GIUSY D’ALCONZO, Coordinatrice della ricerca sull’Italia di Amnesty International. Buongiorno, presidente e onorevoli deputati. La mia relazione verte sulla situazione dei diritti umani in Italia.
L’Italia è uno dei 139 Paesi del mondo di cui il nostro Rapporto annuale riferisce violazioni dei diritti umani ed è per questo motivo che apprezziamo molto tutte le occasioni di dialogo e di approfondimento che possiamo avere con le istituzioni italiane relativamente a questi temi.
Evidentemente il contributo delle istituzioni nazionali dei singoli Paesi alla giustizia internazionale, che, come è stato citato, rappresenta un nostro punto di vista e la nostra prospettiva sul mondo, soprattutto quest’anno, è molto importante, almeno da due punti di vista.
Innanzitutto, lo è in termini di riconoscimento delle responsabilità politiche delle istituzioni dei singoli Paesi e quindi della necessità di correggere il tiro relativamente ad alcune scelte, quando esse hanno un impatto visibile concreto e negativo sui diritti umani.
L’altro motivo è rappresentato dal ruolo che i tribunali nazionali svolgono nell’accertamento delle violazioni dei diritti umani, contribuendo all’accertamento della verità, il che ha già in sé un valore altissimo per le vittime, oltre che a una compensazione, a una restituzione anche di giustizia e di credibilità alle vittime e alle loro famiglie, quando i tribunali nazionali intervengono rispetto a violazioni specifiche.
L’Italia che emerge dal nostro Rapporto annuale 2010 è un Paese in cui sono visibili i segni concreti delle politiche adottate negli anni scorsi. Mi riferisco a un arco piuttosto ampio di tempo. Parliamo, dunque, sia di lacune legislative molto antiche, che non sono state colmate dai diversi Governi avvicendatisi in questi anni, sia di scelte più recenti, che stanno avendo effetti immediati sulle vite e sui diritti umani delle persone.
Come è emerso nel corso dell’Esame periodico universale davanti al Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, che ha riguardato l’Italia e si è concluso lo scorso giugno, sarebbe necessario che l’Italia introducesse nel Codice penale il reato di tortura. Lo sosteniamo da molti anni e ci sembra assolutamente urgente che il Paese non continui a privarsi di questo strumento importantissimo di tutela, lasciando di fatto la tortura senza nome nella legislazione penale. Ci siamo molto rammaricati del rifiuto, da parte delle nostre istituzioni, di accettare questa raccomandazione. Come illustrerò più avanti nella mia relazione, ciò ha effetti concreti, immediati, molto pratici sulla vita delle persone e sulla stessa giustizia.
Al contempo, abbiamo molto apprezzato, invece, l’impegno che l’Italia ha preso, sempre in sede di Consiglio per i diritti umani, di adottare misure contro il razzismo e la discriminazione dei rom, dei richiedenti asilo e dei migranti. Anche in questo caso, si tratta di misure di cui si sente un bisogno pratico sul campo; non è, dunque, una questione soltanto di lacune legislative, ma proprio di effetti concreti. Quanto le misure contro la discriminazione di queste persone siano necessarie emerge, infatti, dal nostro Rapporto annuale.
Relativamente ai rom, mi riferisco in particolare all’illegittimità, dal punto di vista del diritto internazionale, delle politiche di sgombero forzato praticate in molte città italiane, tra cui Roma e Milano, nei confronti delle comunità rom e sinte, sulla base di decreti che dal 2008 definiscono le persone cosiddette nomadi un’emergenza, al punto di fornire poteri speciali, in deroga alle norme ordinarie, alle autorità, nello specifico i prefetti, che di tali persone sono chiamate a occuparsi.
Queste politiche stanno lasciando centinaia di persone, comprese famiglie con bambini, prive di abitazione e senza alternative; ottengono, inoltre, il risultato di mettere intere comunità in fuga da un posto all’altro del Paese.
Abbiamo ricevuto molte segnalazioni di sgombero da Milano, per una situazione che però è in corso di approfondimento da parte nostra. Sono già note, invece, le nostre preoccupazioni sul Piano nomadi di Roma, che, se attuato come previsto, sposterebbe migliaia di persone di fatto fuori dalla città, interrompendo i percorsi scolastici avviati per i bambini e aggravando la situazione che viene definita di «segregazione abitativa» da molti comitati internazionali che hanno monitorato l’Italia.
Ci sembra che, comunque, vi siano ancora tempi e modi per un ripensamento del Piano nomadi. Stiamo valutando e monitorando la situazione, che è in evoluzione e torneremo a parlare di questo tema in seguito.
Sempre in relazione agli impegni assunti dall’Italia davanti al Consiglio per i diritti umani, è importante sottolineare che il Paese si è impegnato espressamente a rispettare il diritto internazionale in merito al non respingimento dei richiedenti asilo soccorsi in mare. Ha esplicitamente affermato di voler tener fede a quello che viene definito non-refulment nel diritto internazionale.
