorrei sottolineare, oggettivi. Qui non è questione di vederla in un modo o di vederla nell’altro. I numeri sono questi. Certo, i numeri non sono mai certezze assolute, però vi garantisco, per la mia modesta esperienza da presidente dell’ISTAT, che dietro c’è una grossa professionalità su questi aspetti. Soprattutto, non c’è nessun condizionamento di natura ideologica. Io non so come la pensi su questi aspetti ciascuno di coloro che lavorano all’ISTAT, però so che lavorano con impegno e seriamente per dare un dato che sia il più possibile rispondente alla realtà.
In questo senso, abbiamo iniziato una serie di attività. Vi ho accennato prima alcune fonti. Siamo andati a collocare la componente straniera anche all’interno di alcuni fenomeni di grande rilevanza sociale. Pensate alla povertà: abbiamo messo in evidenza come effettivamente, misurando la povertà e distinguendo la povertà degli italiani e degli stranieri, la componente straniera sia indubbiamente molto più esposta ai fenomeni di esclusione sociale e di povertà. Questo è un dato di fatto. Poi, magari, potremmo scoprire che, strada facendo, le cose migliorano, che, strada facendo, aumentando la permanenza in Italia, le condizioni vanno nella direzione che auspichiamo. Sono tutti elementi da ipotizzare e verificare con i numeri, però questo è un dato di fatto.
Altro dato di fatto, recente, dell’altro giorno: i dati sull’occupazione. Non è una «roba» da brindare – parliamoci chiaro – ma non è neanche così drammatica come qualcuno ci vuol far credere; magari, altri elementi destano più preoccupazione sul piano economico, ma l’occupazione in qualche modo – ci si può poi interrogare sul perché – funziona, tiene.
Ebbene, quando andiamo a vedere che aumenta la propensione a entrare sul mercato del lavoro, quindi l’offerta sul mercato del lavoro, che aumentano gli occupati e calano i disoccupati, questo non può che farci piacere in generale; ancora una volta però, nella scomposizione tra italiani e stranieri, dobbiamo scoprire che le tre cose «positive» valgono per la componente italiana ma non per la componente straniera. Non è drammatico – parliamoci chiaro – però per tutte le tre variabili (modalità di offerta, occupazione e disoccupazione), gli italiani vanno nella direzione giusta, gli stranieri fanno qualche passo indietro. E questo è un altro elemento da tenere, a mio parere, nella giusta considerazione.
È vero, è un dato congiunturale. Ragioniamo con periodi più lunghi. Intendiamoci, non è nulla di assolutamente definitivo, però sono lampadine che si accendono, avere tempestivamente consapevolezza delle quali credo sia estremamente importante, laddove si voglia poi intervenire e governare un fenomeno che, trattandosi di persone, è ovviamente un fenomeno estremamente importante.
Concludo semplicemente dicendo che la nostra intenzione è quella di continuare con questa attività di monitoraggio. Mi piacerebbe lasciare un’impronta, se riesco, nello sviluppare anche una tematica molto delicata che in Europa non viene affrontata più di tanto dalle statistiche ufficiali, che è quella della presenza irregolare, analizzata in maniera scientifica, oggettiva.
Mi piacerebbe, e stiamo cercando di capire come, fare in modo che l’ISTAT sia in grado di fornire delle stime – continuo a chiamarle stime – anche sulla componente irregolare. Facciamo le stime sul sommerso economico, perché non provare a fare, ripeto con un taglio assolutamente oggettivo e non ideologico, stime anche su questa componente, che è molto più delicata, seguendo nel tempo quanto e chi si trova in questa posizione, in modo da capire come eventualmente intervenire e governare un fenomeno estremamente delicato?
Vi ringrazio per l’attenzione. Resto a disposizione per qualunque domanda.