La riforma dello strumento militare italiano, recentemente approvata in via definitiva dal Parlamento, può determinare un significativo miglioramento delle forze armate in termini di efficienza ed efficacia. Il suo reale impatto dipenderà tuttavia dai decreti attuativi del prossimo governo necessari a dare corso a quanto appena deciso.
Il disegno di legge delega sulla riforma era stato presentato ad aprile dal ministro della difesa Giampaolo di Paola, che ne aveva già illustrato le linee guida sia in Parlamento che al Consiglio supremo di difesa. Il Senato ha approvato il testo lo scorso 6 novembre, e la Camera ha dato il suo via libera l’11 dicembre. I partiti che hanno sostenuto il governo Monti hanno dato prova di serietà e costanza su questo tema strategico per il paese, nonostante il recente deterioramento del quadro politico nazionale.
Quattro linee guida
In primis, la riforma fissa un nuovo tetto per le dotazioni organiche di esercito, marina e aeronautica, che nel complesso dovranno ammontare a 150 mila unità. Rispetto alle attuali 183 mila, si tratta di un taglio di circa il 18% (33 mila persone). Il personale civile del Ministero della difesa non dovrà invece superare le 20 mila unità, rispetto alle 30 mila di oggi (-33%). La riduzione complessiva di 43 mila unità dovrà avvenire, gradualmente, entro il 2024. Si tratta di un cambiamento significativo e ambizioso, ma assolutamente necessario per adeguare le dimensioni alle risorse disponibili. Con l’obiettivo precipuo di mantenere le attuali capacità operative.
In secondo luogo, il personale dirigente di esercito, aeronautica e marina, dovrà essere di 310 unità, tra ufficiali generali e ammiragli (-25% rispetto al numero attuale), e 1.566 tra colonnelli e capitani di vascello. Una specifica particolarmente importante alla luce dello squilibrio nella dotazione organica delle forze armate già evidenziato da uno studio IAI (La revisione dello strumento militare italiano, di Valerio Briani).
In terzo luogo, la riforma razionalizza le strutture operative, logistiche, formative, territoriali, anche tramite soppressioni e accorpamenti, per ottenere una “contrazione strutturale complessiva non inferiore al 30%”. Tale contrazione dovrà avvenire entro sei anni dall’adozione dei decreti attuativi della riforma. La ratio è l’adeguamento delle infrastrutture militari al modo in cui oggi si difende la sicurezza nazionale, che non implica necessariamente il presidio su ogni singola provincia italiana, utilizzando in modo più efficiente assetti sotto-impiegati.
Infine, la riforma stabilisce due punti finanziari importanti. Da un lato, la sua attuazione non dovrà comportare nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica. Allo stesso tempo, i risparmi conseguiti dovranno essere reinvestiti nel bilancio della difesa. Tali risparmi vanno tuttavia calcolati al netto della somma derivata dai tagli al bilancio già previsti dal decreto legge di “spending review” del luglio 2012, che andrà invece a contribuire al risanamento della finanza pubblica.
In altre parole, il comparto difesa ha già subito tagli e fatto sacrifici al pari degli altri settori (istruzione, sanità, ecc) toccati dalle misure di austerità di bilancio, e i prossimi risparmi dovranno invece servire a mantenere e migliorare le capacità operative dello strumento militare. Ciò, secondo la riforma, significa soprattutto riequilibrare i finanziamenti alle diverse voci di spesa.
Come già rilevato da uno studio IAI (Economia e industria della difesa: tabelle e grafici, di Alessandro Marrone e Francesca Capano), infatti, i fondi destinati alla funzione difesa nel 2012 sono andati per il 70,6% al personale, mentre soltanto il 18,2% ha finanziato gli investimenti e l’11,2% le spese di esercizio (addestramento e formazione dei militari, manutenzione dei mezzi, ecc).
Questa ripartizione è non solo inefficiente ma anche dannosa per l’operatività delle strutture militari. Non a caso i principali partner europei con cui si vorrebbe consolidare una politica di difesa comune si orientano verso il modello che prevede metà del bilancio destinato al personale, un quarto agli investimenti e un quarto all’esercizio.
L’incognita dell’attuazione
La riforma è chiaramente volta a migliorare l’interoperabilità dello strumento militare con i partner in ambito Ue e Nato, la capacità di condurre operazioni di gestione delle crisi al di fuori del territorio nazionale, la sostenibilità dello strumento medesimo alla luce del prevedibile permanere dei limiti di bilancio, e il carattere interforze delle forze armate – inclusi manutenzione, logistica e addestramento.
In sintesi, la riforma mira a mantenere l’operatività delle forze armate messa seriamente a rischio dallo squilibrio delle spese – troppo per il personale, troppo poco per esercizio e investimenti – e dalla drastica riduzione di bilancio operata negli ultimi quattro anni – meno11,6% al netto dell’inflazione.
Il disegno di legge delega approvato alla fine di questa legislatura non è però sufficiente, da solo, a conseguire in pieno questi obiettivi. Molto dipenderà dal contenuto dei decreti legislativi che il governo è tenuto ad adottare per attuare la riforma entro 12 mesi. Purtroppo, si è già assistito in Italia a buone riforme approvate dal Parlamento e poi mutilate o rinnegate in fase di attuazione. Il testimone passa dunque al prossimo governo, che dovrà completare un’opera certamente ben avviata ma ancora lontana dall’effettiva attuazione.
Alessandro Marrone www.affarinternazionali.it ricercatore presso l’Area Sicurezza e Difesa dello Iai.