A questo punto, è evidente il collegamento con la gravità di ciò che accade nel Mediterraneo. Per noi l’allontanamento dei migranti e dei richiedenti asilo che hanno tentato di chiedere protezione in Europa e in Italia da parte delle istituzioni italiane è una grave violazione dei diritti umani, che mette a rischio il sistema di protezione e dell’asilo stesso, non solo in Italia, ma in tutta Europa. Ci siamo, infatti, rivolti anche alle istituzioni europee su questo tema.
Queste politiche vengono attuate sulla base di più accordi, siglati dal Governo presente e dal precedente. Mi riferisco all’accordo quadro firmato dal Presidente del Consiglio Berlusconi e dal leader libico Gheddafi nel 2008, il cosiddetto accordo di amicizia e cooperazione con la Libia. Mi riferisco anche agli accordi sul pattugliamento in mare di livello ministeriale siglati dall’allora Ministro dell’interno Amato, a dicembre 2007. Sulla base di tali accordi l’Italia ha consegnato alla Libia alcuni mezzi per operare il pattugliamento in mare.
Lo stesso Governo italiano ha dichiarato che oltre 830 persone, tra cui decine di donne, almeno una delle quali in gravidanza, e diversi minori, sono state riconsegnate – per usare il linguaggio istituzionale – alla Libia. Sappiamo che poi molte altre sono state intercettate direttamente dalle autorità libiche. A oggi non conosciamo il destino di queste persone, né di quelle intercettate dalle autorità italiane, né delle altre.
Sono note a tutti le segnalazioni veramente allarmanti che provengono in questi giorni proprio dalla Libia relative al trasferimento di oltre 200 eritrei dal centro di detenzione di Misurata all’area di Sabah, che è molto più vicina al confine meridionale. Da lì le persone evidentemente rischiano un rimpatrio, rispetto al quale voglio segnalare che Amnesty International ha lanciato un appello internazionale al Governo libico affinché esse non vengano rimpatriate in Eritrea, dove rischiano torture e maltrattamenti perché considerate traditrici del Governo. Si tratta spesso di persone che fuggono dall’obbligo di leva, che in Eritrea è permanente. L’appello è affinché siano garantiti loro, a uomini, donne e bambini, l’acqua, il cibo e le cure mediche.
È, quindi, in corso in questo momento quella che noi chiamiamo un’azione urgente. Abbiamo chiesto ai nostri membri in tutto il mondo di scrivere al Governo libico per salvare queste persone.
Nell’ambito delle politiche di immigrazione abbiamo espresso nei mesi scorsi preoccupazione anche relativamente al pacchetto sicurezza e alle riforme dell’immigrazione preannunciate dai primi atti adottati in materia di sicurezza e immigrazione dal Governo Prodi nel 2007, diventati poi un piano molto più dettagliato successivamente.
Come è noto, esse contemplano l’aggravante di immigrazione irregolare, che per noi è una misura discriminatoria, perché discrimina tra imputati dello stesso reato, e il reato stesso di immigrazione regolare, che ha avuto soprattutto l’effetto immediato di stigmatizzare i migranti irregolari, la maggior parte dei quali è qui per lavorare.
Al di là del legittimo diritto, direi obbligo, dello Stato di controllare i confini e di avere una politica di immigrazione, crediamo che possa essere controproducente allontanare i migranti dalle istituzioni.
Avviandomi verso la conclusione, vorrei tornare al ruolo dei tribunali, perché, come ricordavo, i tribunali nazionali hanno un ruolo importante. Le violazioni dei diritti umani molto spesso sono anche reati e ciò mette in luce la responsabilità dei giudici internazionali nell’accertarli e punirli.
Ci sono state diverse sentenze importanti in Italia nel 2009 e 2010, che abbiamo già richiamato, lanciando il Rapporto annuale lo scorso maggio.
Il 4 novembre del 2009 ha avuto un esito in primo grado la procedura giudiziaria da considerarsi la più avanzata in Europa contro i responsabili di una rendition. Mi riferisco alla condanna da parte del tribunale di Milano di 22 agenti della CIA, di un ufficiale militare statunitense, di due agenti dei servizi di intelligence militare italiana per il rapimento di Abu Omar, trasferito illegalmente in Egitto nel 2003 e ivi detenuto segretamente per 14 mesi. Si tratta, quindi, di una condanna per rapimento.
In mesi più recenti, invece, la Corte di appello di Genova ha scritto una pagina molto importante nella ricostruzione degli abusi commessi dalle forze di polizia durante il G8 del 2001. Vi è stato, relativamente al caso della Diaz, il riconoscimento della colpevolezza di oltre 25 tra agenti e dirigenti di polizia per le lesioni, gli arresti illegali e i reati di falso e calunnia commessi ai danni dei manifestanti inermi aggrediti nella notte nella scuola.
