FORUM del mondo del lavoro

 

3. Radicati e fondati in Cristo – come due milioni di giovani hanno meditato alla Giornata Mondiale della Gioventù a Madrid (agosto 2011) – i cristiani abitano la storia consapevoli di avere qualcosa di proprio da dire, qualcosa di decisivo per il bene dell’umanità. Qualcosa che è dato dalla fede, che si rivela pienamente in Gesù, ma che – in misura – è avvicinabile dalla ragione pensante e aperta: è l’autentica concezione dell’uomo, della sua dignità, dei suoi bisogni veri, non indotti e imposti da una cultura prona all’ideologia del mercato. Senza questa visione, paragonabile al tesoro nascosto nel campo o alla perla preziosa, l’ordine sociale e civile si deforma e progressivamente si allontana dall’uomo. E’ con questo patrimonio universale che la comunità cristiana deve animare i settori prepolitici nei quali maturano mentalità e si affinano competenze, dove si fa cultura sociale e politica. “Non si tratta di predicare il Vangelo – scriveva Paolo VI – in fasce geografiche sempre più vaste o a popolazioni sempre più estese, ma anche di raggiungere e quasi sconvolgere mediante la forza del Vangelo i criteri di giudizio, i valori determinanti, i punti di interesse, le linee di pensiero, le fonti ispiratrici e i modelli di vita dell’umanità, che sono in contrasto con la Parola di Dio e con il disegno della salvezza” (Esortazione Apostolica, Evangelii nuntiandi, n. 19).

E’ noto che non tutte le concezioni antropologiche sono equivalenti sotto il profilo morale; da umanesimi differenti discendono conseguenze opposte per la convivenza civile. Se si concepisce l’uomo in modo individualistico, come oggi si tende, come si potrà costruire una comunità solidale dove si chiede il dono e il sacrificio di sé? E se lo si concepisce in modo materialistico, chiuso alla trascendenza e centrato su se stesso, un grumo di materia caduto nello spazio e nel tempo, come riconoscerlo non “qualcosa” tra altre cose, ma “qualcuno” che è qualitativamente diverso dal resto della natura? E su che cosa potrà poggiare la sua dignità inviolabile? E quale sarà il fondamento oggettivo e non manipolabile dell’ordine morale? Solo Dio Creatore e Padre può fondare e garantire la più alta delle creature, l’uomo. Per questo, dove la religione subisce l’emarginazione palese o subdola, dove si pretende di confinarla nella sfera individuale come una questione priva di valenza pubblica – magari con la motivazione del primato della testimonianza silenziosa puntiforme o della neutralità rispettosa – l’uomo rapidamente declina sotto l’imperio di logiche illiberali, e diventa preda di poteri ridenti ma disumani. La dimensione religiosa è storicamente innegabile, e si rivela anche ai nostri giorni una dimensione incoercibile dell’essere e dell’agire dell’uomo: negarla o non riconoscerne la dimensione pubblica, significa creare una società violenta, chiusa e squilibrata a tutti i livelli, personale, interpersonale, civile. Una società incapace di pensare e tanto più di attuare il bene comune, scopo della società giusta. Il bene comune, infatti, comporta tutte le dimensioni costitutive dell’uomo, quindi deve riconoscere anche la sua apertura a Dio, la sua dimensione religiosa. E dato che la persona è un essere in relazione, ciò che universalmente lo riguarda ha sempre una valenza anche sociale: “Relegare la fede nell’ambito meramente privato, mina la verità dell’uomo e ipoteca il futuro della cultura e della società. Al contrario, rivolgere lo sguardo al Dio vivo, garante della nostra libertà e della verità, è una premessa per arrivare ad una umanità nuova” (Benedetto XVI, Lettera ai Vescovi spagnoli, 8.7.2006).

