Audizione del Ministro per la cooperazione internazionale e l’integrazione, Andrea Riccardi, sulle linee programmatiche

A proposito di integrazione, la invito a riprendere l’indagine svolta dal Comitato Schengen della scorsa legislatura, il cui presidente era l’onorevole Gozi, che mostrò dei risultati molto interessanti. Per esempio, scoprimmo che la comunità filippina, sebbene sia una delle prime arrivate nel nostro Paese, soprattutto le donne, non crea tanti problemi, ma è la meno integrata nel nostro territorio, non essendo interessata a integrarsi; mandano qui le donne, che lavorano, mandano i soldi nel loro Paese e fanno studiare i figli; spesso, soprattutto nei primi anni, i maschi della famiglia li lasciavano sul territorio.

D’altronde, anche guardando agli altri Paesi europei che hanno avuto fenomeni di migrazioni importanti prima dell’Italia – parlo dell’Inghilterra e della Germania, ma oggi anche della Francia – possiamo notare che le ormai terze generazioni di immigrati, specie in Germania, sono molto poco integrate. Recentemente leggevo che oggi in Inghilterra addirittura il 54 per cento dei bambini che frequenta le scuole del livello analogo alle nostre elementari non parla l’inglese, ma prevalentemente altre lingue. Va benissimo il maestro Manzi, che, peraltro, non ricordo, non avendolo mai visto; me ne parlavano i miei genitori. Credo, insomma, che la RAI sia uno strumento indubbiamente importante per la diffusione della lingua italiana. Tuttavia, dobbiamo stare attenti perché credo che non conosciamo la realtà di cui ci stiamo occupando. Questa è la prima questione.

Nel suo intervento ci ha riportato una preoccupazione – che, del resto, condivido – perché la crisi economica lascia disoccupati molti immigrati. Credo, però, che lei lo dicesse in relazione al fatto che un immigrato regolare che rimane disoccupato ha solo sei mesi di tempo per trovare un altro lavoro, prima che gli scada il permesso di soggiorno. Anche su questo cerco sempre di attenermi alle informazioni disponibili. Alcuni dati dei primi di dicembre prodotti dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali mostrano che oggi, a fronte di 2.200.000 disoccupati in Italia, che temo aumenteranno nel 2012, sono circa 280.000 gli immigrati disoccupati, ragion per cui il Governo – quello tecnico attuale, non quello politico precedente – ha deciso di fermare il decreto flussi per 2012.

Per parte mia, mi preoccupo molto anche degli italiani disoccupati, non solo degli immigrati, per i quali ci sono delle regole precise, soprattutto se sono arrivati con il contratto di lavoro nel nostro Paese. A questo proposito, sono anche intervenuta sulla stampa – l’onorevole Bressa mi ha anche rimproverata per questo, dicendo che dalla Lega se l’aspettava, ma non da me – sulla questione della tassa sul permesso di soggiorno, che il Governo, in particolare lei e il Ministro dell’interno avete posto. Parliamo sempre di immigrati regolari, visto che hanno il permesso di soggiorno.

Ora, sempre da dati elaborati dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali dell’aprile 2010 risulta che il 77 per cento degli immigrati regolari in Italia ha un’occupazione a tempo indeterminato e che il 50 per cento ha un salario intorno ai 1.200 euro, che non è uno stipendio meraviglioso, ma oggi molti italiani hanno stipendi anche più bassi. Quando introducemmo quella tassa, con una legge votata da questo Parlamento e discussa in questa Commissione, ci ponemmo il problema di parametrare queste cifre.

I famosi 200 euro furono introdotti per il rilascio della carta di soggiorno, che è – come sappiamo tutti – il permesso di lunga durata, non quello annuale, per cui non è vero che ogni povero immigrato deve sborsare ogni anno 200 euro. Dopo sei anni di permanenza regolare, di lavoro e quant’altro, l’immigrato chiede la carta di lungo soggiorno e paga 200 euro. Siccome le procedure per il rilascio della carta sono molto complesse e articolate, chiedemmo, proprio in audizione, al ministero quali potevano essere i costi che la comunità si deve accollare per rilasciare questo tipo di documentazione. Insomma, non sparammo una cifra a caso. Decidemmo per i 200 euro perché ci sembrava una cifra parametrata che, anche alla luce dei dati che ho fornito poc’anzi, chi lavora, guadagna, è qui da tanti anni e chiede di rimanere in maniera illimitata può affrontare.

Insomma, credo sia un sacrificio sostenibile; peraltro, oggi molti italiani affrontano sacrifici per pagare utenze, bollette, tasse e anche imposte di questo tipo, come per il rilascio del passaporto o di qualche altro documento. Vorrei, quindi, che si ponesse molta attenzione su questo; la stessa che mettemmo quando facemmo questa scelta.

