Federalismo fiscale la rivoluzione che ora non vuole più nessuno

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C’era una volta il federalismo fiscale. La «madre di tutte le riforme» per Umberto Bossi, la panacea di tutti i mali che avrebbe consentito di «raddrizzare l’albero storto delle fi nanza pubblica italiana» secondo Giulio Tremonti, la ricetta miracolosa di virtuosità per regioni ed enti locali che ora sembra non interessare più a nessuno.

Messo in secondo piano dall’emergenza economica, affossato dalle bizze dello spread, la riforma sembra non essere tra le priorità dell’agenda politica di Mario Monti e dei suoi ministri tecnici. E quando in questi mesi qualcosa si è fatto il senso degli interventi è stato diametralmente opposto a quello federalista.

Prendiamo il caso dell’Imu, la cui entrata in vigore è stata anticipata dal 2014 al 2012 a opera del decreto «Salva-Italia» (e questo potrebbe anche essere un bene, così come la sua estensione alla prima casa che rafforza il legame tra elettore ed eletto espresso nel principio pago-vedo-voto, per molti la regola aurea del federalismo). Ma della vecchia imposta federale, ideata dal gruppo di lavoro guidato dal professor Luca Antonini, è rimasto solo il nome.

La prima, l’Imu federalista per intenderci, di totale pertinenza dei comuni, era un tributo altamente tracciabile. Il che signifi ca che i cittadini avrebbero pagato, ma visto che i soldi sarebbero rimasti sul territorio di competenza, avrebbero avuto la possibilità di controllare che fossero spesi oculatamente dai politici.

L’Imu montiana, invece, il cui gettito previsto è più del doppio di quello della vecchia Ici (21,8 miliardi contro i 9,2 dell’imposta comunale sugli immobili) riconosce allo stato una bella fetta di introiti (9 miliardi, ossia la metà del gettito atteso sulle seconde case, l’altra metà andrà ai comuni) relegando i sindaci al ruolo di esattori per conto altrui. Saranno loro ad avere tra le mani la patata bollente di aumentare le aliquote. E non potranno fare altrimenti visto che Monti quest’anno ha previsto un taglio di 1,45 miliardi al fondo di riequilibrio che fi nanzia gli enti e un’ulteriore riduzione compensativa pari a 3,2 miliardi a cui si aggiunge un ulteriore miliardo in meno derivante dalla manovra di luglio 2011 del governo di Silvio Berlusconi. I conti sono presto fatti: i soldi a cui i municipi dovranno rinunciare quest’anno saranno ben maggiori del ritrovato gettito Imu prima casa (3,8 miliardi) che i sindaci torneranno a incassare dopo il «fermo» imposto dal governo del Cavaliere. Ecco allora che dall’Imu sulle seconde case dipenderà tutta la sostenibilità fi nanziaria dei comuni nel 2012 con la conseguenza che spingere al livello massimo l’asticella delle aliquote sarà per i primi cittadini una scelta obbligata. E le prime delibere approvate dai comuni lo dimostrano (si veda ItaliaOggi del 23/3/2012).

La domanda a questo punto si impone: tutto questo è ancora federalismo? No, rispondono i comuni che da un lato non ci stanno a recitare con gli elettori la parte degli esattori voraci e dall’altro chiedono al governo di rimodulare quel «fi fty-fi fty» che attualmente li penalizza. La torta infatti potrebbe essere divisa diversamente (30% allo stato e 70% ai comuni per esempio) anche se molti i sindaci spingono perché il governo riconosca ai municipi il 100% di ciò che è loro. Un’ipotesi difficilmente realizzabile, perché cozza contro la terribile esigenza dell’esecutivo di fare cassa, ma in definitiva l’unica strada che consentirebbe di far tornare «federalista» un’imposta ormai snaturata. Un bilancio di ciò che è stato fatto dal governo Monti in chiave federalista e soprattutto di ciò che deve ancora essere completato sarà ufficializzato dalla commissione bicamerale presieduta da Enrico La Loggia che a breve presenterà in parlamento la relazione semestrale sullo stato di attuazione della legge n. 42.

