Pubblichiamo l’intervento del Prof. Salvatore Carrubba alla presentazione del libro “Il Novecento di Fanny Kaufmann”, di Fania Cavaliere, Passigli Editori 2012
«… questo libro non è un romanzo, non è un libro di storia, ma è una saga familiare, di una famiglia molto particolare, la famiglia dell’autrice, di Fania Cavaliere. Non è una famiglia qualunque, non soltanto perché nelle ultime pagine soprattutto del libro domina una figura che domina l’ambiente nel quale ci troviamo adesso, e cioè quella dell’artista Alik Cavaliere, ma perché questa famiglia, come ha detto già bene il senatore Passigli, è in qualche misura un simbolo del Novecento e del Novecento europeo che è stato capace delle più terribili persecuzioni, dei peggiori totalitarismi.
La famiglia di Fania ha la sfortuna di incappare in entrambi i totalitarismi del Novecento europeo con l’aggravante, la famiglia, di essere ebrea e quindi di sperimentare e pagare, anche col sacrificio personale della vecchia madre, prima i Pogrom della Russia zarista poi naturalmente la Shoah.
Sono impressionanti nel libro, per esempio, le parole e i dati che accompagnano queste righe sulle persecuzioni che in Russia ebbero luogo contro gli ebrei e che continuarono poi con il nuovo regime comunista. Scrive, a un certo punto l’Autrice, che «una delle relazioni di causa-effetto così attraente e compiutamente false che ebbe straordinario successo negli anni immediatamente successivi alla rivoluzione sovietica, tra il drammatico peggioramento delle condizioni di vita della popolazione russa, è la comparsa di funzionari e ufficiali ebrei» ai quali, appunto, veniva attribuita la responsabilità di questo peggioramento delle condizioni. In questo senso effettivamente il Novecento di Fanny Kaufmann è il nostro Novecento, anche di chi non ha vissuto, come il sottoscritto, gran parte di quelle pagine drammatiche, ma che certamente nella sua vita è rimasto impressionato per l’eredità che si è trascinata fino a pochi anni fa sul nostro mondo, di un Novecento pieno di insensatezze e di malvagità, un Novecento che, nelle ultime pagine del libro, poi, diventa il Novecento di una famiglia milanese.
Nel libro troviamo una galleria di ritratti veramente indimenticabili, innanzi tutto Fanny che la passione per l’arte porterà a trasferirsi a Roma, dove, appunto, darà vita al ramo italiano della famiglia, Alberto, il marito, questa complessa figura di intellettuale un po’ all’italiana che spreca il suo ingegno tra le sottane, le carte da gioco e una strana attività di informatore per il partito comunista clandestino: però rigidamente antifascista, molto coraggioso, tanto che, a un certo punto, la moglie inorridisce perché nelle giornate tremende della Repubblica di Salò si diverte a mettersi una barba finta e ad andare ad ascoltare la propria condanna in contumacia, ma lui è lì, ha 28 anni di galera da parte del tribunale speciale, quindi una figura a modo suo di grande coraggio e di grande particolarità.
Una figura che mi ha molto colpito è il nonno, Abramo. Mi ha colpito per questa fede rocciosa e indiscutibile, che lo porta a sopportare, con una fermezza che richiama quella di Giobbe, tutte le avversità che gli capitano sul collo. Per lui, scrive l’autrice, «ovunque si trovasse c’era la fede, Dio non li avrebbe abbandonati», e così tanti altri personaggi che sono tutti raccontati con una partecipazione affettuosa da parte dell’autrice alla quale evidentemente la parentela non sempre ha fatto velo nel descriverli con grande sincerità, con le loro virtù e con il loro vizi.
Quindi, se il prof. Passigli mi consente, questa è anche una grande e una significativa prova narrativa proprio per la vivacità con la quale si dà vita a questi personaggi, ma certamente non è soltanto un romanzo.
Effettivamente questo è un saggio romanzato sui deliri ideologici del Novecento e sugli orrori del totalitarismo e Fanny di questi orrori è testimone involontaria e contrariata, lei che deve passare, deve fuggire dalla Russia neocomunista all’Italia che si appresta a diventare fascista.
