I governi hanno capito che la soluzione è solo nella maggior integrazione ma ce ne accorgiamo con dieci anni di ritardo.
Diciamo la verità. Stanno accadendo cose che pochi anni fa neppure l’europeista più fiducioso avrebbe osato sperare. Dicevamo tutti giustamente che l’integrazione politica non può nascere soltanto da regolamenti e difettive, ma ha bisogno di un’opinione pubblica che la senta come propria e si interessi ai temi europei non meno che a quelli nazionali. Notavamo però allo stesso tempo, e senza possibile smentita, che l’Europa e i suoi temi non aprivano mai i telegiornali, non erano mai nelle prime pagine dei quotidiani, e le sue parole chiave erano ignote ai non addetti ai lavori. Era inoltre impossibile pensarci sino a quando paesi come il Regno Unito continuassero a manifestare insofferenza per qualunque passo verso una maggiore integrazione, leggendovi subito la traccia del vituperato “superstato” europeo e teorizzando invece le virtù di un mercato comune che non pretendesse di essere altro.
Ebbene quello che sta accadendo è che i temi europei sono ormai fra i primi di ogni telegiornale, che sono anche sulle prime pagine dei quotidiani e che parole come spread ed eurobond fanno parte delle conversazioni giornaliere e sono capaci addirittura di destare forti sentimenti partigiani nei diversi paesi europei. Sta inoltre accadendo che un tempio del verbo britannico come l’Economist , se ancora vibra fendenti contro il superstato europeo, lo fa non più perché si resti al mercato comune, ma caldeggiando una federazione “leggera”, che gli pare essenziale per dare all’euro la cornice istituzionale di cui sin dall’inizio l’avremmo dovuto dotare.
Si aggiunga infine che anche i leaders europei parlano nuovamente di integrazione politica come di un traguardo al quale bisogna arrivare. La stessa cancelliera Angela Merkel, intervistata mercoledì dalla ARD, è arrivata a dire che il Consiglio europeo del 28 giugno dovrà definire una road map dell’integrazione. Per gli europeisti potrebbe sembrare la inattesa soglia del paradiso e in certo senso lo è, perché se accade tutto questo lo si deve al fatto che quanto essi hanno sempre sognato per ragioni politiche si sta rendendo urgentemente necessario per evitare un disastro economico e finanziario.
Ed è così del resto che la prospettiva dell’integrazione politica viene presentata, sempre all’inter-no del dilemma «o la federazione o la rovina», come titolava due giorni fa un’intervista all’ex primo ministro francese, Michel Rocard. Ma qui vengono insieme sia l’opportunità, sia l’ostacolo che si oppone alla sua realizzazione, giacché il contesto di cui ha bisogno la federazione per realizzarsi è esattamente l’opposto di quello creato dalla crisi economica e finanziaria, che pure fa emergere la road map dell’integrazione come l’unica via di uscita praticabile. E l’europeista ci si trova nel mezzo come un novello Tantalo. Ormai tutti gli addetti ai lavori hanno capito che gli strumenti di cui ci siamo dotati per fronteggiare la crisi o sono insufficienti o sono addirittura controproducenti, perché distruggono l’assetto che dovrebbero in realtà restaurare insufficiente per mettere al sicuro i debiti pubblici il fondo salva-Stati, che non ha risorse adeguate e che presumibilmente non le avrà mai.
È controproducente rifornire le banche di liquidità destinata all’acquisto dei titoli pubblici del loro stato di appartenenza, perché questo lega sempre di più l’affidabilità delle banche di un paese alla rischiosità del relativo debito pubblico e cancella quel poco che era rimasto di mercato bancario e interbancario europeo.
È noto che negli ultimi tempi sta prevalendo fra le stesse autorità bancarie nazionali l’indirizzo volto a far coincidere i confini nazionali della raccolta e quelli degli impieghi. Con il Che salta non solo l’eurozona, ma
addirittura una delle libertà fondamentali su cui era fondato il mercato unico, la libertà di movimento dei capitali. È infine controproducente, ma questo lo si era percepito da tempo, la severità di bilancio non accompagnata da efficaci politiche della crescita, giacché lasciare senza riequilibrio gli effetti recessivi prodotti dall’austerità, significa provocare una caduta delle entrate, che potrà rendere a sua volta difficile ripagare il debito pubblico.
Prigionieri di questi circoli viziosi, i nostri governi e le istituzioni europee hanno anche capito che se ne esce solo con maggiore integrazione. E non per fare Contenti una buona volta gli europeisti e il loro idealismo, ma perché, se non è il fondo salva-Stati, è – come minimo – il redemption fund proposto dai consiglieri economici della Merkel che da’ una qualche tranquillità ai mercati sulla solvibilità dei debiti pubblici; perché serve la garanzia comune sui depositi bancari per evitare che possibili turbolenze future generino il panico dei risparmiatori; ed è l’insieme di queste misure più il trasferimento di quote maggiori di sorveglianza bancaria a livello europeo a restituire all’euro-zona il funzionante sistema circolatorio di cui ha bisogno.
Mentre non si può pretendere l’austerità a livello nazionale senza disporre a livello europeo dei mezzi necessari per robuste iniezioni di risorse e quindi di crescita nei paesi più colpiti dalla recessione. Insomma, tutte le cose di cui ci avevano detto che avremmo dovuto dotarci prima di imbarcarci nella moneta unica e alle quali allora dicemmo di no, perché l’euro lo si volle, ma non si vollero i livelli di integrazione dei quali avrebbe avuto bisogno.
Ce ne accorgiamo con dieci anni di ritardo, davanti a un baratro che è sempre più vicino. Ma qui arrivano gli ostacoli, che possono impedire a Tantalo di bere. Siamo in condizioni di dire di sì, è in condizioni di farlo davvero la Cancelliera Merkel? Il Direttore dello European Council for Foreign Relations, Mark Leonard, in un suo editoriale per la Reuters del 31 maggio, ci induce a dubitarne.
L’ultimo libro di Thilo Sarrazin (l’economista già assessore berlinese dell’Spd, divenuto poi fiero populista) è oggi in Germania il primo dei best sellers con un titolo che dice «Perché l’Europa non ha bisogno dell’euro». Un sondaggio di fine maggio ci dice del resto che per oltre la metà dei tedeschi la Germania è stata danneggiata dall’adesione all’euro, mentre oltre il 79% di loro sono prevedibilmente contrari agli eurobond. E poi ci sono i finlandesi, gli olandesi, i danesi. E dall’altra parte i greci, e forse non solo loro, ostili verso l'”egoismo” del Nord. Come unire allora europei, che proprio a causa della crisi nutrono gli uni verso gli altri sentimenti opposti a quelli che servono ad unire?
La risposta è una sola. Questo è uno di quei compiti per i quali Nostro Signore inventò la politica e guai ad essa se non troverà il coraggio e i modi di esercitarlo, di dire agli elettori come stanno le cose e di offrire loro ciò che davvero conviene. Conviene più Europa. E non va persa l’occasione di farla.
Giuliano Amato, Il sole 24 Ore, 10 giugno 2012