Sprechi Uno studio di McKinsey sul tavolo del ministro. Contrastare il calo della domanda. I nuovi vertici dovranno agire su efficienza e minori costi legati alle spese fisse
Manca una strategia integrata, troppe sovrapposizioni di ruoli e attività, modesto l’ impatto dei padiglioni fieristici, troppo macchinosa la cabina di regia. Ma, soprattutto, assurdo avere due istituzioni centrali come Ice ed Enit che spendono più in stipendi e affitti che in attività promozionali.
Da tempo Confindustria si lamenta della scarsa efficienza del sistema italiano per il sostegno all’ export, al punto che l’ anno scorso aveva proposto al governo Berlusconi di «venderle» l’ Ice per gestire in proprio uno dei meccanismi vitali per internazionalizzare il made in Italy.
La crisi dell’ economia e poi della politica hanno impedito di rivoluzionare il settore, e allora ecco che Confindustria insieme all’ Abi, alle Cooperative e all’ Anie, all’ inizio dell’ anno ha commissionato alla McKinsey uno studio per radiografare l’ insieme degli enti che dovrebbero istituzionalmente promuovere l’ Italia all’ estero e fare anche proposte operative.
I difetti Il dossier, una cinquantina di pagine con molte tabelle illustrative, boccia senza pietà l’intero storico impianto di promozione, e da una paio di settimane è sul tavolo del ministro dello Sviluppo economico Corrado Passera e del neo presidente dell’ Ice Riccardo Monti.
Quello che più colpisce è il costo per mantenere in vita gli enti – anche se non è stato calcolato quello delle ambasciate e dei consolati, altrimenti sarebbe stato ben maggiore – rispetto alle iniziative utili. Così si scopre che l’ Istituto per il commercio con l’ estero (Ice), nel 2010 ha speso 128 milioni di euro per «sé» (616 dipendenti e 80 sedi) e solo 122 milioni per attività promozionali di supporto.
Per non parlare dell’ Enit (l’ ente nazionale per il turismo), alla guida del quale da poco è stato nominato Pierluigi Celli, che su un bilancio di 41 milioni di euro spende per «sé» ben 26,3 milioni (217 dipendenti e 24 sedi) e per le imprese 14,6. O
ppure la Simest (Società Italiana per le Imprese all’ Estero), che ai suoi 155 dipendenti dedica 28 milioni di euro (ma dentro ci sono anche i costi per la stabilizzazione del tasso di cambio) e al supporto alle imprese solo un milione.
In tutto, su un totale di 682 milioni di euro (che nel 2011 sono stati ridotti a 540) più di un terzo se ne va in spese per mantenere i 2.600 dipendenti di «sistema» in Italia e il migliaio all’ estero.
Senza contare la scarsa trasparenza nella raccolta dei dati: le Regioni, le ambasciate, la Sace non hanno fornito le cifre del personale dedicato nelle loro sedi estere. Con una sovrapposizione di funzioni imbarazzante: cinque gli enti per la formazione, quattro per i servizi informativi, sei per l’ assistenza e la consulenza.
Ben 150 i milioni di euro stanziati dalle Regioni per sostenere quasi sempre il loro vessillo e quello del loro «governatore». Una visione personalistica che non serve a far aumentare la penetrazione dei prodotti italiani all’ estero. Così, per esempio, alle strategiche fiere internazionali quasi sempre l’ Italia è divisa per regioni e non per settori produttivi creando confusione nei possibili clienti.
L’ esempio Gli analisti della McKinsey hanno preso la Germania come punto di riferimento, anche perché l’ Italia è il secondo esportatore di Eurolandia, e valutato il gap con i tedeschi in circa 280 miliardi di euro l’ anno. In particolare il 70% delle esportazioni italiane sono orientate verso l’ Europa mentre quelle tedesche si fermano a poco più del 50%.
Al contrario la quota di mercato italiana sulle importazioni dei Paesi Bric (quelli emergenti, il cui Pil cresce dell’ 8-10% all’ anno) è pari all’ 1,7% rispetto al 6,2% della Germania. Naturalmente il modello tedesco per il supporto operativo all’ estero è super efficiente: esiste, per esempio, un solo interfaccia a livello nazionale (la Ihk, ossia la rete delle Camere di commercio), la stessa cosa all’ estero con totale simbiosi con le ambasciate. Così come la Germania ha una banca pubblica (Kfw-Ipex) dedicata all’ export mentre l’ Italia solo l’ anno scorso ha avviato una convenzione tra Cdp, Abi e Sace, la cui operatività oggi è ancora limitata.
Nei corridoi confindustriali le critiche sono ancora più dettagliate nei confronti delle strutture governative, accusate di fare spesso «inutili passerelle» all’ estero. E di non investire nei mercati emergenti, dove le piccole e medie aziende fanno fatica a muoversi.
La famosa cabina di regia, invocata anche dal rapporto McKinsey, cercando di imitare quella tedesca, è paradossalmente passata da una struttura inutilmente numerosa a una ancora più elefantiaca. «Nell’ ultima missione in Turchia all’ inizio di maggio – fa notare un dirigente di viale Astronomia – al tavolo c’ erano 12 funzionari guidati dal sottosegretario allo Sviluppo Massimo Vari, ognuno alla ricerca di un ruolo».
Per il neo presidente Ice, Monti, il cammino appare in salita, specialmente con l’ arrivo alla guida di Confindustria di Giorgio Squinzi che per l’ export ha una vera e propria fissazione.
Roberto Bagnoli, Corriere della Sera / Economia