Lo spread è un “potente motore delle riforme” aveva detto a fine gennaio il Presidente della Banca Centrale Europa (Bce) Mario Draghi. Come dire: la forte differenza di rendimento tra i BTp italiani e i Bund tedeschi spinge (e costringe) i Paesi in crisi da debito sovrano a puntare sulle riforme strutturali per rivedere, alla fine del tunnel, le luci della crescita.
Ma che succede se lo spread, calando di molto e in tempi brevi, fa scendere anche i giri del motore delle riforme? Ecco un bel problema per l’Italia e per il Governo Monti sostenuto dalla sua “strana” e tripolare maggioranza politica. Già, perché nella patria dei paradossi può accadere anche questo, con lo spread intorno a quota 300, ai livelli dell’estate 2011, e dopo che sono stati già rimborsati oltre 63 miliardi di titoli pubblici sui 90,8 in scadenza nel terribile trimestre gennaio-aprile 2012.
Da una parte cogliamo i frutti positivi del lavoro sin qui fatto dal Governo Monti in Italia ed in Europa, dove Roma ha ritrovato credibilità ed autorevolezza. Dall’altra, flettendo la tensione da spread e insieme avvicinandosi le scadenze elettorali, riscontriamo una generale tendenza al rilassamento che s’accompagna – e non è un caso – al riemergere di forti tensioni tra i partiti che sostengono il Governo.
Questa è una miscela pericolosa. Primo, perché dal tunnel non siamo ancora fuori, a cominciare dall’Europa nel suo insieme che con grande fatica e molto ritardo sta chiudendo i conti del caso Grecia. La crescita è molto bassa quando non è nulla o negativa. Le incognite sono ancora molte: il prezzo del petrolio in forte salita, gli appuntamenti elettorali in Grecia ed in Francia, le ratifiche del Patto fiscale che depotenzia le sovranità nazionali degli Stati, il fatto che non potremo più contare sui maxi innesti di liquidità della Bce frutto del pragmatismo di Draghi.
Ma il lavoro non è finito. Il cambiamento dell’outlook da negativo a stabile dell’Italia può avvenire nei prossimi due anni, ha chiarito l’agenzia di rating Standard & Poor’s: l’impatto delle riforme sulla crescita deve essere duraturo, consolidato nel tempo e non soggetto ad uno stop and go della tensione riformista. Questo è il punto che i partiti e le parti sociali non devono dimenticare. Un Paese che non cresce, asfissiato da una pressione fiscale record, in stallo da credit crunch, che si porta sulle spalle 1.900 miliardi di debito pubblico e che s’avvia a registrare un prezzo di 2 euro per litro di benzina, ha bisogno di riforme vere, incisive come quella delle pensioni. Ora tocca al mercato del lavoro, tutto compreso, nulla escluso: ne va del destino sociale e competitivo del sistema-Italia.
È chiaro che siamo di fronte a temi cruciali quando parliamo di ammortizzatori sociali e di rivisitazione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. La riforma costa, le risorse sono scarse ed i problemi sollevati sono ad altissima sensibilità politica. Ma l’unica cosa che non si può fare, anche al di là degli impegni già presi con l’Europa (dopo la famosa lettera della Bce a firma Draghi-Trichet del 4 agosto 2011), è restare fermi o partorire una soluzione ‘piccola’, capace sì di mediare tra interessi contrapposti, ma incapace poi di darci l’orizzonte lungo di un Paese che cambia davvero passo.
Il Governo Monti, al pari dell’Italia in questa stagione così difficile e complessa, si regge su un equilibrio dinamico, come un ciclista che pedala sulla bicicletta. Per il tempo che gli è stato dato non può fermarsi. Né può essere fermato da una politica che, nella morsa allentata dello spread, vede l’occasione per riproporre la pratica dei veti incrociati. Pratica che è all’origine del suo naufragio,avvenuto solo tre mesi fa.
Guido Gentili, Il Sole 24 Ore, 9 marzo 2012