Inoltre, le chiedo se intende dare vita a una Commissione sull’integrazione. Tra l’altro, sono anche firmataria di una proposta di legge per condurre un’indagine parlamentare sulle donne straniere nel nostro Paese e sul loro livello di integrazione, proprio perché credo che i dati siano fondamentali.

Un altro aspetto molto interessante che lei ha sollevato è la questione della cooperazione allo sviluppo per qualificare i migranti lavoratori nel loro Paese d’origine. Anche questo tema sarebbe già stato risolto in passato, se in Italia le leggi venissero applicate. Faccio, naturalmente, un mea culpa perché, pur non essendo mai stata al governo, sono stata nella maggioranza. Mi riferisco, in particolare, all’articolo 19 della legge n. 189 del 2002, la legge Bossi-Fini e mi rivolgo anche al collega Sarubbi che si chiede come si possa chiamare in Italia un lavoratore che non si conosce, non si sa cosa sa fare e fargli un contratto di lavoro. La legge Bossi- Fini – che tutti hanno apprezzato o disprezzato sui temi della legalità e sulla questione della clandestinità – e aveva degli articoli interessantissimi in merito all’integrazione, tra cui, appunto il 19, che prevedeva un lavoro di grande coordinamento tra il Governo, gli enti locali, le regioni e anche le associazioni di categoria.

D’altronde, queste ultime sono sempre pronte a volere stranieri nel Paese, per utilizzali nelle loro imprese e poi lasciarli agli enti pubblici quando è il momento di socializzare, di integrare o di dare loro sanità e scuola, visto che hanno bisogno solo della forza lavoro. Allora, l’idea era di far lavorare le associazioni nelle proprie regioni, poi, se avessero avuto la necessità di lavoratori stranieri, sarebbero dovute andare nei Paesi d’origine, formare, qualificare, individuare e chiamare le persone. Credo che questo articolo mai attuato che sicuramente ha dei costi e degli oneri – peraltro, tutto, signor Ministro, ha dei costi e degli oneri in questo Paese – possa essere riconsiderato e rivalutato.

Viceversa, dico subito che sono contraria all’ipotesi di reintrodurre leggi sullo sponsor per far venire gente che cerca lavoro nel nostro Paese, visto che sono miseramente fallite. Difatti, quando votammo la Bossi-Fini dovemmo fare una megasanatoria per porre rimedio alla legge sullo sponsor. È inutile, quindi, ripercorrere strade già fallite in passato.

Vengo a un’altra questione. In questi mesi, signor Ministro, lei ha avuto degli incontri importanti. Ha citato Villa Literno, ma è andato in tante aree del Paese. Le chiedo, pertanto, di interessarsi anche di singoli casi drammatici di cui sono state vittime molte donne straniere, che hanno subìto dei lutti e dei delitti gravi all’interno delle loro famiglie.

Mi riferisco a donne che vivono sul territorio dalla mia regione, in Emilia-Romagna, che hanno visto uccisa la madre o la propria figlia in virtù di un fanatismo e di un fondamentalismo coltivato all’interno delle pareti domestiche; questo anche per capire se queste persone che hanno avuto la forza e il coraggio di ribellarsi di fronte a certi comportamenti si sono integrate nel nostro Paese. Si tratta, infatti, di persone che hanno dimostrato una forza e un coraggio che non sempre questo Paese ha ricambiato.

Sono molto sensibile rispetto al tema delle donne straniere nel nostro Paese perché credo che una vera integrazione delle donne – non lo dico per partigianeria – aiuti molto la comunità familiare, i figli e i mariti a integrarsi. Spesso, infatti, le donne godono di una sensibilità e di caratteristiche che possono aiutare molto in questo processo.

Chiudo con la questione della cittadinanza perché mi tocca molto. Lei ha detto che essere italiani serve per integrarsi meglio. Io le dico, invece, che essere davvero integrati serve per essere buoni italiani. Credo che su questo dovremmo confrontarci ancora, come abbiamo fatto in questi anni in Parlamento con grande serietà. Si tratta, insomma, di due principi alla base di due modi di intendere la questione. Qualcuno è convinto che la cittadinanza sia l’inizio di un processo di integrazione. Viceversa, in noi prevale l’idea che sia la fine di un processo. Sono convinta che chiedere di diventare cittadino di un Paese debba essere un atto di volontarietà, di grande libertà, di determinazione; è una scelta forte quella di staccarsi dalla propria identità e dalla propria storia per diventare cittadino di un altro Paese.

Pertanto, anche in merito a questa discussione che stiamo affrontando, soprattutto sui minori, le chiedo se non è il caso di approfondire ulteriormente l’esperienza degli altri Paesi che sono molto più avanti di noi sul tema della cittadinanza, nel senso che hanno leggi che possono sembrare più evolute, a parere di qualcuno, avendo già introdotto determinati principi come quello dello ius soli. Ministro, lei ha parlato addirittura dello ius culturae, un tema che trovo molto interessante da dibattere. Guardiamo, però, anche cosa stanno facendo gli altri Paesi, che in parte stanno rivedendo la loro legislazione.

