L’ istituto di previdenza, uscito perdente dal confronto con la Ragioneria, tenta di prendersi la rivincita. Centinaia di migliaia di famiglie in ansia per il loro futuro. E dietro una catena di errori
Adesso che la frittata è fatta, che i conti su quanti siano davvero gli esodati non tornano, tutti i protagonisti di questa complessa vicenda scaricano su qualcun altro la colpa. Il tormentone degli esodati, che comincia a dicembre e non sappiamo come e quando finirà, è la storia di uno scontro fra alte burocrazie, tecnostrutture in concorrenza e un ministro, Elsa Fornero, che ne resta in buona parte vittima e in parte, invece, concorre anche lei ad amplificare il pasticcio.
Non è una bella storia, se si pensa che coinvolge centinaia di migliaia di lavoratori che temono di restare per periodi più o meno lunghi senza stipendio né pensione. Ma anche perché mina la credibilità del governo in una fase in cui di essa c’ è massimo bisogno, vista la tempesta sui mercati.
Ecco allora che l’ irritazione del ministro del Lavoro – e c’ è da scommetterci anche del premier Mario Monti – è massima, al punto che Fornero ieri in pratica ha chiesto le dimissioni del presidente e del direttore generale dell’ Inps, Antonio Mastrapasqua e Mauro Nori, colpevoli, secondo la professoressa, di aver passato all’ agenzia di stampa Ansa la relazione dello stesso Nori sulla stima complessiva dei potenziali esodati: 390.200, contro gli appena 65 mila salvati dal decreto Fornero-Monti, cioè autorizzati ad andare in pensione con le vecchie regole, precedenti alla riforma della previdenza, contenuta del decreto salva Italia.
Accusa ovviamente respinta dagli interessati, che fanno notare come quel documento fosse in possesso, oltre che del Lavoro, anche del ministero dell’ Economia, della Ragioneria generale, di Palazzo Chigi, del vertice del Civ, il Consiglio di indirizzo e vigilanza dello stesso Inps, composto dai rappresentanti dei sindacati e delle imprese.
E comunque la frittata è fatta anche perché il governo non ha seguito una linea di trasparenza. Si sapeva fin dall’ inizio che i tecnici avevano dato l’ allarme. Ma i documenti, le stime messe nero su bianco sono state tenute segrete, perfino al Parlamento che le aveva chieste. Forse perché i numeri della Ragioneria e quelli dell’ Inps non concordavano?
L’ esecutivo ha preferito prima dire che non erano 350 mila, come sindacati e Pd avevano denunciato già a marzo. Poi che erano 65 mila e basta. Infine che sì erano 65 mila ma per i primi due anni e che per gli altri, che verranno dopo, «si vedrà». Una linea ondeggiante, fin dal primo momento. Già poche settimane dopo il decreto salva Italia di dicembre, il direttore generale dell’ Inps, Mauro Nori, aveva inviato un appunto tecnico al ministero del Lavoro per rappresentare che la platea di quelli che allora si chiamavano i «salvaguardati» era ampia, molto più ampia dei 65 mila sui quali la Ragioneria generale dello Stato aveva tarato la copertura della clausola di salvaguardia, autorizzando lo stanziamento di 5 miliardi nel periodo 2013-2019 per pagare appunto le annualità di pensione ai lavoratori.
Il problema non è di poco conto. Il comma 14 dell’ articolo 24 del decreto legge del 6 dicembre 2011 dice che possono andare in pensione con le vecchie regole una serie di categorie.
Le principali riguardano: lavoratori in mobilità sulla base di accordi sindacali anteriori al 4 dicembre e che maturino i requisiti entro il periodo di fruizione dell’ indennità di mobilità; a carico dei fondi di solidarietà (tipo bancari) sempre alla data del 4 dicembre; ammessi alla contribuzione volontaria prima della stessa data. Solo che non tutti, dice la norma, potranno andare in pensione prima, ma solo un certo numero, «nei limiti delle risorse stabilite ai sensi del comma 15 e sulla base della procedura ivi disciplinata».
Il comma 15 stanzia appunto 5 miliardi in 7 anni e dispone che sarà un decreto interministeriale Fornero-Monti a stabilire il «limite massimo numerico» dei beneficiari. La Ragioneria generale guidata da Mario Canzio già sa che il tetto sarà di 65 mila lavoratori, perché per tanti bastano i 5 miliardi. La tecnostruttura dell’ Inps, uscita perdente dal confronto con i mastini della Ragioneria, in tutta la partita della riforma previdenziale tenta di prendersi la rivincita facendo subito notare al ministro che salvaguardare 65 mila persone significa lasciarne fuori 3-4 volte tante, in possesso delle stesse condizioni previste dal comma 14.
