Ebbene proprio per questo motivo i piani di rientro, anziché costituire una utile revisione dell’organizzazione della salute, protesa al miglioramento di ciò che c’era, si sono trasformati in atti rituali, ove viene espressa la capacità di tagliare linearmente posti letto e spese in un modo completamente avulso dal reale fabbisogno epidemiologico e assistenziale delle singole realtà regionali. Dunque, non un modo per ottimizzare l’organizzazione reale ma, per l’appunto, per rientrare dai costi ritenuti in esubero a prescindere. Tutto questo – concretizzatosi in procinto dell’entrata a regime del federalismo fiscale, con l’applicazione dei costi standard e delle risorse disponibili che ne conseguono – costituirà un grande limite a che le organizzazioni sanitarie regionali vengano organizzate al meglio, sì da produrre tanto e bene con le risorse di spessore “federalista”.
Ritornando ai deficit comportamentali riscontrabili nella determinazione delle politiche di rientro delle singole regioni, ce ne sono alcuni rilevati quasi ovunque, altri che sono, invece, limitati ad alcune realtà regionali. Sono onnipresenti deficit di verità, di partecipazione, dei conti, di merito e di comunicazione. Anche quello di legalità è frequentemente riscontrabile, rinvenibile maggiormente in Calabria, la sola ad avere approvato il Piano sanitario regionale, ivi compresa la prefigurazione della rete ospedaliera, con un apposito provvedimento legislativo regionale.
Vediamoli uno per uno.
Il deficit di verità. Quasi ovunque si è fatto e si continua a fare di tutto per celarla, meglio, per adattarla alle aspettative della collettività, che – penalizzata da sempre – comincia a manifestare al riguardo incredulità e qualche misurata contestazione nei confronti del più generale disservizio.
Molto spesso si vanta un efficientismo organizzativo non posseduto e si ostentano progetti che non ci sono, se non in versione parziale e discriminante, proprio perché sono avulsi da ciò che realmente serve ai cittadini, a causa di un bisogno che nessuno ha mai rilevato.
Insomma, in molte regioni continua a prevalere il linguaggio della politica, lo stesso di ieri e di ieri l’altro, piuttosto che fare ricorso a quello tecnico-produttivo, tipico della managerialità che necessita nella gestione della salute.
In sintesi, si ricorre alla strumentalizzazione dialettica utile a fare credere ai cittadini che la soluzione è vicina a prescindere da tutto e da tutti.
Il deficit partecipativo che potremmo definire di democrazia deliberativa, basata sulla discussione pubblica tra le istituzioni, la collettività e gli individui direttamente coinvolti, da cui trae la legittimità della decisione da assumere, specie quando questa afferisce interessi collettivi ma anche categoriali.
In proposito, risultano quasi ovunque inascoltati, nella redazione dei piani di rientro, e completamente estraniati nella loro esecuzione, gli amministratori locali, le parti sociali e le categorie professionali impegnate nel socio-sanitario. Ebbene, una siffatta metodologia di formazione del consenso diffuso non ha affatto preceduto l’assunzione della quasi totalità degli atti di riordino dei Servizi sanitari regionali, soprattutto di quelli sottoposti a commissariamento ad acta. Un vulnus che ha reso deboli i provvedimenti adottati dalle singole regioni, sotto il profilo della condivisione di merito, necessaria per godere dell’assenso più allargato possibile nella loro già difficile attuazione. Un modo assurdo di procedere, soprattutto quello dei commissari (fatta qualche eccezione per quello della Campania, ben collaborato dal prof. Raffaele Calabrò) da momento che, fino ad oggi, si sono privilegiati gli atti d’imperio, molto spesso inappropriati e, in alcuni casi, addirittura illegittimi.
Con questo si è privilegiata l’imposizione rispetto alla partecipazione, specie quando questa è stata negata ai reali garanti della salute, a tutti quegli operatori grazie ai quali il sistema salutare sta ancora in piedi.
Il deficit dei conti che determina ancora l’incertezza dei saldi debitori, a tutt’oggi in cerca di una certificazione utile da rilasciarsi, in favore dei medesimi creditori, da parte delle Asl/Ao debitrici per dar modo agli stessi di godere delle necessarie anticipazioni finanziarie da ottenersi a seguito di apposite cessioni pro soluto, altrimenti non perfezionabili.
Proprio per questa consolidata pessima abitudine, di contravvenire alle più elementari regole della contabilità pubblica, si sono rese necessarie, nel corso degli ultimi sei anni, reiterate ricostruzioni e riallineamenti, tutti ancora da verificare, quanto a risultato, e da rendere pubblici a terzi nei loro esiti, formalmente avallati, così come si dovrebbe, a cura degli advisor nominati dal Governo a spese delle regioni.
Il deficit nel merito. Parlare dei deficit di merito impegnerebbe numerose pagine, tenuto conto delle diversissime misure assunte dalle diverse regioni, ancorché simmetricamente impegnate nella deospedalizzazione selvaggia, ove a governarla è stata la mera sottrazione dell’esistente. Con questo non si vuole affatto difendere l’eccessiva e distorta offerta di spedalità sul territorio, soprattutto meridionale. Molti degli ospedali andranno chiusi, attese le loro precarissime condizioni fisico organizzative, purché sia garantita ai cittadini, in loro vece, una efficace assistenza territoriale che, invece, latita.
Proprio per questo, la valutazione sul da farsi e su quello fatto, rispettivamente sarebbe spettata e spetterà ai sindaci (ahinoi, poco organizzati in tale senso, quindi, per nulla coinvolti) e ai cittadini destinatari degli effetti del cambiamento. Quanto ai sindaci, gli stessi avrebbero dovuto, infatti, svolgere il ruolo di assoluti protagonisti, considerate le pesanti prescrizioni governative e le lesioni dei servizi che si sono di conseguenza prodotte nei loro rispettivi territori, soprattutto a seguito di alcuni provvedimenti assunti monocraticamente da taluni Governatori/Commissari ad acta.