Già perso la chimica, stiamo perdendo l’acciaio, a rischio il cemento. L’export si riduce. C’è chi se ne compiace. Di che vivrà?
La situazione all’Ilva di Taranto è precipitata, come purtroppo c’era da temere. L’altro ieri la magistratura tarantina ha emesso nuovi provvedimenti cautelari verso la famiglia Riva, ex dirigenti dell’impianto siderurgico, l’attuale presidente del gruppo ed ex prefetto Ferrante, e politici tarantini accusati di convogliare verso consulenti «amici» e sovrappagati le verifiche ambientali. Anche il presidente pugliese Vendola avrebbe «ammorbidito», secondo i pm, le verifiche ambientali regionali.
Ma a ciò si è aggiunto il sequestro di migliaia di tonnellate di lastre e coils di acciaio realizzati negli ultimi tempi a Taranto, con il divieto di commercializzazione in quanto corpi di reato. La reazione dell’azienda è stata l’immediata messa in libertà di 5mila addetti alla lavorazione a freddo.
Con lo stop totale, entro pochi giorni andrebbero a fermi analoghi per mancanza di acciaio semilavorato proveniente da Taranto gli altri impianti del gruppo Riva, a Genova, Novi Ligure, Racconigi, Patrica. Migliaiaia e migliaia di lavoratori a casa, il ventesimo gruppo siderurgico al mondo, e italiano, praticamente in ginocchio.
Da mesi, non hanno sortito effetto gli appelli al buon senso, per trovare una quadra in questa paradossale storia italiana. Italiana perché purtroppo si sommano le inefficienze storiche degli apparati amministrativi pubblici deputati ad attendibili verifiche ambientali, di salute e sicurezza, e le tentazioni della politica e dei privati sulle quali la magistratura parallelamente indaga.
Paradossale però, perché non c’è un solo Paese al mondo in cui si rischi concretamente di uscire dall’acciaio oggi (e perché no dal cemento domani, vedi il caso Italcementi appena avviato a esiti analoghi in Lazio) per effetto di ordinanze cautelari della magistratura penale. Per un Paese ad alta intensità manifatturiera come noi siamo (e come dobbiamo rimanere) se vogliamo difendere l’unica voce che con il suo export contribuisce a non far ulteriormente sprofondare la crescita italiana, è l’esatto opposto di ciò che servirebbe.
È un’ulteriore accelerazione verso la decrescita, drammatica perché purtroppo si è accumulata trascuratezza decennale per salute e ambiente fin da quando le scelte d’impianto le fece la siderurgia pubblica, ma insieme tragica perché disoccupazione e declino accelerano in maniera rapida ed esponenziale.
Finora il governo aveva indicato la via di una nuova e rapida AIA, l’autorizzazione di impatto ambientale, ma non ha funzionato. L’esecutivo deve davvero riprendere d’urgenza in mano la vicenda. Mantenere l’industria di base è una priorità per un paese manifatturiero, anche se l’energia in Italia è carissima. Uscire dall’acciaio aggraverebbe la nostra bilancia dei pagamenti, oltre a impoverirci. Ma le bonifiche necessarie a Taranto per mantenere la produzione sono estesissime e onerosissime.
La famiglia Riva da sola non può farcela, per quanto debba essere incalzata (e lo è, visto il numero dei suoi componenti agli arresti). Occorre da una parte uno sforzo straordinario della finanza pubblica, ancora maggiore di quello sin qui annunciato, del quale una buona fetta era già assegnata al porto di Taranto. E bisogna insieme riuscire a far diventare questo grande investimento di salute e sicurezza una priorità europea, un modello che valga anche per Germania e Polonia che continuano come noi ad avere impianti siderurgici o a carbone nei centri abitati.
Oscar Giannino, Italia Oggi