ItaliaOggi Sette ha provato ad anticipare i tempi.

Roma Capitale (dlgs 156/2010 sugli organi e nuovo decreto sulle funzioni ancora in corso di approvazione): quattro mesi per il decreto sulle funzioni Eppure gli inizi del governo Monti erano sembrati confortanti. Insediatosi a palazzo Chigi il 16 novembre 2011 (cinque giorni prima della scadenza della delega) il professore ha portato nel primo consiglio dei ministri il decreto sulle funzioni di Roma Capitale, in modo che potesse almeno essere approvato in via preliminare prima dello spirare del termine. Ma poi, nonostante i patti di non belligeranza tra Renata Polverini e Gianni Alemanno sulla ripartizione di competenze tra regionee comune, l’iter è andato per le lunghe. Se tutto andrà bene domani, ossia quattro mesi dopo il sì preliminare del cdm, la Bicamerale per il federalismo licenzierà il parere sul testo che poi dovrà tornare a palazzo Chigi per l’approvazione defi nitiva.

Il provvedimento fa un bel regalo all’amministrazione capitolina che potrà esercitare le nuove funzioni attribuite acquisendo nuovo personale, senza conteggiarne gli oneri ai fi ni del Patto di stabilità. Un trattamento che nessun altro comune italiano può vantare. Anche se su quest’ultimo aspetto si attende ancora l’ok della Ragioneria dello stato che ha espresso qualche dubbio di copertura.

Federalismo demaniale (dlgs 85/2010) nel dimenticatoio Non dà segni di vita, invece, il federalismo demaniale. E dire che il federalismo fi scale nel suo complesso era partito proprio da lì nel lontano 2010, dal dlgs (n. 85), primo decreto attuativo della legge delega, che aveva portato Roberto Calderoli a promettere «il Lago di Garda ai gardesani» e il trasferimento di caserme, fari, pezzi di Dolomiti alle regioni e ai comuni.

Ormai non ci crede più nessuno, soprattutto i diretti interessati che da mesi scrivono (prima a Berlusconi, poi a Monti) chiedendo che l’elenco dei beni trasferibili venga pubblicato presto in Gazzetta Uffi ciale. I due dpcm, uno con l’elenco dei beni che potranno passare dal centro alla periferia e l’altro con quelli esclusi dal trasferimento in quanto funzionali alle esigenze della pubblica amministrazione, sono stati approvati in Conferenza unificata con il consenso di Anci e Upi lo scorso mese di luglio, ma non si sa perché poi se ne siano perse le tracce. In ballo ci sono circa 12 mila beni individuati come trasferibili in via preferenziale ai comuni (valore più di 2 miliardi) per i quali molti municipi hanno già predisposto piani di valorizzazione e recupero che, giurano, farebbero risparmiare allo stato molti quattrini.

Fabbisogni standard di comuni e province (dlgs 216/2010): avvio prorogato di un anno Assieme ai costi standard della sanità regionale si tratta del cardine del federalismo. Qui, il discorso sembra essere diverso. La macchina è in moto e procede, seppure un po’ a rilento. Sose, la società che elabora gli studi di settore, sta predisponendo, in collaborazione con Ifel, i questionari da somministrare agli enti e da cui, dopo un lungo e laborioso processo di elaborazione dati, dovranno venir fuori le elaborazioni matematiche che diranno quanto comuni e province devono spendono per svolgere le proprie funzioni e mantenere in piedi organi e apparati.