In particolare, sui minori, ho un dubbio perché oggi in Italia ci sono tanti genitori stranieri che avrebbero già il diritto di chiedere la cittadinanza italiana, quindi di diventare italiani a tutti gli affetti, trasmettendola in questo modo anche ai loro figli, ma non lo fanno. Mi chiedo spesso – e nonostante le audizioni e le discussioni che ormai conduciamo da dieci anni non ho ancora avuto una risposta – se è giusto dare la cittadinanza italiana ai loro figli, creando una distinzione enorme all’interno del nucleo familiare, con un genitore che non ha questa volontà e che se la vede imporre da uno Stato per i suoi figli.

Ho, poi, un altro dubbio. Senza polemica, mi chiedo anche se questo Governo tecnico debba affrontare questi temi fortemente politici. Questo Parlamento ha mostrato la volontà di dar vita e di sostenere con grande lealtà e correttezza un governo per far uscire il nostro Paese da un momento di gravissima difficoltà, cosa che non ci esime, peraltro, dal continuare a discutere di questi provvedimenti, nei quali crediamo anche noi profondamente.

BEATRICE LORENZIN. Cercherò di essere sintetica sia perché l’onorevole Bertolini ha ampiamente affrontato temi che attengono alla nostra e alla mia sensibilità, sia perché abbiamo messo parecchia carne sul fuoco per il Ministro. Senza ripetere molte delle considerazioni poste dai colleghi, rispetto alle quali siamo tutti sensibili, vorrei entrare nel merito di alcune questioni per ricevere poi una risposta dal Ministro.

La prima osservazione riguarda l’ultima delle questioni che lei ha affrontato, ovvero quella della demografia. Ritengo, infatti, che le politiche della famiglia, a differenza di altre che attengono alla sua sensibilità e al suo dicastero, siano strettamente connesse alla mission di questo Governo, ovvero, da una parte, all’aggressione del debito e, dall’altra, al tema della crescita. In Italia abbiamo un serissimo problema demografico che va affrontato – tra l’altro, abbiamo sollevato la questione in molti e presso varie Commissioni – in modo estremamente aggressivo e trasversale rispetto a diverse materie.

Non credo – lo dicono i numeri – che la soluzione del problema demografico in Italia possa essere lasciato soltanto alla buona volontà di riprodursi dei nostri ospiti immigrati e futuri cittadini, anche perché le statistiche mostrano che c’è un problema culturale in Italia, per cui anche gli immigrati e gli stranieri, dopo qualche anno che risiedono nel nostro territorio, soprattutto nella seconda generazione, assumono il trend comportamentale demografico degli italiani, cioè non fanno figli.

Sono, quindi, profondamente convinta che alla base vi sia un problema che non attiene soltanto all’aspetto economico e alla carenza dei servizi, ma anche a una questione culturale. Pertanto, abbiamo bisogno di politiche forti a favore della genitorialità. Parlo di genitorialità proprio perché non si intenda solo la maternità, ma la capacità di entrambi i genitori di assumersi una responsabilità genitoriale.

La questione culturale dovrebbe probabilmente ripartire addirittura dalla scuola, ovvero da un’educazione alla genitorialità a cui si devono allegare misure economiche a favore della famiglia, come il quoziente familiare. Dico questo perché sappiamo benissimo che non faremo crescita se non riportiamo il Paese a un livello demografico accettabile. D’altra parte, anche i trend sulla sostenibilità del sistema previdenziale sono fortemente influenzati dall’andamento demografico che avremo nei prossimi trent’anni. Ecco, credo che questo punto rientri nella mission di questo Governo, rappresentando un argomento su cui potremmo trovare ampie convergenze di natura parlamentare.

La seconda domanda riguarda la cooperazione internazionale. Non entrerò nei profili sollevati dall’onorevole Bertolini, che condivido. Sono favorevole alla cooperazione internazionale, che ritengo una questione, oltre che etica, utile per dare forza ai grandi Paesi perché, laddove presenti con la cooperazione, si hanno grandi vantaggi di tipo commerciale. Difatti, i due aspetti spesso sono legati. Sappiamo che se non si è fatto molto in questo senso e spesso ciò è dovuto a un problema di fondi, visto che abbiamo avuto una restrizione enorme anche in tutto il settore degli interventi della Farnesina, quindi legati alla politica estera.

Le chiedo, allora, se ha già un’idea in proposito. Insomma, abbiamo un modello a cui riferirci? Potenzieremo la cooperazione in quei Paesi in cui ci sono interessi forti dell’Italia per rafforzare il sistema Paese oppure sono previsti interventi in modo capillare, legati più ad aspetti umanitari? Le domando questo perché ritengo che, a fronte della penuria di fondi, occorra fare delle scelte di natura strategica per la presenza dell’Italia in alcune aree geografiche e, in particolare, in alcune nazioni.