Per questo la religione non è un problema per la società moderna ma, al contrario, una risorsa e una garanzia: la Chiesa non cerca privilegi, né vuole intervenire in ambiti estranei alla sua missione, ma deve poter esercitare liberamente questa sua missione. I cristiani da sempre sono presenza viva nella storia, consapevoli che la fede in Cristo, con le sue implicazioni antropologiche, etiche e sociali, è un bene anche per la Città. Ed hanno costituito una presenza di coagulo per ogni contributo compatibile con l’antropologia relazionale e trascendente, e con il progetto di società aperta e solidale che ne consegue. Sono diventati nella società civile massa critica, capace di visione e di reti virtuose, per contribuire al bene comune che è composto di “terra” e di “cielo”. Il patrimonio di dottrina e di sapienza che costituisce la terra solida e la bussola per il cammino, forma il corpus della Dottrina sociale della Chiesa: esso, alimentato nella comunione ecclesiale, è un tesoro provvidenziale, insuperabile e necessario per i cattolici che vogliono servire la città degli uomini nei suoi diversi ambiti, ed è disponibile a tutti. Per questo non possono arretrare di fronte alle sfide. Siamo grati al Santo Padre Benedetto XVI che, nella visita alla Diocesi di Lamezia Terme, ancora una volta ha ricordato quanto è opportuna “la Scuola di Dottrina Sociale della Chiesa, sia per la qualità articolata della proposta, sia per la sua capillare divulgazione. Auspico – aggiungeva – che da tali iniziative scaturisca una nuova generazione di uomini e donne capaci di promuovere non tanto interessi di parte, ma il bene comune” (Lamezia Terme, Omelia 9-10.2011). La Dottrina Sociale della Chiesa non è un insieme di argomenti slegati e chiusi, ma un corpo organico con un centro vitale e dinamico che è la natura umana con i suoi dinamismi e le sue leggi. Solo riconoscendo nei fatti e senza sconti questo dato universale e irrinunciabile – questo “patrimonio valoriale genetico” che crea unità culturale – è possibile guardare in modo coerente e costruttivo ai vari areopaghi del mondo.

E’ opportuno ripetere che non c’è motivo di temere per la laicità dello Stato, infatti il principio di laicità inteso “come autonomia della sfera civile e politica da quella religiosa ed ecclesiastica – ma non da quella morale – è un valore acquisito e riconosciuto dalla Chiesa e appartiene al patrimonio di civiltà che è stato raggiunto. (…) La laicità, infatti, indica in primo luogo l’atteggiamento di chi rispetta le verità che scaturiscono dalla conoscenza naturale dell’uomo che vive in società, anche se tali verità sono nello stesso tempo insegnate da una religione specifica, poiché la verità è una” (Congregazione della Dottrina della Fede, Nota dottrinale circa alcune questioni riguardanti l’impegno e il comportamento dei cattolici nella vita politica, 24.11.2002, n. 6). E poiché solo scegliendo la verità che l’uomo è per natura, egli giunge alla propria perfezione, allora la morale è liberazione dell’uomo e la fede cristiana è l’avamposto della libertà umana.

Tuttavia bisogna ricordare che il riconoscimento della rilevanza pubblica delle fedi religiose se per un verso è un valore auspicabile e dovuto, dall’altro è fortemente insufficiente in ordine alla costruzione del bene comune e allo stesso concetto di vera laicità. Infatti esso è – potremmo dire – come una cornice di apprezzabile valore, ma che deve essere riempita di contenuti. La laicità positiva, infatti, non può ridursi a rispetto e a procedure corrette, ma, anche qui, deve misurarsi con l’uomo per ciò che è in se stesso universalmente, cioè con la sua natura. E’ questa che invera le diverse culture e che ne misura la bontà o, se si vuole, l’intrinseco livello di umanesimo.

