Sempre in tema di discriminazione, il 2009 è stato un altro anno difficile per gli uomini e le donne che si impegnano per vincere la discriminazione basata sull’orientamento sessuale.
Nell’Africa subsahariana è esplosa l’omofobia con numerosi arresti per immoralità e in Uganda con la presentazione di un progetto di legge sulla cosiddetta omosessualità aggravata, che prevede anche la pena di morte.
Perché vi sia giustizia, i Governi devono assicurare che nessuno si ponga al di sopra della legge, a prescindere da quale ruolo ricopre e da quanto sia grande il potere di cui dispone. Gli Stati devono garantire che ogni persona abbia accesso alla giustizia per tutte le violazioni dei diritti umani subìte.
La responsabilità per la tutela e la realizzazione dei diritti umani spetta innanzitutto agli Stati e ai loro organi, ma ci sono altri attori potenti che devono rispondere di violazioni dei diritti umani, in particolare quando gli organi dello Stato nel quale operano non riescono a salvaguardare l’incolumità della popolazione.
Gravi violazioni dei diritti umani sono causate dalle attività delle aziende multinazionali. Sono tuttora rari i casi in cui esse debbano rispondere realmente dei danni causati alle popolazioni locali.
Nel 2009 abbiamo ricordato che erano trascorsi 25 anni da quando la fuoriuscita di agenti chimici tossici da un impianto di pesticidi della Union Carbide a Bhopal, in India, aveva ucciso tra 7 e 10 mila persone nel giro di pochi giorni e ulteriori 15 mila negli anni successivi, danneggiando la salute e il benessere di 100 mila sopravvissuti.
Recentemente, dopo 25 anni, sette cittadini indiani sono stati condannati per il disastro, troppo poco e troppo tardi rispetto all’immane tragedia consumata. Amnesty International chiede ai Governi di India e Stati Uniti che la compagnia statunitense sia portata di fronte alla giustizia.
Registriamo come buona notizia il fatto che il 17 giugno 2010 l’Unione europea ha reso nota la disponibilità a offrire supporto finanziario e tecnico per una valutazione indipendente, complessiva e verificabile dell’ampiezza della contaminazione dell’ex impianto della Union Carbide a Bhopal.
Nel delta del Niger, una zona umida abitata da 31 milioni di persone, gli sversamenti di petrolio nel terreno e nelle acque negli ultimi 50 anni equivalgono a 50 volte l’inquinamento causato dall’incidente della Exxon Valdez.
Il gas flaring, che danneggia la salute e la base vitale di migliaia di persone, continua a essere praticato anche dall’ENI e permesso dalle autorità nigeriane, nonostante sia stato vietato dall’Alta corte nigeriana nel 1984. Il grave impatto dell’estrazione petrolifera sui diritti umani è ancora in attesa di una soluzione.
Oltre ai Governi e alle aziende, dobbiamo ricordare le responsabilità impunite di un terzo soggetto: i gruppi armati di opposizione.
In Afghanistan, Colombia, Repubblica democratica del Congo, Israele e territori palestinesi occupati, Pakistan, Somalia, Sri Lanka, Iraq e Yemen gruppi armati, presumibilmente affiliati ad Al Qaeda in questi ultimi due Paesi, si sono resi responsabili di attacchi indiscriminati e hanno preso di mira la popolazione civile.
Durante il 2009 sono proseguiti i conflitti in Afghanistan, Ciad, Colombia, Repubblica democratica del Congo, Gaza e sud di Israele, Iraq, Somalia, Sri Lanka e Sudan. Decine di migliaia di civili sono state intrappolate tra i fronti o addirittura prese di mira nei combattimenti tra forze governative e gruppi armati.
Ci conforta, tuttavia, constatare come sempre di più i crimini contro l’umanità siano visti come fatti di enorme gravità, cui rispondere con inchieste e procedimenti giudiziari, anziché con alchimie politiche e diplomatiche. Ciò appare sempre più chiaro quando si tratta di crimini di tortura, sparizione e attacchi contro la popolazione civile. È di pochi giorni fa la notizia della condanna all’ergastolo di due militari serbo-bosniaci giudicati colpevoli di genocidio per il massacro di Srebrenica.