Un altro aspetto che considero interessante concerne la rappresentanza. Signor Ministro, lei parlava della rappresentanza delle comunità straniere presenti in Italia, facendo riferimento a quella cinese. Su questo punto, faccio mio tutto l’intervento dell’onorevole Bertolini. Peraltro, lei è romano come me, quindi le devo spiegare la questione dell’Esquilino, di cui tutti abbiamo contezza.

Le rivolgo, dunque, un altro appunto. Ho avuto l’esperienza personale di far parte del Consiglio comunale di Roma quando sono stati istituiti i consiglieri aggiunti. Nello specifico, ero nella commissione di controllo che ha dato vita a tutta la procedura, dalla nascita fino alle elezioni. In quel caso, abbiamo toccato con mano diversi problemi, come il fatto che le persone elette molto spesso non rappresentavano la comunità di appartenenza, ma soltanto una minima parte, oppure che la maggior parte di queste persone non sono andate a votare, o ancora che vi fossero delle forme poco democratiche di accesso all’informazione e via dicendo.

Si tratta di esperimenti realizzati che, in parte, hanno fallito, mostrando luci e ombre. Credo, quindi, che occorra trovare un modo per interagire e comprendere meglio il funzionamento di alcune comunità presenti nei nostri territori nazionali, che appaiono molto misteriose dall’esterno. Riprendendo l’intervento dell’onorevole Bertolini, penso sia assolutamente fondamentale avere a disposizione dei dati anche per avere la possibilità di legiferare né in modo ideologico, né sulla base di particolari simpatie personali.

Per quanto riguarda la questione delle quote, devo dire che sono abbastanza scettica. Sempre dai dati che ci vengono dall’economia, oggi alcune professioni che fino a ieri erano totalmente ad appannaggio delle popolazioni immigrate – penso, per esempio, ai badanti, ma anche a tutto il settore dell’edilizia – sono di nuovo fortemente appetibili per gli italiani che hanno perso lavoro. Su questo dobbiamo mostrare grande sensibilità perché siamo di fronte a guerre tra poveri.

Bisogna, quindi, portare nel nostro Paese chi veramente possiamo accogliere, fornendo servizi adeguati, senza far vivere queste persone in lager o in baraccopoli nelle nostre periferie; tutto ciò, tenendo conto – ma questo è un altro tema che lancio, sintetizzandolo al massimo – dell’emersione, in una fase di crisi come questa, di nuove fasce di povertà estrema che, come lei sa bene per la sua esperienza personale, caratterizza persone che non hanno neanche gli strumenti cognitivi o conoscitivi per riuscire a servirsi degli strumenti che lo Stato mette loro a disposizione.

EMANUELE FIANO. Ho molto apprezzato lo spessore etico dell’esposizione del Ministro. Mi auguro che sarà capace di introdurre nel dibattito pubblico su questi temi quella dimensione dell’ethos che ha citato. Circoscrivo il mio intervento a un punto unico. Siccome non c’eravamo messi d’accordo preventivamente, riprenderò un argomento affrontato dalla collega Pollastrini.

Innanzitutto, chiedo al presidente se, a prescindere dai dati preoccupanti che il Ministro ha citato sulla triplicazione degli episodi di intolleranza negli ultimi tre anni nel nostro Paese provenienti dall’Ufficio nazionale contro le discriminazioni razziali, sia possibile, in qualche forma, avere un’audizione di questo ufficio.

Signor Ministro, nelle linee programmatiche del suo Ministero, ha parlato, giustamente, di varie politiche di prevenzione di questi episodi, riferendosi in particolare alla sfida per le città. Ecco, temo che questa sia una sfida complessiva dell’occidente, che coinvolge la millenaria lotta tra sviluppo e violenza, presente persino nelle culture mitiche. Vorrei, però, soffermarmi su un punto che non riguarda l’aspetto preventivo, ma quello repressivo dell’intolleranza e della discriminazione razziale, religiosa e di genere.

Nel corpo giuridico del nostro Paese, siamo dotati della legge 24 febbraio 2006, n. 85 che, purtroppo, arrecò delle modifiche alla celebre legge Mancino del 25 giugno 1993, n. 205, derivante, appunto, dalla conversione del decreto-legge Mancino del 26 aprile 1993, n. 122. Nel 2006, verso la conclusione della legislatura, la collega onorevole Lussana della Lega Nord presentò un progetto di legge, poi approvato, per modificare alcuni articoli e commi del nostro Codice penale. Con particolare riferimento a quanto era intervenuto come modifica attraverso la legge Mancino, abbiamo visto diminuire il peso e l’efficacia di questa legge, soprattutto per la diminuzione di carattere di due parole presenti nel testo originale. Difatti, all’articolo 13 della nuova legge del 2006 i reati collegati alle idee discriminatorie e razziali diventano tali quando si fa «propaganda», non basta la loro «diffusione», come era previsto nel testo originario; né basta più l’«incitamento», ma occorre l’«istigazione».