4. I fedeli laici sanno che è loro dovere lavorare per il giusto ordine sociale, anzi è un debito di servizio che hanno verso il mondo in forza dell’antropologia illuminata dalla fede e dalla ragione. E’ questo il motivo per cui non possono tacere. Nel Documento conclusivo della XLVI Settimana sociale dei Cattolici italiani a Reggio Calabria si legge: “Noi tutti, come Chiesa e come credenti, siamo chiamati al grande compito di servire il bene comune della civitas italiana in un momento di grave crisi e allo stesso tempo di memoria dei centocinquant’ anni di storia politicamente unitaria. Vedercelo affidato può stupire e richiede prudenza, ma non deve generare paura o peggio ancora indifferenza” (XLVI Settimana sociale dei Cattolici italiani, Documento conclusivo, Reggio Calabria ottobre 2010, n. 20). Come sempre, vogliamo portare il nostro contributo, consapevoli che, storicamente, “se non abbiamo fatto abbastanza nel mondo, non è perché siamo cristiani, ma perché non lo siamo abbastanza” (CEI, La Chiesa Italiana e le prospettive del Paese, 1981, n.13). Quanto più le difficoltà culturali e sociali sono gravi, i cristiani tanto più si sentono chiamati in causa per portare il loro contributo specifico, chiaro, e deciso, senza complessi di sorta e senza diluizioni ingiustificabili, poiché l’uomo non è un prodotto della cultura, come si vuole accreditare, e la società non è il demiurgo che si compiace di elargirgli questo o quel riconoscimento secondo convenienze economiche, schemi ideologici o dinamiche maggioritarie. L’uomo è in sé il valore per eccellenza, che di volta in volta si rifrange in una cultura che tale è quando non lo imprigiona, consentendogli di porsi in continuo rapporto con la propria verità. Egli, infatti, porta nel suo essere un dover-essere che costituisce la morale naturale. Esiste, insomma, un “terreno solido e duraturo” (Benedetto XVI, Discorso ai Rappresentanti del Consiglio d’Europa, 8.9.2010), che è quello dei principi o valori “essenziali e nativi” (Giovanni Paolo II, Evangelium vitae, n. 71), quindi irrinunciabili non perché non si debbano argomentare ma perché, nel farlo e nel legiferare, non possono essere intaccati in quanto inviolabili, inalienabili e indivisibili (cfr Benedetto XVI, Discorso cit.). Essi appartengono, per così dire, al DNA della natura umana, al ceppo vivo e originario di ogni altro germoglio valoriale. Il Santo Padre Benedetto XVI, nella “Caritas in veritate”, dopo aver osservato che “la verità dello sviluppo consiste nella sua integralità” (n.18), ricorda al mondo che il vero sviluppo ha un centro vitale e propulsore, e questo è “l’apertura alla vita” (n. 28).

Oggi l’attenzione generale è puntata con ragione ai grandi problemi del lavoro, dell’economia, della politica, della solidarietà e della pace: problemi che oggi attanagliano pesantemente persone, famiglie e collettività, specialmente i giovani. La sensibilità e la presenza costante della Chiesa sul versante dell’etica sociale è sotto gli occhi di tutti e nessuno la può, nella sua millenaria storia, onestamente negare. E’ parte del messaggio cristiano, né è una conseguenza: “Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede” (1Gv 4,20). L’incalcolabile rete di vicinanza e di solidarietà che abbraccia l’intero territorio nazionale grazie ai nostri sacerdoti, consacrati, innumerevoli volontari, rappresenta una mano tesa trasparente e universalmente nota: è quotidianamente frequentata da un crescente stuolo di fratelli e sorelle in difficoltà che ricevono ascolto, aiuto, attenzione. Ed è sempre più anche luogo di incontro e di concreta integrazione tra popoli, religioni e culture. Il Signore Gesù, Figlio di Dio e Salvatore del mondo, ispira e sostiene questa rete di fraterna carità che si avvale di risorse provvidenziali, e di quell’amore gratuito che nessun codice di diritto positivo può stabilire e garantire, perché esso viene dall’Alto. Ed è ogni giorno da invocare da Dio e da rinnovare in Dio, come dono e compito verso tutti. La ricaduta sociale della fede cristiana appartiene al patrimonio dottrinale, segna la missione della Chiesa e ispira la prassi della cristianità. Anche circa il tema critico e complesso del lavoro, la Chiesa non da ora segue le vicende in modo attento e partecipe e, nei limiti delle sue competenze, si pone a fianco dei diversi protagonisti con una presenza discreta, rispettosa e responsabile. Oggi, dunque, la sensibilità generale è puntata in modo speciale sull’uomo nello sviluppo della sua vita terrena, e quindi sulle vie migliori per assicurare giustizia sociale, lavoro, casa e salute, rete accogliente e solidale, pace: valori, questi e altri, che vanno a descrivere ciò che è chiamata “etica sociale”.

