Gli aumenti e la volatilità delle quotazioni del petrolio hanno effetti ramificati sull’economia. Molto dipende, però, da quelle che sono le aspettative prevalenti tra i vari agenti economici: i prezzi resteranno stabilmente al di sopra di una certa soglia, oppure finiranno per crollare, come è accaduto tante volte nel passato? L’esercizio di previsione è sempre stato complesso, ma oggi lo è più che mai, specie se si tiene conto che dietro i rincari non ci sono preoccupazioni sulla disponibilità fisica di greggio, ma dubbi sull’evoluzione delle tensioni internazionali e interne ai paesi produttori.
Di certo, comunque, dall’inizio degli anni Duemila il barile si è assestato su livelli che prima venivano considerati pressoché irraggiungibili, senza che questo scatenasse le temute ondate recessive. Anzi: a differenza dell’esperienza degli anni Settanta, questa volta è stata la crisi economica ad affossare l’oro nero, non il contrario. In termini macroeconomici, per esempio, si stima che un paese come l’Italia lasci sul terreno lo 0,4 per cento del prodotto interno lordo per ogni 10 dollari di aumento del prezzo del petrolio. Contemporaneamente, come ha ricordato Massimo Nicolazzi nel suo pezzo all’interno di questo stesso dossier, «per ogni litro di benzina che acquistiamo compriamo più tasse che petrolio». Per esempio, nell’ultimo anno le accise sulla benzina sono cresciute del 26 per cento, sul gasolio del 41 per cento: in entrambi i casi, molto più di quanto non sia lievitato il costo della materia prima.
Sia come sia, è evidente che l’incertezza sugli andamenti futuri e la scarsa probabilità di una discesa al di sotto dei 70-80 dollari non sono prive di conseguenze sulla convenienza relativa delle diverse fonti energetiche. È proprio il peso abnorme dell’imposizione fiscale, però, a smorzare l’effetto del caro-petrolio nei carburanti per autotrazione. Poiché circa il 60 per cento del prezzo alla pompa è riconducibile alla componente fiscale, le variazioni vengono percepite in modo attutito dal consumatore. Ciò non toglie che, agli attuali livelli, diventino competitivi i biocarburanti di seconda generazione. Nel medio termine, questo può indurre a un ripensamento delle politiche di incentivo, che paradossalmente potrebbero finire per tenere sul mercato prodotti meno innovativi e mettere i bastoni tra le ruote a quelli di più recente sviluppo.
Di per sé, la corsa del petrolio non dovrebbe avere molti effetti al di là del settore trasportistico, in quanto ormai il greggio è un combustibile residuale in tutti gli altri contesti (industria, riscaldamento e generazione elettrica). Tuttavia, in presenza di mercati gas scarsamente competitivi, i prezzi del metano sono strettamente correlati a quelli dei contratti take or pay, a loro volta indicizzati all’oil.
Nella sostanza, quindi, mentre in altri paesi il gas è ormai completamente disaccoppiato dal petrolio, e vive un momento di bonanza, in Italia ciò non è accaduto ed è improbabile che accada nel breve termine (mentre nel lungo termine la separazione di Snam dall’Eni, imposta dal decreto liberalizzazioni di gennaio, potrebbe mettere in moto un ciclo virtuoso di investimenti).
Ne segue che il caro-petrolio si trasforma in un caro-gas, che ha due effetti rilevanti, uno interno e uno esterno. Internamente, esso rende più conveniente il carbone come combustibile per la generazione
elettrica, e in teoria favorisce anche le rinnovabili, che però restano largamente isolate dai segnali di prezzo in virtù dei generosi schemi di sussidio. Esternamente, l’elettricità prodotta in Italia, pur provenendo da impianti nuovi e con un’ottima efficienza di conversione, finisce per non essere competitiva, e quindi la sovraccapacità italiana – che sta diventando un serio problema per l’industria elettrica nazionale – non produce opportunità di crescita all’estero.
Carlo Stagnaro, ISPI