Ora, io sono presentatore, sia nella scorsa legislatura che nella presente, di un testo di legge che riprenda i temi del testo originario della legge Mancino. Ho, però, l’impressione che di questa legge in Italia non stiamo facendo nulla. Con il testo attuale della legge, molte delle notizie da lei citate semplicemente con il nome delle città – episodi di Torino, Firenze e Roma – che spesso hanno origine sulle pagine del web, ci pongono degli interrogativi rispetto ai quali non posso dire di avere risposte certe.

Per esempio, in questo Paese è reato o meno descrivere, scrivere, citare o comunicare idee di discriminazione razziale, di genere, etnica o di lingua sulle pagine del web o sui mezzi di comunicazione? Apparentemente, per il testo attualmente in vigore nel corpo giuridico italiano, non lo è. Difatti, in quei testi non si fa propaganda, anche se queste idee si diffondono. Per esempio, «i neri andrebbero tutti uccisi» è una frase che, secondo i giuristi, non può essere perseguibile. Su questo, però, attendo la risposta sua e dei suoi uffici.

Condivido molto l’aspetto preventivo dell’azione sociale e culturale che lei ha citato e ho molto apprezzato gli interventi di tutti i colleghi che hanno toccato questi argomenti. Tuttavia, vorrei anche dire che occorre individuare un limite. Non so dove vada posta, in democrazia, l’asticella di questo limite, ma credo che la democrazia debba interrogarsi su questo. Qual è il limite che la democrazia, in ossequio a tutto ciò che la nostra Costituzione prevede, proprio a partire dall’articolo 21, deve porre al rispetto della libertà di opinione? Inoltre, vi è una domanda ineludibile rispetto alla straordinaria escalation, che lei stesso ha descritto, di questi elementi intolleranza che – come diceva la collega Pollastrini – non sono certo circoscrivibili a episodi di intolleranza razziale o religiosa, ma abbracciano molti altri temi, come quello del genere o dell’orientamento sessuale. Nell’Aula della Camera si è discusso, per esempio, della questione dell’omofobia.

Insomma, personalmente penso che questa legge vada di nuovo modificata; tuttavia, la invito a una riflessione anche sugli aspetti di punibilità penale di alcuni degli episodi che lei ha citato. Chiedo, comunque, la sua opinione in merito a questo punto, ovvero se il corpo giuridico italiano abbia strumenti sufficienti per affrontare gli episodi di intolleranza che lei stesso ha citato.

ERICA RIVOLTA. Ringrazio il Ministro della sua presenza. Vorrei intervenire segnalandole un lavoro importante che abbiamo svolto in VII Commissione con un’indagine conoscitiva sulle problematiche degli alunni stranieri, la quale ha mostrato, per esempio, che nella comunità cinese di Prato ci sia la pratica di riportare subito in patria i bambini nati in Italia per far crescere la loro identità;di conseguenza si trova poi, nelle nostre scuole, una totale ignoranza della lingua italiana, che sappiamo essere alla base di una migliore integrazione, nonché del funzionamento ottimale delle classi.

Ci sono, quindi, problematiche difficilissime, come quella della mediazione culturale, sempre all’interno delle scuole, riguardo ad alcune etnie, che diventa davvero difficilissima. Mi riferisco non solo all’etnia cinese, ma anche a quella pachistana e ad altre più difficili da reperire. Ora, proprio nelle scuole si può fare un buon lavoro, che, però, deve vedere l’ottimizzazione delle risorse. È giusto che i bambini abbiano accesso – come sancisce il diritto internazionale e non solo – all’istruzione, ma questo non deve penalizzare il risultato complessivo.

Occorre, poi, entrare nello specifico, considerando anche la difficoltà degli enti locali, che si trovano a fronteggiare nelle scuole i problemi di integrazione. Se ci sono già delle pratiche positive di integrazione, con le stesse famiglie italiane e straniere che lavorano insieme per questo obiettivo, vediamo anche che molte famiglie straniere non procedono nella direzione dell’integrazione. Per esempio, se si mantiene non solo l’uso della lingua originaria, ma anche l’abitudine di vedere la televisione, che è uno strumento importantissimo per l’integrazione, guardando solo, grazie ai satelliti, i canali in lingua, vuol dire che l’integrazione non si desidera. Lo stesso discorso vale se in un Paese in cui la legge prevede il divieto di circolare con il volto coperto, si insiste nel voler portare il burqa. Ecco, in questi casi la volontà di integrazione, magari anche dopo anni, evidentemente non c’è. Spero che da parte sua ci sia la disponibilità a condurre un buon lavoro con la VII Commissione in questo senso, cioè nel settore istruzione.