È necessario, però, anche individuare le responsabilità giuridiche per la negazione dei diritti umani fondamentali come il cibo, l’istruzione, la salute e l’alloggio.
Oltre ai casi di grave inquinamento causato dalle attività industriali, ci riferiamo anche ad altre violazioni, come il blocco economico israeliano contro Gaza, in vigore ormai da tre anni, i continui attacchi dei talebani alle scuole femminili in Afghanistan, il divieto assoluto di aborto introdotto in Nicaragua, gli sgomberi forzati delle fasce più povere della popolazione in Angola, Egitto, Ghana, Kenya e Nigeria, quelli ai danni dei rom in Bulgaria, Grecia, Italia, Romania e Serbia, la segregazione scolastica dei bambini rom nella Repubblica Ceca e in Slovacchia.
La povertà è una prigione in cui sono reclusi miliardi di persone i cui Governi non assicurano loro il diritto al cibo, all’alloggio, alla salute e all’acqua. I Governi devono far diventare tali diritti una realtà, assumendo impegni vincolanti su questo tema e rendendo conto delle loro azioni. Le promesse e le dichiarazioni di intenti non sono più sufficienti.
La conferenza delle Nazioni Unite sugli Obiettivi del millennio che si svolgerà a settembre sarà un’opportunità importante per i leader del mondo per passare dalle parole a impegni vincolanti e affrontare la povertà mettendo al centro del loro operato la responsabilità di garantire i diritti umani.
Amnesty International sta chiedendo a tutti i Governi, compreso quello italiano, di rendere coerenti con gli standard internazionali dei diritti umani le leggi, le politiche e i programmi di riduzione della povertà. Gli Stati devono garantire l’accesso alla giustizia a chi ha subìto violazioni da parte delle aziende e dare piena adesione al Protocollo opzionale al Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali, la cui adozione, nel settembre 2009, ha sancito l’esigibilità dei diritti economici, sociali e culturali.
Amnesty International si aspetta dal Governo italiano, che ha firmato immediatamente il protocollo, l’avvio dell’esame di un disegno di legge di ratifica.
Gli Stati devono, inoltre, rafforzare i meccanismi per portare davanti alla giustizia chi ha commesso violazioni dei diritti civili e politici e il vertice della politica mondiale deve dare l’esempio. Tutti gli Stati del G20, che rivendicano una leadership globale, devono dare piena adesione alla Corte penale internazionale, la quale, a sua volta, dovrebbe ampliare il proprio raggio d’azione, che finora si è limitato all’Africa.
Serve un impegno internazionale maggiore per assicurare giustizia alle popolazioni di Paesi come Colombia, Sri Lanka, Georgia, Afghanistan, Israele e Territori occupati palestinesi, Iraq, anche attraverso un ruolo maggiormente attivo del Consiglio di sicurezza, che può decidere di deferire alla Corte casi relativi ai Paesi che non sono vincolati dal suo statuto.
Quanto all’ONU, l’impegno in direzione della giustizia globale potrebbe essere reso più credibile, solo per citare due esempi, dall’apertura immediata di un’indagine internazionale indipendente sui crimini commessi dalle due parti del conflitto in Sri Lanka e dalla forte richiesta a Israele e Hamas affinché diano attuazione alle raccomandazioni del Rapporto Goldstone relative a crimini di guerra e a possibili crimini contro l’umanità commessi a Gaza e nel sud d’Israele durante l’operazione Piombo fuso.
La società civile svolge un ruolo fondamentale nell’accertamento della verità e verso una giustizia che condanni i responsabili e garantisca riparazione alle vittime. I Governi hanno, dunque, il dovere di proteggere le attiviste e gli attivisti dei diritti umani perché possano operare in sicurezza per la costruzione di un mondo in cui le persone possano vivere libere dalla paura e dal bisogno.
La lezione che abbiamo appreso dal 2009 è che vi è un grande bisogno di giustizia globale, che porta con sé l’equità e la verità per le vittime, ponendosi come deterrente nei confronti delle violazioni dei diritti umani e contribuendo a un mondo più stabile e sicuro, più libero e giusto.