llda Boccassini sceglie le parole, nella conferenza stampa per l’ arresto dell’ assessore regionale lombardo Domenico Zambetti. E sono parole esplosive. Quel che è successo, dice, «è devastante per la democrazia».
Lei, che ha seguito decine di indagini di mafia, prima al Nord, poi al Sud e poi di nuovo al Nord, fa notare questa assoluta novità nella storia lombarda: «È la prima volta che un voto di scambio viene accertato durante le indagini».
Affiancata da Giuseppe D’ Amico- il pm che ha tratteggiato, con i carabinieri, il sistema criminale che ha inquinato le elezioni regionali e comunali della capitale morale d’ Italia – il procuratore aggiunto a capo della direzione distrettuale antimafia di Milano si sforza di capire quanto danno sia stato fatto in una terra lontana dalle realtà a profonda densità mafiosa. «La democrazia e la libertà di voto sono state violate», spiega il pm. Non è un caso, aggiunge, che si sia ricorso a un articolo poco frequentato del codice penale, «il 416 ter, che punisce chi chiede i voti alle cosche e in cambio paga».
C’ è il degrado politico e poi c’ è il disfacimento del mondo dell’ economia. «Il fatto che gli imprenditori scelgano la strada più facile, quella dell’ illegalità, invece di rivolgersi allo Stato, in un momento di grave crisi, è un dato inaccettabile», incalza. E quel che è più grave, è che anche questa volta, come in altre occasioni, «non è stata registrata nessuna denuncia». Nessuno, cioè, dei sessanta imprenditori che, come racconta l’ inchiesta, hanno subito intimidazioni, aggressioni, richieste di recupero credito da parte degli uomini dei clan, ha mai pensato di rivolgersi alle forze dell’ ordine o di presentare un esposto in procura. Commenta lo scrittore Roberto Saviano: «C’ è una connivenza continua, nel non comprendere e tacere forme notissime di condizionamento del voto e delle gare pubbliche. Nessuna ripresa economica e democratica sarà possibile se releIlda Boccassini, procuratore aggiunto di Milano ghiamo le collusioni con la mafia solo al Sud».
È così che si è ridotta la Lombardia, dove, solo tre anni fa, si discettava sull’ esistenza o meno di una criminalità organizzata paragonabile a quelle che spadroneggiano nelle regioni del Sud. Già diverse indagini avevano mostrato l’ esistenza di gruppi, per lo più calabresi – ma anche siciliani, in particolare gelesi, o campani – capaci di condizionare appalti e vita sociale in terra padana.
L’ operazione “Infinito”, poi, nel luglio del 2010, mostra la capillare presenza dei clan in un’ area fino ad allora descritta dalla retorica leghista come soggetta solo alla microcriminalità straniera: gli affiliati alla ‘ ndrangheta, rivelano le indagini, sono oltre 500, distribuiti in sedici “locali”, cellule territoriali, ognuna con il suo capo. Una nuova mafia di gente nata e cresciuta in Brianza o a Milano che però coltiva le sue radici a Locri o ad Africo. Che non disdegnai contatti con i colletti bianchi e con i politici: in ognuna delle decine di inchieste degli ultimi mesi, il riferimento ad assessori regionali, consiglieri comunali, manager pubblici o altri esponenti di primo piano della classe dirigente lombarda, per lo più targata Pdl, è costante.
Al Pirellone, tutto questo non ha mai fatto scandalo. Nessuno ha sentito il bisogno di dimettersi o di spiegare, quanto meno, le sue frequentazioni opache. Finoa ieri, quando l’ accusa di collusione ha fatto scattare, per la prima volta, le manette.
Davide Carlucci, La Repubblica