Non una semplice curiosità statistica, ma una necessità visto che col federalismo gli enti non riceveranno nemmeno un euro in più rispetto ai fabbisogni. Si chiama superamento della spesa storica, il criterio che fin qui ha portato a premiare con più trasferimenti proprio gli enti più spendaccioni. I questionari della Sose hanno debuttato nel 2011 con le funzioni di polizia locale prima e amministrazione, gestione e controllo poi. A fine febbraio è partita la fase tre con i questionari relativi all’istruzione e al sociale. Ma i ritardi con cui gli enti stanno riconsegnando i questionari (pochi rispettano la tempistica prevista dalla legge, 60 giorni dalla pubblicazione in G.U., anche a costo di rischiare il taglio dei trasferimenti) ha indotto il governo Monti a rinviare di un anno l’avvio della fase transitoria per l’applicazione dei fabbisogni.

Si partirà nel 2013, anziché nel 2012. Entro il 31 marzo 2013 dovranno essere individuati i fabbisogni relativi con riguardo ad almeno due terzi delle funzioni, con un’entrata a regime nell’arco del triennio successivo.

Fisco municipale (dlgs 23/2011): dallo stravolgimento dell’Imu alla cannibalizzazione del decreto correttivo Dello stravolgimento dell’Imu, istituita proprio dal dlgs n.23/2011, si è già detto. Vale la pena di spendere qualche parola sul decreto correttivo del fi sco municipale che il governo Berlusconi ha approvato a fi ne ottobre 2011. Il dlgs doveva servire a «fare il tagliando» complessivo della riforma, alla vigilia della scadenza della delega, e infatti dispensava modifi che un po’ per tutti i decreti. Dall’introduzione del nuovo tributo comunale rifi uti e servizi all’estensione alle regioni a statuto speciali dell’Ipt proporzionale alla potenza del veicolo, dalla previsione dell’imposta di soggiorno anche per i comuni non turistici, all’abbandono della compartecipazione Iva sostituita da quella all’Irpef.

Nel testo avrebbe dovuto trovare posto anche la cosiddetta clausola di salvaguardia, più volte promessa da Roberto Calderoli ai sindaci, che a partire dal 2013 avrebbe consentito una possibile revisione dei tagli 2011 e 2012 qualora le condizioni generali della fi nanza pubblica lo avessero permesso. Ma l’aggravarsi della crisi economica ha relegato nel cassetto la promessa e le dimissioni di Berlusconi e l’avvento di Monti hanno fatto il resto.

Così il decreto correttivo è stato in parte accantonato e in parte cannibalizzato dal decreto «Salva-Italia». Dove sono confluite la service tax (chiamata Tares) e l’Ipt proporzionale anche per le province delle regioni autonome. La compartecipazione Iva, inoltre, è confluita nel Fondo sperimentale di riequilibrio falcidiato nei termini visti sopra.

Fisco regionale (dlgs 68/2011): salasso addizionali e costi standard in ritardo. Si profi la una proroga Ampiamente ritoccato dal decreto «Salva-Italia», il dlgs sul fisco regionale si compone di due assi portanti: una parte prettamente fi scale e un’altra che ruota attorno all’introduzione dei costi standard nella sanità. Per quanto riguarda il fi sco, il dl 201/2011 ha elevato dallo 0,9% all’1,23% con decorrenza dall’anno d’imposta 2011, l’aliquota base dell’addizionale regionale all’Irpef fi no alla sua rideterminazione a norma dell’art. 2 del medesimo decreto 68/201.

A questa aliquota i governatori potranno poi aggiungere un’ulteriore maggiorazione non superiore a: – 0,5 punti percentuali per gli anni 2012 e 2013; -1,1 punti percentuali per l’anno 2014; – 2,1 punti percentuali a decorrere dall’anno 2015. Le regioni non si sono fatte pregare e all’unisono hanno premuto sulla leva delle addizionali.

Al pari dei sindaci che hanno ottenuto lo sblocco della propria addizionale sull’Irpef. L’effetto è una moltiplicazione fuori controllo delle tasse locali a cui molti autorevoli esponenti della maggioranza che sostiene il governo stanno pensando di porre rimedio. Come? Chiedendo di eliminare una delle due addizionali sull’Irpef,o quella dei comuni o quella delle regioni. Facile immaginare una levata di scudi da parte di chi dei due sarà chiamato a fare il sacrifi cio.

