Tratto dalla Presentazione alla Biblioteca del Senato “Giovanni Spadolini” della giornalista Irene Bignardi, Roma 12 luglio 2012
«…io sono stata sempre estremamente affascinata dai racconti che mi facevano i miei amici di origine ebraica, non certo per le vicende terribili che poi ciascuno di loro, o dei loro genitori, ha incontrato, ma per l’aura di libertà e di stranezze che si portavano dietro.
La mia amica Benza Achel mi raccontava della fuga da Alessandria di sua nonna con dei diamanti nascosti, non vi dico dove ma lo potete immaginare. Una signorina Adef, che non conosco, ha scritto un libro incantevole sulla peregrinazione della sua famiglia da un punto all’altro del Mediterraneo.
Il mio amico Silvio Sarfatti mi raccontava delle vicende di sua mamma e delle sue nonne. Però, spesso, il finale era drammatico. Quello che mi continuava ad appassionare era la capacità di questo popolo, chiamiamolo come vogliamo, a cambiare, la capacità di muoversi su uno scacchiere mondiale con la storia che spesso li incalzava. Ma lo stesso con la capacità di farlo.
Il mio bisnonno la cosa più avventurosa che ha fatto è stata quella di trasferirsi da Modena a Mantova, credo che siano 40 chilometri circa. Questo è un po’ quello che contraddistingue noi italiani che siamo molto radicati alle nostre origini e alla nostra vita di un tempo. Invece, quello che ho ritrovato in questo libro, al di là della parte drammatica con cui si conclude la storia e il mémoire di Fania, è proprio la disponibilità di questa grande famiglia all’avventura, a spostarsi, non solo sotto l’incalzare di una storia sempre più drammatica, ma anche per delle scelte deliberate. Quando queste ragazze decidono di tornare a Mosca per andare a studiare medicina, nell’imperversare della rivoluzione, lo fanno come io prenderei il treno per andare a trovare le mie amiche da Passigliano a Firenze, lo fanno con un senso della normalità, dell’avventura che è veramente impressionante.
Quello che è ancora più impressionante è che questa visione viene veicolata da dei personaggi femminili. Vi è una squadra di personaggi femminili formidabile in questo libro. Gli uomini che pur hanno fatto delle cose notevoli, vi sono dei personaggi pubblici famosi, da Alik Cavaliere al nonno Alberto inventore della “Chimica in versi”, i personaggi maschili che fanno parte di questa nostra storia, impallidiscono di fronte a queste donne. Impallidiscono di fronte a Sofia, incredibilmente bella e indifferente a tutto quanto, che procede con una durezza infinita verso i suoi fini. È straordinaria l’amarezza, il dolore e la rabbia che rapporta Raia nei confronti delle sorelle e che fino a 83 anni si convince di essere stata fregata dalla famiglia che invece ha passato vicende altrettanto tragiche. Ma tutti i personaggi sono formidabili e sembrerebbero inventati se non fossero ahimè, veri.
Qui si apre un altro piccolo discorso: recentemente c’è stato un dibattito sulla questione se il romanzo serve a capire la realtà o è al di fuori della realtà. Qui siamo in un impasse perché non è un romanzo ma una storia vera, anche se vorrei sapere, poi lo chiederò all’Autrice alla fine dell’incontro, quanto c’è di autentico nei sentimenti che lei mette nella testa e poi sulle labbra dei suoi personaggi, cioè su quali basi ha costruito la psicologia dei personaggi, al di là della loro storia evidente.
C’è qualche cosa di formidabile in questo raccontare la storia familiare che diventa storia di tutto un secolo. Storia attraversata da tutte le passioni, anche le peggiori. E per la verità si dovrebbe anche parlare di una annotazione molto forte che la nostra Fania Cavaliere fa a pag. 341 e che vorrei leggervi, quando la nonna decide di andare a cercare di capire perché diavolo si sono occupati di loro e che in realtà si offre praticamente ai carnefici che, garbatamente e molto educatamente, le dicono che lei cerchi pure sua figlia Sofia, c’è posto per tutti sostanzialmente ad Auschwitz.
Naturalmente dal campo di concentramento ritornerà Sofia, miracolosamente, ma non tanto, perché è un personaggio di quelli che se la cavano sempre, mentre la nonna resterà, invece, al di là dei fili spinati di Auschwitz. Ma tutto questo ci porta ad un discorso che condivido pienamente e che vorrei leggervi: «ad accompagnarla in carcere furono nuovamente due giovani italiani in divisa, di quelli che la nuova moda storiografica ha preso a comprendere e giustificare per il coraggio dimostrato nel difendere le proprie idee e l’onore della Patria. Sono coloro che hanno combattuto quello che oggi molti intellettuali di grido, finalmente liberi dal pregiudizio, definiscono guerra civile. Quelli che hanno rastrellato casa per casa uomini, donne, vecchi e bambini ebrei, Sofia, Etta e tanti altri, con la sola protezione delle S.S. della Wermacht. Che sia reso loro l’onore delle armi».
È un formidabile pezzo di sarcasmo e controsenso, nel senso che dice il contrario di quello che vuole dire, ma che mi sembra che sia veramente meritato, per un certo tipo di storiografia popolare che ultimamente sta ottenendo molto successo. Ci riporta, appunto, all’addio di Sofia e di sua madre, sulla banchina di Auschwitz, quando la povera vecchia signora, altro formidabile personaggio, coraggioso, capace di tenere assieme tutta questa grande tribù in mezzo a questi continui movimenti, spostamenti, orrori, viene risucchiata dalla folla e non ricomparirà mai più.
Sono delle pagine molto belle di un libro che non è sempre uguale, che riesce a ricreare un clima che è la parte bella e la parte brutta dei racconti che mi facevano i miei amici ebrei e che continua a farmi pensare che ci sia qualcosa di speciale nella … popolazione, religione ebraica che porta queste persone a vivere in maniera ancora più intensa, più tragica, più forte la vita di questo nostro secolo recente».