Tratto dalla Presentazione alla Biblioteca del Senato “Giovanni Spadolini” del Senatore Luigi Compagna, Roma 12 luglio 2012
« … mi pare che Asor Rosa abbia fatto un bellissimo riconoscimento a questo libro di Fania Cavaliere definendolo un libro che ha un protagonista irrinunciabile e irriducibile: un mondo degli affetti che sopravvive agli assalti dei conflitti più forti e più tragici.
Quindi, questo è un libro importante perché è un omaggio alla memoria, dove la memoria significa non il senso dell’interpretazione ma il senso del racconto. Da questo punto di vista il libro non ha tanto come protagonista il secolo Novecento, il secolo del totalitarismo che pure è attraversato da tutti i personaggi di questo libro, ma ha come protagonista una famiglia allargata a più generazioni che si incrocia con altre famiglie.
I protagonisti di questo libro sono dei personaggi in carne ed ossa, dei personaggi bellissimi soprattutto femminili, ha ricordato Irene Bignardi. Nello schema narrativo, effettivamente, la ricostruzione ha un capitolo su Sofia e uno su Raia, però meno di quel che sembra, perché ci sono anche personaggi maschili non meno importanti, non meno drammatici, non meno vivi, per come li vivono poi i personaggi femminili. Penso ad una serie di pagine bellissime: quelle dedicate alla morte del più piccolo dei Kaufmann, Doghia. In quel momento si recupera la generazione precedente, perché Doghia muore vittima incolpevole di quel culto, di quel dogma un po’ fessacchiotto della pianificazione. In questa morte drammatica Doghia, rivivendo lui tutto l’antico senso di colpa ebraico, ci teneva a far sapere che non aveva responsabilità. Ma chi è che sente la responsabilità? Abramo Kaufmann, il vecchio che è un ebreo assimilato, un ebreo laicissimo, però in quel momento cerca conforto nella religione dei padri e si sente colpevole per aver subito la diaspora, quella che Asor Rosa chiamava la tragedia di una famiglia proiettata dalla storia in direzione tragiche, e la moglie Etta, la bellissima protagonista di quella pagina 341, dice beato Abramo che almeno sente il conforto di una fede, la fede dei padri, in questo momento di dolore straziante.
Direi che un’altra pagina bellissima è la morte dell’altro fratello, il più grande, il comunista che ha già visto disillusioni e frustrazioni gigantesche del suo sogno trotzkista militare del comunismo e muore nella disperazione di questa guerra civile interminabile, non fra due russie ma tra una Russia e se stessa, dove c’è sempre, anche nella parte più bianca e più anticomunista di questa terra che combatte, un fortissimo antisemitismo, che non è nato nel Novecento. L’antisemitismo russo nasce tutto quanto nell’Ottocento.
Asor Rosa diceva «i Kaufmann sono una famiglia ricca e felice a Yalta». Forse ci appaiono così perché quelle su Yalta sono pagine della memoria e quindi della nostalgia, non rievocazione storica dell’impero russo multietnico che consentiva all’ebreo ricco di possedere una villa a Yalta, quanto rappresentazione di un ricordo che nella memoria di momenti successivi è evocato come felice: Yalta che diventava un mese all’anno la capitale dell’impero, perché ci arrivava la corte, c’era il mare, c’era il turismo, c’erano le immagini di se stesse bambine o dei propri genitori sereni.
Ecco, però le inquietudini del secolo breve c’erano già tutte quante e avevano attraversato per esempio la giovinezza di Sacha: si era messo a leggere testi eccessivamente franco-illuministi, Rousseau e Marx, avrebbe detto Galvano Della Volpe a suo tempo, e aveva preso le distanze dalla famiglia e da quella mamma Etta, che muore tragicamente a pagina 341 subito dopo il paragrafo letto da Irene Bignardi.