Le carte arrivano sul tavolo di Fornero e del viceministro Michel Martone, col quale Nori ha un ottimo rapporto. Le notizie giungono anche al sindacato, presente nel Civ, diretto da Guido Abbadessa (Cgil). Nori, inoltre, è molto vicino alla Cisl.
Col decreto Milleproroghe, convertito in legge a febbraio, i sindacati, con l’ appoggio bipartisan in Parlamento, strappano qualche modifica ai commi 14 e 15 del salva Italia, allargando la platea degli ammessi al pensionamento anticipato a una nuova categoria, gli «esodati» appunto, brutta parola che identifica coloro che in seguito a dimissioni volontarie hanno lasciato il lavoro entro il 31 dicembre 2011 e matureranno il primo assegno di pensione con le vecchie regole entro il dicembre 2013. Nessuno sa bene quanti siano e allora la copertura bollinata dalla Ragioneria generale prevede una clausola di salvaguardia che è una tagliola: se le risorse stanziate non saranno sufficienti, scatterà «un incremento delle aliquote contributive non pensionistiche a carico di tutti i datori di lavoro del settore privato», a partire dai «contributi per disoccupazione» e dall’ aliquota dello 0,30% per la formazione.
Lo stesso Milleproroghe sposta al 30 giugno il termine per la presentazione del decreto interministeriale con le quote dei salvaguardati. Ma la polemica infuria.
Il 4 marzo il Corriere scrive che secondo gli appunti tecnici sul tavolo del ministro del Lavoro gli «esodati» (ormai si chiamano così tutti quelli che avrebbero diritto ad essere salvati) sono almeno 200 mila. I sindacati parlano addirittura di 350 mila e scendono in piazza a Roma il 13 aprile a Roma. Il governo non smentisce, ma decide di accelerare sul decreto. Al dicastero si succedono le riunioni tecniche per prepararlo. Ci sono Laura Piatti, responsabile della segreteria tecnica di Fornero, per la Ragioneria un irremovibile Francesco Massicci, Ispettore capo per la spesa sociale, e i tecnici dell’ Inps. Nori si lamenta di essere stato tagliato fuori, i dissapori con Mastrapasqua crescono. Il presidente dell’ Inps prova a giocare in prima persona la partita degli esodati. Ma anche lui va a sbattere contro il muro eretto da Massicci. La rivincita sulla Ragioneria non riesce. Mastrapasqua non trova sponda in Fornero, che sposa la linea dura: gli esodati sono «un costo» della riforma delle pensioni che «non si può riaprire».
Nel frattempo in Parlamento succede un primo patatrac. La commissione Lavoro chiama in audizione il presidente dell’ Inps e gli chiede conto delle stime dell’ Istituto sugli esodati. Mastrapasqua tiene i numeri coperti: li ha il ministro, si giustifica. Forse spera ancora di avere qualche carta da giocare. Invece, una settimana dopo, Nori rivela: sono almeno 130 mila. Mastrapasqua si arrabbia. Fornero s’ infuria. Il direttore generale deve rettificare: 130 mila nei prossimi 4 anni, insomma 65 mila nei primi due.
Il ministro manda a Monti il decreto da controfirmare: i salvaguardati sono 65 mila per il 2012-2013. Per ora non si può fare di più, dice.
A Nori viene chiesto di scrivere la relazione tecnica che accompagna il decreto. Il direttore obbedisce, ma nel testo afferma che i 65 mila sono il frutto delle «impostazioni normative e interpretative della Ragioneria». Una interpretazione meno restrittiva delle norme porterebbe infatti gli aventi diritto a quota 390.200. Per capirlo basta un esempio. Prendiamo i lavoratori collocati in mobilità con accordi firmati entro il 4 dicembre. Se si considerano quelli che stanno fisicamente in mobilità a quella data, sono 29 mila. Se invece si calcolano anche quelli, pur individuati dagli accordi, che verranno collocati in mobilità successivamente (molte intese prevedono lo scaglionamento degli esuberi) salgono a 45 mila.
Passano giorni e giorni, ma Monti non firma. Lo farà il primo giugno solo dopo che la frase sulle interpretazioni della Ragioneria sarà stata cancellata. Il decreto non è stato ancora pubblicato in Gazzetta Ufficiale e ieri la prima relazione Nori, protocollata 22 maggio, è stata diffusa dall’ Ansa. La partita continua.
Enrico Marro, Corriere della Sera