Un’ulteriore considerazione è che alla base dell’integrazione c’è il rispetto delle regole, che molto spesso manca. Certamente, non intendo complicare la questione in modo da creare fumo, ma spero che lei possa cavare, con un lavoro di sintesi, qualche «coniglio dal cilindro» per superare questi problemi.

Infine, un’ultima sollecitazione che ho molto a cuore riguarda il futuro del servizio civile che – come sa – vede l’utilizzo di volontari che costano 5.900 euro all’anno ciascuno, i quali sono utilizzati nei comuni, soprattutto nel sociale e nel welfare. Ecco, spero che questo istituto non sia abolito e che si possa, invece, insieme alle regioni, trovare una via d’uscita per valorizzarlo. Purtroppo, il sottosegretario Giovanardi, nel Governo precedente, non ha voluto procedere a questa valorizzazione; mi auguro che lei sia, per contro, sensibile all’argomento e voglia riprendere questo discorso con tutti i deputati firmatari di proposte di legge.

PRESIDENTE. Do la parola al Ministro Riccardi per la sua replica.

ANDREA RICCARDI, Ministro per la cooperazione internazionale e l’integrazione. Vi ringrazio molto dei vostri interventi e delle vostre domande. Ho imparato parecchie cose, in quanto ministro acerbo. Credo che, data la durata che questo Governo avrà, non diventerò mai un ministro maturo, quindi, nel confronto con me, dovrete accettare questa mia caratteristica.

Dico scherzando che mi è dispiaciuto di aver deluso l’onorevole Bertolini, che ha sentito opinioni e non un programma. Forse questo è un vezzo o un difetto che viene dal mio essere professore, ma anche dalle condizioni in cui sto lavorando, che sono quelle di una nuova istituzione che sta cercando di operare in stretto contatto con il Ministero dell’interno e il cui disegno complessivo di competenze è ancora in via di formazione.

Per questo, onorevole Bertolini, il meglio che ho sono opinioni con una speranza programmatica. Sono, del resto, convinto che a voi che conoscete e lavorate a fondo su questi problemi – mi rivolgo a lei, ma anche all’onorevole Sarubbi, riguardo al problema della cittadinanza, e a tanti altri – non vadano venduti libri dei sogni, ma pensieri e opportunità di qualche realistica azione, che questo Governo tecnico e questo ministro acerbo e tecnico vogliono realizzare. Per questo, onorevole Bertolini, come non posso io – professore e amante di pensieri – non aver sentito il problema della conoscenza vera della realtà dell’immigrazione? Proprio ora, uscendo dal ministero, ho chiesto ai miei collaboratori di chiedere la documentazione alla Guardia di Finanza per avere dati maggiori sulla comunità cinese, anche perché domani debbo incontrare l’ambasciatore.

Inoltre, quando parlo di rappresentanza, onorevoli Lorenzin e Rivolta, ci troviamo davanti a un fenomeno umano, qual è l’immigrazione, complesso e contraddittorio che dobbiamo affrontare da parecchi versanti. Per esempio, mi troverò a fare i conti con il problema dell’islam. Sapete benissimo come, in relazione a esso, si ponga la questione della rappresentanza. Ecco, avrei dovuto parlarvi anche di questo, ma avrei finito con il parlare proprio di opinioni perché ancora non mi è stato dato modo di toccare la materia.

Tuttavia, è mio intendimento operare per una conoscenza vera e realistica del fenomeno migratorio, che – insisto – è articolatissimo, rispetto al quale ho l’orgoglio di dire che non abbiamo bisogno di imitare nessuno. Sono d’accordo con l’onorevole Pollastrini quando dice che l’Europa ci deve sollecitare e che noi dobbiamo accettare le sollecitazioni europee. Ma noi non dobbiamo imitare né il modello tedesco, né quello inglese, né quello francese, né un multiculturalismo o un monoculturalismo; tutti modelli che hanno mostrato le loro debolezze, se non il loro fallimento. Quando si dice – come avete detto voi – che si arriva alla terza generazione e si ha una regressione all’identità comunitaria, questo dimostra il fallimento di un modello. In Italia, del resto, abbiamo una base diversa, con un’immigrazione più giovane e una realtà molto articolata di comunità, il che ci obbliga, però, a una conoscenza maggiore del fenomeno.

Riguardo alla giovane istituzione di questo ministero, sono stato interrogato – per ultimo dall’onorevole Lorenzin – sul problema della cooperazione internazionale. Chi più di me non crede che la cooperazione internazionale sia non solo un dovere, ma anche una responsabilità di un grande Paese e risponde all’interesse nazionale? Debbo dire, però, che finora le mie competenze in campo di cooperazione internazionale riguardano solo i fondi connessi al decreto sul rinnovo delle missioni italiane. Pertanto, sto riflettendo su questo.