5. Ma la giusta preoccupazione verso questi temi non deve far perdere di vista la posta in gioco che è forse meno evidente, ma che sta alla base di ogni altra sfida: una specie di metamorfosi antropologica. Sono in gioco, infatti, le sorgenti stesse dell’uomo: l’inizio e la fine della vita umana, il suo grembo naturale che è l’uomo e la donna nel matrimonio, la libertà religiosa ed educativa che è condizione indispensabile per porsi davanti al tempo e al destino. Proprio perché sono “sorgenti” dell’uomo, questi principi sono chiamati “non negoziabili”. Quando una società s’ incammina verso la negazione della vita, infatti, “finisce per non trovare più le motivazioni e le energie necessarie per adoperarsi a servizio del vero bene dell’uomo. Se si perde la sensibilità personale e sociale verso l’accoglienza di una nuova vita, anche altre forme di accoglienza utili alla vita sociale si inaridiscono” (Benedetto XVI, Caritas in veritate, n. 28). Senza un reale rispetto di questi valori primi, che costituiscono l’etica della vita, è illusorio pensare ad un’etica sociale che vorrebbe promuovere l’uomo ma in realtà lo abbandona nei momenti di maggiore fragilità. Ogni altro valore necessario al bene della persona e della società, infatti, germoglia e prende linfa dai primi, mentre staccati dall’accoglienza in radice della vita, potremmo dire della “vita nuda”, i valori sociali inaridiscono. Ecco perché nel “corpus” del bene comune non vi è un groviglio di equivalenze valoriali da scegliere a piacimento, ma esiste un ordine e una gerarchia costitutiva. Nella coscienza universale sancita dalle Carte internazionali è espressa una acquisita sensibilità verso i più poveri e deboli della famiglia umana, e quindi è affermato il dovere di mettere in atto ogni efficace misura di difesa, sostegno e promozione. Ciò è una grande conquista, salvo poi – questa dichiarazione – non sempre corrispondere alle politiche reali. Ma, ci chiediamo, chi è più debole e fragile, più povero, di coloro che neppure hanno voce per affermare il proprio diritto, e che spesso nemmeno possono opporre il proprio volto?…Vittime invisibili ma reali! E chi è più indifeso di chi non ha voce perché non l’ha ancora o, forse, non l’ha più? E, invero, la presa in carica dei più poveri e indifesi non esprime, forse, il grado più vero di civiltà di un corpo sociale e del suo ordinamento? E non modella la forma di pensare e di agire – il costume – di un popolo, il suo modo di rapportarsi nel proprio interno, di sostenere le diverse situazioni della vita adulta sia con codici strutturali adeguati, sia nel segno dell’attenzione e della gratuità personale? Questo insieme di atteggiamenti e di comportamenti propri dei singoli, ma anche della società e dello Stato, manifesta il livello di umanità o, per contro, di cinismo paludato, di un popolo e di una Nazione. La nostra Europa, come l’intero Occidente segnato da una certa cultura radicale fortemente individualista, si trova da tempo sullo spartiacque tra l’umano e il suo contrario. Questi temi non sono rimandabili quasi fossero secondari; in realtà formano la “sostanza etica” di base del nostro vivere insieme. Già nel 1992, i Vescovi italiani scrivevano: “L’elaborazione di una diversa cultura dell’uomo e della convivenza sociale è il problema più serio, la più grande sfida che la società italiana deve affrontare” (CEI, Evangelizzare il sociale, n. 89).

6. Una obiezione ricorrente è che i cristiani vorrebbero imporre, nella sfera politica e civile, in un contesto pluralistico e complesso, dei valori confessionali, anziché prendere atto dei cambiamenti culturali e comportamentali, e semplicemente registrarli dando loro dignità giuridica in nome del pluralismo e del principio di tolleranza. L’obiezione contiene due aspetti. Il primo – il più evidente – la tesi secondo cui il cristianesimo sarebbe arrogante e pericoloso alla democrazia. Ma Papa Benedetto XVI, di recente, precisava al Parlamento di Berlino: “Contrariamente ad altre grandi religioni, il cristianesimo non ha mai imposto allo Stato e alla società un diritto rivelato, mai un ordinamento giuridico derivante dalla Rivelazione. Ha invece rimandato alla natura e alla ragione quali vere fonti del diritto – ha rimandato all’armonia tra ragione oggettiva e soggettiva, un’armonia che però presuppone l’essere ambedue le sfere fondate nella Ragione creatrice di Dio (…) Dal (…) legame precristiano tra diritto e filosofia parte la via che porta, attraverso il Medioevo cristiano, allo sviluppo giuridico dell’Illuminismo fino alla Dichiarazione dei Diritti umani” (Discorso al Parlamento Federale, Berlino 22.9.2011; cfr anche Congregazione per la dottrina della fede, Nota cit.). Per questa ragione le esigenze etiche fondamentali “non esigono in chi le difende la professione di fede cristiana, anche se la dottrina della Chiesa le conferma e le tutela sempre e dovunque come servizio disinteressato alla verità dell’uomo e al bene comune delle società civili” (Nota cit. n. 5).

