La febbre greca sta contagiando in modo sempre più pericoloso la Spagna, che ieri ha visto i tassi di interesse salire verso il 7%, un livello che comporta inevitabilmente la crescita a spirale del debito pubblico e, combinandosi con recessione, crisi immobiliare e un sistema bancario sempre più debole, trascina il Paese in un gorgo senza fine.
La crisi di Bankia e dell’intero sistema delle casse di risparmio è ormai conclamata. Ma è bene ricordare che solo qualche mese fa la strategia dei governi europei era basata sull’ipotesi che si trattasse “solo” di una temporanea fase di difficoltà, che sarebbe stata superata con una fusione fra le principali casse e l’immissione di nuovo capitale per 3,3 miliardi, bruciati in pochi mesi dall’emergere di perdite gravissime (si dice che la controllante Bfa annuncerà presto la più grave perdita della storia bancaria spagnola) e accompagnato dal declassamento dei titoli al livello junk, cioè spazzatura.
Adesso si parla di un ulteriore fabbisogno di capitale per almeno 19 miliardi. Ma è bene ricordare che in questi casi le stime rischiano sempre di rivelarsi per difetto, anche perché questa cifra sembra appena sufficiente a riempire il buco delle nuove perdite su crediti, non certo ad irrobustire la banca.
Si profilano già le solite soluzione-tampone. Ad esempio, si propone che Bankia usi i fondi pubblici ottenuti con l’aumento di capitale per acquistare titoli pubblici che a loro volta potrebbero essere utilizzati come garanzia per nuovi prestiti della Bce. Pura ingegneria finanziaria, destinata ad essere travolta dalla gravità della crisi. Non solo: una soluzione che sinistramente ricorda quella già tentata con scarso successo dall’Irlanda. Se neppure gli interventi straordinari della Bce sono serviti, è chiaro che solo misure coraggiose e innovative possono arrestare il contagio e salvare l’intera costruzione europea. Dall’estate scorsa (non a caso quando la crisi ha cominciato a colpire Spagna e Italia) si invoca un’arma potente (il “big bazooka”); si sono invocati sbarramenti efficaci (“firewalls”); pochi giorni fa Mario Draghi ha chiesto alla politica europea di fare un «coraggioso balzo in avanti». Il contrasto con i risultati ottenuti è imbarazzante.
Eppure quello che sta succedendo non è una novità, così come sono ben conosciute le soluzioni di emergenza da adottare. Il Fondo monetario aveva detto poco più di un mese fa che l’Europa era ancora al bivio: da una parte misure decisive per rafforzare l’unione monetaria ed economica e dall’altra uno scenario di “risposte deboli”, che altro non erano che la conseguenza della bocciatura da parte del mercato delle misure finora realizzate, solo temporaneamente tamponate dall’eccezionale iniezione di liquidità da parte della Bce. Come si è puntualmente verificato. Il Fondo rilanciava le proposte finora accuratamente evitate dalla politica dei Paesi di Eurolandia e in particolare dalla Germania e richiedeva senza mezzi termini una gestione europea dei problemi delle banche. Testualmente: «L’unione monetaria deve essere sostenuta da un approccio paneuropeo alla supervisione bancaria, all’assicurazione dei depositi e alla gestione delle crisi, con un meccanismo centralizzato di finanziamento di questi due meccanismi». Quanto alla solidarietà fiscale, richiamava ancora una volta la necessità di costruire meccanismi di distribuzione del rischio fra i membri dell’unione, a cominciare dagli eurobond, con relativo schema di ammortamento della parte di debito comune.
Purtroppo l’Europa ha perduto altre settimane preziose, trastullandosi nell’idea che i mercati si sarebbero calmati. Sta accadendo esattamente l’opposto e ormai le pressioni sui Paesi più deboli dell’euro possono essere risolte solo da una soluzione veramente europea. Cioè, tanto per rinfrescare la memoria ai governanti europei, imboccando finalmente la strada che era stata solennemente additata dopo il vertice di Parigi che si tenne nei giorni drammatici del dopo-Lehman, cioè oltre tre anni fa.
Non è più possibile illudersi che la crisi che sta investendo la Spagna si plachi da sola e neppure che possa essere fronteggiata con misure limitate a quel Paese. In primo luogo perché i dati ricordati dimostrano che la crisi di Bankia può essere solo la fase iniziale di malesseri più diffusi, ma soprattutto perché occorre riconoscere che l’Europa si è finora cullata in una pericolosa illusione.
Ci si è ostinati a puntare su una politica dei due tempi: prima riportare l’ordine in ciascuna delle “case europee” (presentando il conto solo ai contribuenti nazionali) e dopo realizzare ulteriori passi in avanti nell’integrazione europea. Quell’idea, ammesso fosse praticabile fin dall’origine, è stata ormai travolta da un peggioramento delle condizioni economiche e finanziarie che fino all’anno scorso era difficile prevedere. Certo, le soluzioni come quelle che finora la Germania ha sdegnosamente rifiutato comportano costi per ciascun Paese, a cominciare da quelli più forti dell’unione monetaria. Ma tutte le analisi oggi disponibili dimostrano che tutti i Paesi, compresi appunto quelli più forti, sono destinati a sopportare costi elevati sia in caso di uscita “semplice” della Grecia (la Germania sarebbe comunque chiamata a pagare pro-quota il debito oggi detenuto dall’Unione europea e dalle altre istituzioni internazionali), sia in caso di crollo dell’euro. Lo studio Ing molto citato in questi giorni stima sempre per la Germania un costo di circa l’11% del Pil, quasi 10 volte il costo di un’uscita limitata alla Grecia.
Marco Onado, Il sole 24 Ore