Capite bene che disegnare un nuovo ministero che non esiste nell’ordinamento è un fatto che ha una sua complessità. Ho scelto di viaggiare, entrando in contatto diretto con il Paese, proprio per arricchirmi e assumere una percezione meno libresca della realtà delle comunità straniere. Il momento in cui operiamo – come molti hanno sottolineato, in particolare gli onorevoli Lanzillotta e Bragantini – ci vede davanti a una crisi economica, all’aumento della disoccupazione degli stranieri, all’allungamento dell’età lavorativa e via dicendo.

Dall’altra parte, ci troviamo di fronte al problema dell’integrazione degli stranieri. Non c’è il rischio di una guerra tra poveri? È un quesito che ci siamo immediatamente posti. Tuttavia, quando parlo della scadenza dei contratti o del permesso di soggiorno, ho una preoccupazione, quella di perdere uomini, donne e lavoratori che già hanno fatto un pezzo del percorso di integrazione, cosa che rappresenta una ricchezza che noi italiani abbiamo elaborato e costruito con loro. Non vorrei che questo Paese diventi un luogo di turnover, di braccianti semestrali. Vorrei, per contro, che chi vuole lavorare in Italia debba entrare nel gioco, quindi nella cultura, nell’identità e nelle regole del nostro Paese.

Dico subito che non sono un patito che brucia incenso al multiculturalismo. Sapete meglio di me come la parola «integrazione» sia stata contestata sul piano culturale. Quando mi fu chiesto se accettavo questo ministero, mi fu anche domandato se questa parola mi stava bene o mi dava fastidio. Ebbene, risposi che mi riconosco in un programma di integrazione. Pertanto, onorevole Bragantini, ho molto presente le sue considerazioni e la ringrazio di averle poste perché è sempre necessario avere presente l’intero Paese.

Quando ho preso contatto con i senegalesi, che mi hanno rivolto alcune richieste, ho detto loro – onorevole Bertolini, non sono un tipo che si straccia le vesti; con quello che costano i vestiti oggi, dovrei avere gli abiti già strappati – che non sono il tribuno degli stranieri (non volevo dire il tribuno della plebe, ma proprio degli stranieri), ma il ministro dell’integrazione degli italiani e, in questo processo, anche il loro. Pertanto, ho molto presente il discorso riguardo al momento difficile che stiamo vivendo. È un momento di grande crisi economica, per cui bisogna essere attenti e articolati. Mi chiedo, però, se abbiamo gli strumenti adatti. Questa è la mia domanda. Abbiamo gli strumenti conoscitivi adatti? Su questo versante, sto constatando con grande interesse un’estrema collaborazione da parte delle prefetture, che mi fanno affluire dati e rilevazioni e mi mettono in contatto con la problematica articolata del territorio.

L’onorevole Bressa parlava dei contratti scaduti. La mia preoccupazione maggiore – ripeto – è quella di perdere degli immigrati e dei lavoratori già integrati. Onorevole Zaccaria, rispetto agli strumenti che riguardano l’accordo e l’integrazione e tutta l’altra strumentazione, la nostra intenzione non è di intervenire modificando, ma di lavorare all’interno della normativa vigente in un’intesa quotidiana con il Ministro e il Ministero dell’interno. Questo è il punto su cui stiamo lavorando.

Vi è, poi, la questione più volte emersa del razzismo e dei diritti umani, anche all’interno della comunità, come il problema delle donne, parte debole all’interno delle diverse comunità di immigrati, ma anche vero grande vettore di integrazione. Ritengo, però, che su questo fronte abbiamo pochi strumenti, tra cui l’UNAR.

L’onorevole Fiano poneva una questione molto interessante sulla legge Mancino, che proprio da qualche giorno abbiamo ripreso in mano. Riguardo all’UNAR, vorrei si sapesse che è uno strumento autonomo e importante, il cui bilancio è, però, di soli 2 milioni, con i quali dobbiamo pagare anche il contact center che garantisce la segnalazione dei casi di intolleranza e di razzismo. Ho attratto l’attenzione dell’UNAR, anche per le mie competenze di Ministro per l’integrazione, proprio sui casi di intolleranza interni alle comunità degli immigrati, che qualche volta rischiano di ricevere una giustizia interna, cosa che non è permessa nella nostra cultura e nel nostro ordinamento.

Ringrazio, inoltre, l’onorevole Pollastrini di quanto mi ha detto. In merito a come può essere tradotto il 2013 in Italia, debbo dire, francamente, che non abbiamo ancora lavorato su questo, anche perché vediamo nel 2013 il termine del nostro lavoro. Abbiamo, però, pensato, anche grazie alla sollecitazione ricevuta dall’UNAR, di occuparci dei diritti umani delle donne e dei bambini anche all’interno delle comunità degli immigrati.