Quanto ai costi standard della sanità, il discorso è ancora più complesso. Il meccanismo disegnato dal decreto prevede prima la fi ssazione del fabbisogno sanitario standard nazionale, ossia «dell’ammontare di risorse necessarie per assicurare i livelli essenziali di assistenza in condizione di effi cienza e appropriatezza». Una volta fissato questo volume di risorse, che deve essere compatibile con le esigenze generali di finanza pubblica, esso viene ripartito tra le regioni, determinando così i fabbisogni standard regionali che devono collimare con «i valori di costo rilevati nelle regioni benchmark».

Saranno tre e verranno scelte su un paniere di cinque dopo un complesso iter che coinvolge palazzo Chigi, la conferenza stato-regioni e il ministero della salute. Ma già si stanno accumulando pesanti ritardi. Il motivo è da ricercare nell’ostracismo di alcune regioni del Sud che sperano che il governo Monti prima e le elezioni del 2013 poi facciano slittare il più possibile l’addio alla spesa storica.

Il debutto dei costi standard è fissato per il 2013 e si stima possa far risparmiare circa 4 miliardi di euro allo stato ogni anno. Ma tutti sono ormai sono convinti che ci sarà una proroga.

Armonizzazione bilanci (dlgs 118/2011): avviata la sperimentazione È prevista una sperimentazione a due vie. Dal 2012 la riforma sarà anticipata per due anni da un drappello di enti che faranno da apripista in attesa dell’entrata in vigore a regime dal 2014.

Si tratta di 5 regioni ( Lombardia, Basilicata, Lazio, Campania e Sicilia ), 12 province ( Biella, Bologna, Brescia, Caserta, Catania, Firenze, Genova, Roma, Pescara, Potenza, Savona e Treviso) e 54 comuni di varie dimensioni demografi che. Le amministrazioni dovranno abbracciare subito la contabilità fi nanziaria (che peraltro, imponendo la contabilizzazione degli accertamenti e degli impegni nell’esercizio in cui vengono a scadenza, costituisce il clou della riforma). Mentre dal 2013 entreranno a regime tutte le altre novità tra cui la contabilità economica, i nuovi modelli di bilancio, il piano dei conti integrato e l’obbligo del bilancio consolidato.

Premi e sanzioni (dlgs 149/2011): relazione di fine mandato in naftalina, ma la Corte dei conti va avanti sul fallimento politico Il provvedimento, approvato dal consiglio dei ministri il 6 settembre 2011 è stato varato senza l’intesa con le autonomie che l’hanno defi nito centralista e contrario ai principi del Titolo V. Agli enti non è piaciuto l’obbligo per sindaci, presidenti di provincia e governatori di redigere la relazione di fi ne mandato 90 giorni prima della ricandidatura. Nell’occhio del ciclone anche la procedura del fallimento politico. Sarà la Corte dei conti l’arbitro del destino dei sindaci e dei presidenti di provincia che abbiano portato al dissesto le proprie amministrazioni. Il decreto legislativo su premi e sanzioni, infatti, chiama in causa esclusivamente i magistrati contabili a cui assegna il compito di accertare le responsabilità degli amministratori che porteranno poi, come conseguenza necessaria, alla loro incandidabilità per dieci anni. L’attuazione del decreto, tuttavia, sta procedendo a due velocità. Mentre la magistratura contabile non sembra aver avuto esitazioni nell’applicare le norme sul fallimento politico, avviando le procedure di dissesto guidato, la relazione di fi ne mandat va in naftalina. Il ministro dell’interno Anna Maria Cancellieri è stata chiara: i sindaci che si ricandideranno alle elezioni amministrative del 6 e 7 maggio saranno esonerati dall’obbligo.

 

Francesco Cerisano, Italia Oggi Sette

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