Fania Cavaliere ricorda così Etta Kaufmann: la bella ragazza che Abramo aveva tanto amato, l’orgogliosa e autorevole donna che aveva dato alla luce e schiaffeggiato un ufficiale dell’esercito sovietico. È questo un episodio di circa 250, 300 pagine prima, quando Etta Kaufmann facendo ricorso all’alterità degli affetti, cui talvolta è connesso un certo autoritarismo dei comportamenti, accompagnata dalla figlia prediletta, piglia a schiaffi il generale trotzkista. Quell’incontro è stupendo perché nel resto delle pagine tutti e due i personaggi, sia chi ha dato lo schiaffo, sia chi lo ha ricevuto, devono comprimere dentro di se l’ansia di abbracciarsi, di perdonarsi, di far prevalere, direbbe Asor Rosa, il mondo degli affetti.
La sensazione complessiva, che il mondo degli affetti abbia vinto, la si ricava un po’ da tutto il libro, da tutti i personaggi, da come si incrociano. Da questo punto di vista il libro è sia di narrativa sia di storiografia.
Se posso fare una considerazione storiografica, quello che non si incontra mai nel racconto, ed è stranissimo, singolare in una storia che comincia fra gli ebrei di corte, gli ebrei assimilati a Yalta, è il sionismo. Si incontrano i grandi totalitarismi successivi al sionismo, compreso il fascismo italiano, però il sionismo non lo si incontra mai in questo libro, così tanto attraversato dalla questione ebraica e che mi pare fosse sottesa anche nella citazione che ha fatto il prof. Asor Rosa, relativamente a quel bellissimo episodio dove i due bambini, uno dei quali è il papà dell’Autrice, vengono in qualche modo salvati, di nascosto, da quel “disdicevole”, fra virgolette, battesimo.
Ma che cosa è la questione ebraica? La questione ebraica è proprio quello che Heine, un grande poeta, ebreo, tedesco, dice: «il battesimo è come un biglietto di ingresso nella civiltà occidentale». È cioè rinunziare a se stessi, al proprio mondo, alle generazioni che si è perduto, per ottenere qualcosa che poi viene sempre rimesso in discussione.
Da questo punto di vista il sionismo fu la grande risposta europea all’antisemitismo dell’Est. Ricordo un collega senatore, molto più prestigioso di me, Leo Valiani, ebreo per parte di madre, cugino di Theodor Herzl, con un percorso abbastanza singolare perché era stato comunista, poi anticomunista, de gasperiano, atlantico, occidentalista, però e glielo riconoscono in molti, non volle mai tradire, nonostante quello che dicessero i suoi compagni nel campo di concentramento, quelli che erano stati i suoi compagni di lotta. A Valiani domandai: «professore ma lei che ha studiato la dissoluzione di uno dei grandi stati, l’impero austroungarico, perché nel farlo esamina tutti gli indipendentismi, i mazzinianesimi di quella terra e di quel periodo mentre il sionismo non lo considera?» Lui mi rispondeva: «l’antisemitismo in Austria non c’era». L’antisemitismo arriva dopo, come derivato del secolo breve, col caporale Hitler, con quelli che diventavano poi le pagine della mancanza, cioè del capo espiatorio per antonomasia contro l’idea multinazionale del sentimento politico. Pensiamo a grandi personaggi come Koestler, amico di Valiani, che era stato sionista, ungherese anche lui, comunista, poi anticomunista, ecco qualche volta nei personaggi di Fania, nei momenti più drammatici c’è questo senso dell’inutilità di tutto e di tutti che c’è in alcuni momenti narrati da Koestler in “Buio a mezzogiorno”.
A me è piaciuta molto la conclusione di Asor rosa: la memoria. Non è vero, come si dice o come si fa dire o come scrive la nonna della nostra Fania, che ci sono storie individuali destinate a restare sotto la neve. Certo…, ma il senso della memoria, il senso di raccontare, il senso per il quale credo che l’Autrice sia stata una nipote esemplare di quel mondo degli affetti raccontato, che è proprio quello di scavare e resuscitare dalla neve quanto c’è. Dal punto di vista della cultura occidentale, ha ragione Asor Rosa, c’è proprio questo senso della memoria».