L’onorevole Sarubbi mi ha invitato a guardare la proposta di legge Bobba, ovvero l’introduzione del permesso di soggiorno per la ricerca di lavoro. È una questione molto interessante e importante. Credo che in passato ci siano state delle esperienze analoghe, non sempre felici. A ogni modo, la prenderemo in esame. Inoltre, rispetto al rinnovo dei permessi di soggiorno, ho già detto che stiamo monitorando questo aspetto con il Ministro Cancellieri. Voglio anche informarla – ma forse già ne è a conoscenza – che è già partita una sperimentazione in diversi comuni a cura del Ministero dell’interno.

Colgo anche l’occasione per ribadire che vi è l’esigenza di un’azione coesa tra noi e il Ministero dell’interno. Voglio testimoniare che ho trovato finora da parte non solo del Ministro Cancellieri, ma dell’intera struttura del Ministero dell’interno una grandissima collaborazione su questi problemi.

Vorrei toccare ora il problema della cittadinanza. Onorevole Bertolini, un governo tecnico deve affrontare questi temi. Un governo tecnico non si fa promotore di una proposta di legge su questi temi, ma un acerbo ministro tecnico, a contatto con questi problemi, ha il dovere – credo – di dire in Commissione che il discorso sulla cittadinanza dei bambini possa essere decisivo o importante per il processo di integrazione. Come lei sa, abbiamo studiato e stiamo raccogliendo ed esaminando tutte le proposte di legge in proposito. La nostra struttura di servizio è pronta a collaborare, per quello che può, per il buon esito di queste proposte.

Mi permetto di dire che non è un’accortezza politica restare sulla soglia di questo processo perché sono convinto che la questione della concessione della cittadinanza ai bambini, con le sue contraddizioni, dato che non è ancora chiarito in tutti i suoi termini, avendo anche visto le differenze che ci sono tra le diverse visioni, deve essere una questione che matura nel Parlamento e nel Paese. Difatti, ci sono dei processi che debbono maturare nella profondità della nostra gente, che il Parlamento è chiamato a interpretare, a governare e su cui è chiamato a legiferare. Credo che questo sia un tema importante e decisivo.

Dopodiché, possiamo discutere, onorevole Bertolini, a proposito della cittadinanza, se sia inizio o fine di un processo. Su questo possiamo creare delle opportune occasioni di discussione. Per parte mia, credo che non sia né la fine, né l’inizio, ma non è un sofisma. Penso che sia un meccanismo complesso, una scelta, che aiuta allo stesso tempo a fare una scelta. Insomma, lavoriamo con un fenomeno umano sensibile. Non dimentichiamo questo aspetto, per giunta in un contesto e in un momento in cui – ringrazio gli onorevoli Bragantini, Lanzillotta e altri di averlo ricordato – il Paese si fa ipersensibile a causa della crisi economica che stiamo vivendo. Spero che la fase 2, lo sviluppo e la ripresa auspicata possano portare un poco di ossigeno anche su queste tematiche.

Onorevole Rivolta, andrò a Prato, che mi sembra un punto – altro che Esquilino o San Salvario – di grande complessità, in cui si è creata una situazione alla tedesca. Credo che quella situazione vada esaminata perché non ci sono solo le comunità da esaminare, ma anche i territori.

Ritengo anche che le autorità vadano appoggiate dal Governo. Ho sentito, a livello di consiglio comunale, di presidente della provincia e della regione, che la mia presenza a Firenze in occasione dell’assassinio di tre senegalesi è stata particolarmente gradita. Difatti, questi sono momenti difficili per tutti. Nello specifico, mi segnalano da Prato particolari difficoltà. Tuttavia, onorevole Rivolta, penso sia vero che talune famiglie non vadano nel senso dell’integrazione. Del resto, conosciamo la storia dei nostri italiani in America. A questo scopo, occorre creare luoghi, percorsi e itinerari. Peraltro, proprio qualche giorno fa stavamo vedendo che il servizio civile nazionale – per rispondere alla sua sollecitazione – ha una sua importanza anche per interagire con questi fenomeni, anche se devo riconoscere che lo stiamo quasi perdendo.

Per quanto riguarda quanto rilevato dall’onorevole Bragantini, si tratta di un mio errore di lettura: intendevo dire, come risulta dalla relazione scritta consegnata alla presidenza, che i minorenni, figli di cittadini stranieri, costituiscono il 7,5 per cento della popolazione scolastica, mentre complessivamente gli stranieri oscillano tra il 7 e l’8 per cento.

In conclusione, credo di non avere colto tutte le numerose osservazioni che mi sono state rivolte, quindi, oltre

che una replica, la mia vuole essere anche un’espressione di ringraziamento e di interesse rispetto a quanto mi avete detto. Vi saranno, comunque, certamente altre occasioni di confronto e di risposte più precise da parte mia. Grazie.

PRESIDENTE. Ringrazio nuovamente il Ministro Riccardi per il suo intervento e dichiaro conclusa l’audizione.

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