Uno strumento per combattere i cambiamenti climatici e costruire un’economia a basse emissioni di Co2. Non solo facciata
La Conferenza ONU Rio+20 si chiuderà con un successo? Probabilmente no. Sia sul piano del rapporto tra green economy e eradicazione della povertà, sia sul piano della governance. Avremo modo di valutarne i risultati, ma oggi io penso che concentrarsi solo sulla debolezza del documento finale sia sbagliato, e non solo perché, a differenza di 20 anni fa, non ci sono Convenzioni vincolanti da sottoscrivere. Oggi è radicalmente diverso il contesto. Allora eravamo nel pieno dell’onda lunga del liberismo e dello strapotere della finanza. Oggi siamo nel mezzo di una crisi strutturale provocata dalla finanziarizzazione dell’economia, e i temi di Rio sono al centro del dibattito internazionale sulla crisi economica e sui nuovi equilibri mondiali. Rio+20 accende i riflettori internazionali sulla capacità della green economy, che rimettendo al centro i processi reali di produzione, sa rispondere alla crisi economica. Ma a quali condizioni tutto ciò può avvenire?
La green economy è lo strumento per combattere i cambiamenti climatici costruendo un’economia a basse emissioni di CO2. L’obiettivo strategico è uscire dal fossile, per cui disponiamo già delle conoscenze e tecnologie necessarie. Muoversi in questa direzione vuol dire cambiare radicalmente i processi produttivi e i prodotti, che, se pure non mette in discussione i rapporti di produzione, certo non può essere ridotto a un semplice «green washing».
Ogni economia, come sappiamo, produce società: così è stato per il liberismo, che con l’esasperazione delle disuguaglianze ha disgregato il lavoro e la coesione sociale. E la green economy, quale società produce?
Come abbiamo cercato di raccontare il 15 giugno («La forza dei territori. La green economy sfida la crisi economica»), l’economia verde cammina su due gambe: da un lato innovazione industriale nella riduzione di emissioni di CO2, risparmio di risorse, nuovi prodotti e qualità occupazionale e professionale; dall’altro qualità dei sistemi territoriali, in cui si integrano gli interventi per ridurre le emissioni di CO2 con le persone chiamate a cambiare stili di vita – nella mobilità, cibo, abitazione, turismo. La green economy ha bisogno della consapevolezza dei cittadini. Istruzione e cultura hanno un ruolo insostituibile. E questo ci parla anche del potere che avranno i consumatori nel «governare» il mercato. Un esempio? L’impossibilità per le multinazionali produttrici di Ogm di sfondare in Italia e in Europa, o la vittoria ambientalista sulla messa al bando dei sacchetti di plastica non compostabili, nonostante l’opposizione dei plasticari. Se andiamo a vedere i singoli settori, questa nuova forza dei cittadini è ancora più evidente. Ad esempio nella produzione distribuita di energia, che consente ai villaggi dei paesi meno sviluppati di conquistare l’accesso all’energia senza necessità di investire in costose infrastrutture, saltando una fase dello sviluppo industriale moderno. O, qui da noi, i 350.000 piccoli impianti di fotovoltaico o i 1.400.000 interventi per la riqualificazione edilizia. Oppure il ruolo della raccolta differenziata che fornisce all’industria una quantità crescente di materie prime seconde. O la forza che sta acquistando l’agricoltura di qualità. Ma green economy è anche innovazione in settori tradizionali, dalla chimica verde al rilancio del trasporto ferroviario, dalla rigenerazione delle città alla messa in sicurezza del territorio. C’è un mondo nuovo da fare (anche con richiesta di alte professionalità e innovazione tecnologica con spazio per i giovani) con filiere industriali dannose da chiudere e il riequilibrio tra le diverse aree del globo in termini di accesso ai consumi – energia, acqua, cibo – e al benessere.
La sfida di cui finalmente si parla a Rio è di grande portata: battere i cambiamenti climatici rispondendo alla crisi economica interessa quel 99% di persone di cui parla il movimento Occupy. Proprio quando le politiche nazionali e continentali sono eterodirette dai mercati finanziari, lo sviluppo della green economy è un terreno privilegiato in cui la politica può tornare a esercitare il suo ruolo di governo senza sottostare ai diktat dei mercati finanziari. Non a caso la governance è in agenda a Rio.
Comunque vada Rio, starà a noi non disperdere questo bagaglio acquisito e lo potremo fare se non sottovalutiamo il potere evocativo della green economy. Lo stesso potere evocativo avuto nella seconda metà del XX secolo dalla parola d’ordine della giustizia sociale.
Vittorio Cogliati Dezza, Presidente nazionale Legambiente, Il Manifesto