A un certo punto, scrive l’autrice, «per sua natura Fanny era una di quelle strane persone che immaginano di poter rimanere estranee alle questioni politiche, eppure alla politica si trova in mezzo. Era certa Fanny che ci fosse un’enorme quantità di individui che aveva trascorso un’intera esistenza senza mai assistere a uno scontro di piazza, a un tafferuglio tra fazioni opposte, a una spedizione punitiva, e tanto meno ad un vero e proprio pogrom o ad una rivoluzione, e le sembrava bizzarro che intorno a lei il mondo non si presentasse mai nella sua versione più banale e accogliente»: evidentemente questa versione non le è stata consentita.
Su questi totalitarismi l’Autrice non fa sconti e, per esempio, a un certo punto, polemizza, nelle ultime pagine, quando si parla appunto della Repubblica di Salò, con una nuova moda storiografica, cito ancora dal suo libro, «che ha preso a comprendere e giustificare per il coraggio dimostrato nel difendere le proprie idee in onore della patria coloro che aderirono alla Repubblica di Salò. Sono coloro che hanno combattuto quella che oggi molti intellettuali di grido finalmente liberi dal pregiudizio definiscono guerra civile, quelli che hanno rastrellato casa per casa, uomini, donne, vecchi e bambini ebrei, Sofia e tanti altri, con la sola protezione delle SS e della Wermacht, che sia reso loro l’onore delle armi»: evidentemente l’autrice lo scrive in senso sarcastico e, ripeto, c’è questa sottolineatura che credo confermi anche la passione civile con la quale questo libro è scritto. D’altra parte, ci sono giudizi non meno severi sul regime che si era impossessato del proprio paese d’origine, della Russia. A un certo punto, per esempio, c’è un’immagine molto bella, all’inizio del libro, quando si parla della Russia stalinista, scrive l’autrice: «l’essere per l’uomo sovietico negli anni dello stalinismo coincideva con l’essere gettato in galera, nel senso che era come se tutto il tempo precedente non fosse trascorso se non nell’attesa di quel solo, assoluto evento. Gettato in galera per riprendevi coscienza di essere. Una vita insostenibile, indegna, in ciò il paradosso, prima non si era per niente, dopo non si era esseri umani», quindi, come vedete, una durezza e una analisi anche del regime staliniano molto chiare e molto nette.
La famiglia poi dà vita appunto a questo ramo italiano, che ci ospita anche in qualche misura questa sera, ed è molto interessante, nel seguire lo sviluppo di questo ramo della famiglia italiana, la descrizione che viene fatta nel libro dell’Italia fascista. E’ un’Italia in cui, a un certo punto, non viene certamente dimenticato che c’è un consenso nei confronti del regime, in parte, dice l’autrice, ciò è stato dovuto ad una spinta nazionalista, ma certamente non soltanto a quello; c’è, per esempio, una pagina nella quale viene descritto un po’ il clima intellettuale nel quale vivevano molti giovani in quegli anni e si parla di «giovani che erano perdutamente convinti della grandezza della nobiltà della rivoluzione fascista che stava guidando il trapasso da una civiltà all’altra, che aveva soppresso un mondo per creare un nuovo mondo di esseri, una società diversa, né capitalista né comunista, bensì corporativa, dove la autodisciplina dei produttori, padroni, operai insieme avrebbe dominato la vita economica, reso possibili inimmaginabili successi e guidato la Nazione verso un’era gloriosa di giustizia sociale».
E qui è interessante forse fare un confronto con un’altra prova letteraria di questo genere, ossia i libri di Antonio Pennacchi, “Il Fasciocomunista”, che insiste anche lui nei suoi libri su questo aspetto, sul consenso che ci fu da parte di una fascia più debole del nostro Paese, dell’Italia di allora, per delle linee politiche fasciste che potevano essere considerate di sinistra, quando, per esempio, ricorda Pennacchi, vengono espropriati i latifondisti per dare le terre alle persone che venivano poi spostate dal Polesine nell’Agro Pontino.
Il libro, però, secondo me, è particolarmente prezioso perché, dopo aver testimoniato questo consenso negli anni del consenso, ricorda, invece, e dà vita, dà voce molto efficacemente alla delusione successiva, quando scoppia la guerra, anzi prima, perché siamo nel ‘37, il libro dice: «cominciava lentamente a dissiparsi la tragica menzogna che costituiva l’essenza stessa del fascismo e che per 15 lunghi anni aveva velato gli occhi degli italiani, i più avvertiti tra coloro che pure avevano sperato o addirittura creduto coglievano nelle smagliature del quotidiano uno stridio stonato, intravedevano il segno di un nulla opprimente e in lontananza l’alba di un doloroso risveglio che sarebbe stato più che doloro, traumatico drammatico e tragico con l’inizio della seconda guerra mondiale».