Precedentemente, a marzo, erano state riconosciute le responsabilità penali di tutti i 44 imputati, anche in questo caso agenti della polizia di Stato, ma anche medici, per le brutalità compiute nel carcere provvisorio di Bolzaneto. Voglio ricordare che i detenuti furono costretti a tenere posizioni dolorose e minacciati di stupri e di violenze e che le perquisizioni furono volutamente degradanti.
È importante che a centinaia di vittime, anche se dopo molti anni, sia stata restituita la credibilità e in parte anche la giustizia, nonché il diritto a un risarcimento. Crediamo che su decine di agenti e funzionari dello Stato, che in quel momento si trovavano a Genova per proteggere i manifestanti e non per violarne i diritti, pesi invece il fallimento dell’ordine pubblico di quei giorni.
Ci sono state altre sentenze, successivamente. Nel luglio del 2009 vi è stata la condanna, sempre in tema di responsabilità delle forze di polizia, di quattro agenti per l’uccisione di Federico Aldrovandi a Ferrara e nello stesso mese, da parte del tribunale di Arezzo, il riconoscimento della responsabilità di un agente della polizia stradale per l’uccisione di Gabriele Sandri.
In molti di questi processi il percorso è stato lungo e tortuoso e non sempre facilitato dalle istituzioni di appartenenza degli imputati. Ha rischiato, quindi, di perdersi un po’ nel vuoto ed è stata necessaria molta tenacia da parte delle persone colpite, quando erano ancora vive, o comunque da parte delle loro famiglie e dei giornalisti.
È stato necessario che tale percorso fosse accompagnato e non sempre dal nostro punto di vista è stata raggiunta una verità completa. Relativamente al processo Abu Omar sia il Governo Prodi, sia il Governo Berlusconi hanno posto il segreto di Stato. Riteniamo che ciò abbia impedito il riconoscimento della verità, che in un processo penale può significare innocenza o colpevolezza.
L’episodio dei fatti di Genova – vediamo gli effetti concreti, che citavo all’inizio – è stato pesantemente segnato dalla mancanza del reato di tortura. In particolare, nel processo di Bolzaneto i magistrati inquirenti, ma anche il tribunale e la Corte d’appello, hanno segnalato che la mancanza del reato di tortura ha impedito di punire adeguatamente i colpevoli. Risultava ampiamente provato un comportamento che coincide con la definizione internazionale di tortura, ma nel nostro Codice penale è stato necessario fare ricorso a reati come l’abuso d’ufficio o le lesioni, che si prescrivono, mentre il reato di tortura sarebbe imprescrittibile, se adottato.
Questa è una delle differenze, ma ce ne sono molte altre. Ci sono molti buoni motivi, oltre a un obbligo internazionale, per contemplare il reato di tortura nel Codice penale.
Un ultimo cenno, nel tentativo di ricostruire quanto meno una sintesi sulla situazione dei diritti umani in Italia, va sicuramente ai rischi crescenti per le minoranze.
Come nel mondo, così anche in Italia siamo preoccupati per quanto sta accadendo alla minoranza LGBT, ossia alle persone lesbiche, gay, bisessuali e transessuali, contro cui abbiamo visto un crescere, come segnalato dalle ONG che se ne occupano, di attacchi.
Abbiamo scritto, pochi giorni prima del pride nazionale di Napoli, alla Ministra Maria Rosaria Carfagna, innanzitutto apprezzando la campagna lanciata contro l’omofobia e segnalando che abbiamo molto apprezzato l’annuncio del capo della polizia Manganelli sull’istituzione di un ufficio centrale che debba occuparsi proprio di minoranze e di discriminazione.
Allo stesso tempo, chiediamo alle istituzioni di tenere alta l’attenzione su questi attacchi, affinché siano puniti adeguatamente, perché ci sembra che abbiano un impatto sulla sicurezza delle persone colpite, ma anche di tutti noi.
Per la sicurezza di tutti noi e delle persone che si trovano nel potere delle istituzioni italiane o che si sono trovate sottoposte alla responsabilità delle istituzioni italiane voglio concludere rinnovando il nostro appello al Governo italiano affinché utilizzi il rapporto privilegiato che ha, in questo momento, nel panorama internazionale, nelle relazioni con la Libia per favorire un cambiamento della situazione dei diritti umani in tale Paese, nei confronti non solo dei migranti, ma anche dei cittadini libici.
Dal nostro punto di vista, l’esistenza di un dialogo internazionale con un Governo che ci preoccupa è un’occasione molto positiva, che crediamo il Governo italiano debba utilizzare per mettere i diritti umani nell’agenda e non per lasciarli fuori, come ci sembra sia successo sino adesso. Crediamo che ciò possa essere fatto in ogni occasione utile. Sappiamo che sono molti gli scambi e le visite reciproche, che hanno un impatto immediato sulle oltre 200 persone che in questo momento si trovano sospese su un filo, in una zona del deserto verso il confine sud-orientale della Libia. A loro soprattutto oggi va il nostro pensiero.