Ma vi è anche una seconda tesi nell’obiezione riportata: sembra che lo scopo precipuo degli Ordinamenti civili debba essere quello di registrare e ordinare i comportamenti e i desideri soggettivi, dal momento che il relativismo culturale sfocia inevitabilmente nel pluralismo etico, e questo viene ritenuto da alcuni la condizione della democrazia. Avviene così che nella sfera culturale si rivendica la più assoluta autonomia delle scelte morali, e nella sfera legislativa si formulano leggi che prescindono dall’etica naturale, come se tutte le concezioni della vita fossero equivalenti. A fronte di tale concezione, mi torna alla memoria lo Stato Leviatano di Hobbes, secondo il quale esso esiste come necessario gendarme che regola gli istinti violenti di tutti contro tutti. La Dottrina sociale della Chiesa, il pensiero universale e l’esperienza, offrono in verità una visione ben più alta e nobile dello Stato. In questo decisivo orizzonte, il Consiglio delle Conferenze Episcopali Europee, a conclusione dell’incontro annuale svoltosi in Croazia, così si è espresso a nome di tutti i Vescovi del Continente: “Siamo convinti che la coscienza umana è capace di aprirsi ai valori presenti nella natura creata e redenta da Dio per mezzo di Gesù Cristo. La Chiesa, consapevole della sua missione di servire l’uomo e la società con l’annuncio di Cristo Salvatore, ricorda le implicazioni antropologiche e sociali che da Lui derivano. Per questa ragione non cessa di affermare i valori fondamentali della vita, del matrimonio fra un uomo e una donna, della famiglia, della libertà religiosa ed educativa: valori sui quali si impianta ed è garantito ogni altro valore declinato sul piano sociale e politico” (CCEE, Assemblea plenaria, Zagabria 3.10.2010).

A volte si sente affermare che di questi valori non bisognerebbe parlare perché “divisivi” e quindi inopportuni e scorretti, mentre quelli riguardanti l’etica sociale avrebbero una capacità unitiva generale. L’invito, non di rado esplicito, sarebbe quello di avvolgerli in un cono d’ombra e di silenzio, relegarli sempre più sullo sfondo privato di ciascuno, come se fossero un argomento scomodo, quindi socialmente e politicamente inopportuno. L’invito è spesso di far finta di niente, di “lasciarli al loro destino”, come se turbassero la coscienza collettiva. Tuttalpiù si vorrebbe affidarli all’opera silenziosa e riservata della burocrazia tecnocratica. Ma è possibile perseguire il bene comune tralasciandone il fondamento stabile, orientativo e garante? Il bene è possibile solo nella verità e nella verità intera. Per questa ragione non sono oggetto di negoziazione: su molte questioni, infatti, si deve procedere attraverso mediazioni e buoni compromessi, ma ci sono valori che, per il contenuto loro proprio, difficilmente sopportano mediazioni per quanto volenterose, giacché, questi valori, non sono né quantificabili né parcellizzabili, pena trovarsi di fatto negati.

Vi ringrazio per la paziente e benevola attenzione e concludo questo intervento, prima dei vostri lavori, con le sintetica e splendida affermazione di Papa Benedetto XVI in Germania: “In Cristo c’è futuro, vita e gioia!” (Omelia, Berlino 22.9.2011). E questo è straordinariamente vero, poiché “senza Dio l’uomo non sa dove andare e non riesce nemmeno a comprendere chi egli sia” (Benedetto XVI, Caritas in veritate, n. 78). In Lui – come abbiamo ricordato all’inizio – l’uomo ritrova se stesso, la sua identità e vocazione, il senso del suo vivere, impegnarsi e morire, la misura della sua dignità. I cristiani hanno ricevuto il dono della fede, un bagaglio dottrinale, morale e sociale che ha ispirato e fondato quell’umanesimo plenario di cui tutti godono anche se a volte sembrano volerne dimenticare o rinnegare le radici antiche e sempre feconde. Portare a tutti e in ogni ambiente questo patrimonio, con la coerenza della vita e il coraggio della parola fino alle conseguenze sociali, è un servizio doveroso poiché è un bene per tutti. Innanzitutto per i giovani, che attendono di vedere in noi adulti dei punti di riferimento affidabili, e che hanno diritto di nutrirsi ad una cultura fatta di ragioni nobili, capaci di suscitare entusiasmo e di sprigionare quelle energie propositive che scopriamo con commozione nei loro cuori. Proprio per questo i Vescovi italiani, che vivono accanto alla gente con i loro sacerdoti e sentono pulsare la vita complessa degli uomini d’oggi, hanno posto al centro degli Orientamenti Pastorali del decennio la missione educativa. E’ un responsabilità che fa appello a tutti, che costituisce una sfida, ma anche rappresenta un’ora promettente della storia alla quale nessuno deve mancare. Buon lavoro.


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