Poi, naturalmente non possiamo dimenticare che nel libro c’è Alik Cavaliere che fa sentire a tutti coloro, e saranno tanti tra i presenti che hanno conosciuto Alik Cavaliere, in qualche parte ci fa sentire minimamente parte di questa storia. Qui conosciamo un bambino all’inizio, conosciamo una persona, cogliamo le radici, conosciamo le origini e il retroterra di questo giovane che sente subito la vocazione per l’arte, e sono belle le righe nelle quali viene descritta la scoperta del talento di Alik da parte della madre che appunto aveva sempre inseguito questo sogno di poter diventare artista e, scrive Fania, «con soddisfazione a mano a mano che il ragazzo cresceva, la madre si rendeva conto che i disegni di Alik, pur non essendo ancora quelli di un uomo adulto, di un artista compiuto, pur non manifestando i tratti sicuri della maturità, non le appartenevano più, mettevano in luce senza alcun possibile dubbio il formarsi di un nuovo autonomo sé».
E qui poi si dà testimonianza di uno scontro, di una tensione fra il papà e la mamma, la mamma che vuole coltivare questa innata capacità artistica e il papà che dice alla mamma, a Fanny: «Fanny, dipingere è un passatempo, non mettergli in testa strane idee», fortunatamente ebbe ragione la madre.
Molto drammatiche sono le ultime righe del libro, quelle nelle quali si descrive il rischio che corse Alik nei giorni dei rastrellamenti nazifascisti a Milano. Quando già frequenta l’accademia di Brera viene arrestato e si salva miracolosamente quasi, scrive l’Autrice, per l’intervento di «una donna alta e bionda dallo sguardo metallico e l’aspetto teutonico» che, se ho capito bene, è la mamma di Gianni Dova, a conferma, dice il libro, che «la vita è curiosa, imprevedibile, nel bene o nel male, gli umani calcoli molto raramente sono esatti». Ecco, proprio queste righe, secondo me, rappresentano la morale più interessante di questo libro, cioè questa sottolineatura che la vita è imprevedibile, che non si può darle un corso prestabilito, che il disegno di chi pensa che si possa organizzare la vita di ogni singolo individuo in tutto il mondo secondo gli schemi ideali, biologici, secondo le passioni, secondo gli interessi e che l’individuo sia costretto a soggiacere a questi disegni, ecco questa rivendicazione di autonomia, secondo me, è una delle parti più belle del libro.
Questo intreccio di vita ci fa conoscere un pezzo di mondo vastissimo perché la famiglia è divisa tra Yalta e Istanbul, Parigi, Roma, Milano, Treviso, Mosca, a un certo punto anche la Calabria. In Calabria, tra l’altro, avviene una delle scene che mi ha più colpito, a proposito del clima di intolleranza latente e, vorrei dire un paradosso, spesso affettuoso di antisemitismo che c’era nella società anche italiana. Quando i ragazzi vengono affidati per poche ore ai genitori cattolici di lui, i genitori dei bambini rientrano da una gita, non mi ricordo bene, e scoprono che nel frattempo i figli sono stati battezzati clandestinamente dai nonni, i quali non potevano tollerare che una famiglia cattolica avesse dei bambini che non erano stati battezzati. Anche questo la dice lunga sul clima che anche nel nostro paese c’era.
Quindi questo affresco così vasto, così complesso, fra tutte queste sedi, con tutti i colpi di scena che accompagnano i passaggi, i trasferimenti, i destini, spesso amari dei personaggi, appunto ci ricordano questa realtà, che l’ambizione di indirizzare la vita di ciascuno verso un ideale di perfezione è sicuramente una fonte di orrore ed è questo, secondo me, proprio il tratto peggiore, più drammatico del Novecento europeo.
Questo libro effettivamente ci offre un percorso privato, però, come spero di aver fatto capire, ma forse il senatore Passigli è stato anche più efficace di me, sicuramente ottimo, per cogliere il significato di questo secolo tragico e naturalmente per invitare tutti, anche coloro che soprattutto non vissero quegli orrori, a non ripetere quegli errori.
Grazie.»