La scelta della Germania per la produttività.
Nella lista diffusa ai primi di gennaio dall’ Ocse sui Paesi più «rigidi» in tema di licenziamenti, la Germania occupa saldamente le posizioni di testa insieme ai paesi del Nord Europa.
Ma perché allora tutti guardano al «modello tedesco» quando si invoca in Italia una maggiore flessibilità e si propone una riforma dell’ articolo 18 dello Statuto dei lavoratori che prevede la possibilità di essere reintegrati con lo stesso trattamento di cui si godeva in precedenza? «La grande differenza tra la Germania e l’ Italia è che il datore di lavoro e il dipendente licenziato si accordano nel 95 per cento dei casi per un indennizzo che viene valutato in base all’ anzianità del lavoratore: un mese di stipendio al massimo ogni anno trascorso in azienda, molto meno di quanto questo indennizzo viene calcolato in altri Paesi europei», spiega al Corriere Jochen Homburg, uno dei dirigenti del sindacato dei metalmeccanici Ig Metall, impegnato proprio in queste settimane in una dura battaglia per un aumento del 6,5% dei salari nei negoziati per il rinnovo del contratto in scadenza il 31 marzo.
Nel frattempo, dopo una serie di agitazioni che hanno colpito i trasporti, il governo ha offerto proprio ieri il 3,3% in più ai due milioni di dipendenti del settore pubblico, ben al di sotto di quel 6,5% chiesto dalla Ver.Di, l’ Unione dei sindacati del settore dei servizi.
Il fronte sindacale è caldo, ma la situazione del mercato del lavoro nel suo complesso è ottima, nonostante il leggero rallentamento del Pil che si è registrato nell’ ultimo trimestre del 2011. I dati dell’ occupazione in febbraio, secondo la Bundesagentur für Arbeit non hanno risentito della gelata del mese precedente. In particolare, la disoccupazione giovanile è all’ 8%, quindici punti in meno della Francia e ventuno in meno dell’ Italia.
I numeri parlano chiaro, quindi, e la Germania rimane un esempio in Europa. A partire dalle grande riforme strutturali che negli anni passati hanno reso più flessibile il mercato del lavoro, reso l’ economia più competitiva, evitato licenziamenti, rilanciato in modo decisivo le esportazioni. E il Welfare funziona, sia nel campo dei sussidi che in quello degli ammortizzatori sociali.
Ma oggi è in particolare nel negoziato per la revisione dell’ articolo 18 che l’ attenzione verso quanto accade in casa tedesca è molto forte: a Roma si cerca un compromesso tra Confindustria e sindacati proprio prendendo spunto dalle regole in vigore nella Repubblica Federale. «Sarei contrario alla sua abolizione.Ma per quanto invece riguarda una riforma dell’ articolo 18, l’ introduzione del modello tedesco andrebbe collocata in un contesto simile a quello del nostro Paese: la cogestione aziendale, la presenza dei rappresentanti dei lavoratori nella direzione delle imprese», avverte Homburg. Secondo il dirigente sindacale tedesco «bisogna sempre riflettere bene quando si interviene sui diritti dei lavoratori».
In Germania, dopo la notifica di un provvedimento di licenziamento e l’ azione legale intentata dal dipendente, il Tribunale del Lavoro deve riunirsi rapidamente, generalmente in un arco di tempo che va dalle due settimane ai due mesi. Il primo obiettivo è quello di arrivare ad un accordo di conciliazione. Nel caso che non si raggiunga una soluzione concordata, sarà successivamente il giudice a decidere per una delle due parti in causa, stabilendo eventualmente o il reintegro nel suo incarico o la concessione di un’ indennità al dipendente licenziato.
È possibile anche che il datore di lavoro possa respingere il reintegro, offrendo un risarcimento che può essere calcolato a partire da una metà del salario mensile lordo ogni anno di impiego fino a un mese di salario lordo per ogni anno di impiego. In determinati casi, si può tenere conto anche dell’ entità del nucleo familiare. Non esiste la possibilità di essere reintegrati e nello stesso indennizzati. In tutto l’ itinerario processuale è prevista l’ opzione di ricorrere al Tribunale regionale del Lavoro. È raro, come spiegava Homburg, che il licenziato ritorni al suo posto. Molto più frequente, invece, un accordo immediato o un’ accettazione delle proposte del datore di lavoro.
Le regole sulla «giusta causa» esistono quindi anche in Germania, ma si inquadrano in un’ ottica diversa che in Italia (dove si punta quasi sempre sul reintegro) oltre «ad essere applicate in modo più rapido e ragionevole dalla magistratura», come ha scritto recentemente Maurizio Ferrera. Un’ attenzione particolare nella protezione dei lavoratori sottoposti a misure di licenziamento viene rivolta alle donne in stato di gravidanza. Va detto infine che il Welfare tedesco prevede che il disoccupato non venga né lasciato a se stesso né dimenticato. La percentuale di senza lavoro che riceve il sussidio è tre volte maggiore, per esempio, di quella italiana ma l’ assegno si ottiene solo se ci si inserisce in quello che viene chiamato il meccanismo della «attivazione», dimostrando di non rifiutare eventuali nuove collocazioni.
3% Il tasso di crescita della Germania nel 2011, dopo una crescita del 3,7% registrata nel 2010. Quest’ anno l’ economia tedesca dovrebbe rallentare, ma meno dell’ Italia e della Spagna.
Il meccanismo Le rotture con accordo Il datore di lavoro e il dipendente licenziato si accordano nel 95% dei casi, anche davanti a un giudice, per un indennizzo in base all’ anzianità del lavoratore: un mese di stipendio al massimo per ogni anno in azienda Rivendicazioni salariali La Germania conosce in questa fase forti rivendicazioni salariali da parte dei lavoratori: sia nel settore pubblico, che fra i metalmeccanici, che all’ aeroporto di Francoforte La cogestione in azienda Nel modello tedesco è molto diffusa la cosiddetta «cogestione»: i sindacati siedono nel board delle grandi imprese. Ma hanno accettato orari più lunghi e flessibili negli ultimi anni L’ indennità ai senza lavoro In Germania la concessione di un’ indennità a chi resta disoccupato è molto più diffusa che in Italia. Essa tuttavia è legata alla cosiddetta «attivazione»: la si perde se si rifiuta un posto offerto tramite il collocamento
Paolo Lepri, Corriere della Sera, 13 marzo 2012