Inoltre, lei faceva riferimento al 2013 come anno europeo della cittadinanza. Questa può essere un’occasione culturale di crescita collettiva per il nostro Paese e, per l’esecutivo, un atout per presentarsi come un governo che aiuta a seminare questo spirito di civismo. Mi domando, però, come l’anno europeo 2013 possa essere tradotto in Italia, se non articolando l’indicazione che proviene dall’Europa, ovvero progettando un piano d’azione straordinario di contrasto a tutte le discriminazioni. Del resto, lo stesso anno europeo sulla cittadinanza del 2013 ci richiederà proprio questo. Vi è un programma speciale di contrasto a tutte le discriminazioni – su cui immagino un coordinamento fra i vari Ministeri – di genere, di razza, di religione, di età (si veda il programma per gli anziani) e rispetto ai portatori di differente abilità, all’infanzia e all’orientamento sessuale. Il 2013, anno europeo per la cittadinanza, implica questa visione unitaria. Per questo, nella nostra sensibilità e nella sua attenzione, il tema deve essere coordinato, considerando che le discriminazioni non colpiscono mai a senso unico. Spesso, infatti, si è discriminati perché si è di un Paese diverso, di una religione diversa, perché si è una donna, con l’aspetto odioso di essere discriminati ancora di più perché si è portatori di disabilità o perché si ha un diverso orientamento sessuale. La lotta alla discriminazione non può essere, quindi, che intesa unitariamente.
Da questo punto di vista, lei stesso ricordava un ultimo aspetto, ovvero che presso il suo dicastero oggi ha sede l’UNAR (Ufficio nazionale contro il razzismo). Sempre in previsione dell’anno europeo della cittadinanza e della lotta alle sei grandi discriminazioni individuate dall’Europa, le chiedo se quest’ufficio nazionale contro il razzismo, che gode di autonomia e di fondi europei, non possa allargare la sua progettazione e la sua visione, attraverso la promozione delle campagne, l’estensione dei numeri verdi, dell’educazione civica nelle scuole, degli strumenti di prevenzione e non possa, quindi, ampliare la sua iniziativa al campo più vasto delle sei discriminazioni, assumendo una funzione maggiore che potrebbe essere molto utile per il suo obiettivo di allargamento dello spirito civico nel nostro Paese.
Quanto alla famiglia, penso che avrà occasione di venire a parlare di questo tema in questa sede. Mi permetto solo di dirle una cosa banale, che certamente sa, ovvero che il modo oggi più urgente e più utile di aiutare le famiglie è investire sul lavoro – cosa che non dipende solo dal suo ministero, bensì da un coordinamento generale – creando le condizioni per un lavoro nei diritti, in particolare, per le donne, senza il quale il nodo demografico, a cui lei ha posto molta attenzione nella sua relazione, non verrà mai risolto, persino per le immigrate, che nel nostro Paese fanno meno bambini.
ANDREA SARUBBI. Ringrazio molto il signor Ministro, dando per scontate tutte le valutazioni di ordine teorico, antropologico e sociologico che stanno dietro al suo intervento e che, naturalmente, condivido. Enuncio, quindi, per titoli alcuni problemi che sottopongo alla sua attenzione.
Signor Ministro, io non ho l’ambizione, né l’ho avuta dall’inizio della legislatura, di avere la stessa impostazione antropologica dei colleghi del mio stesso o di altri gruppi politici. La mia ambizione è quella di trovare un accordo su alcuni punti che possono vederci lavorare insieme e credo che la questione della cittadinanza, soprattutto per i minori, possa essere uno di questi. Tuttavia, prima ancora, vi sono altre cose che vorrei chiederle per capire come il Governo intende orientarsi.
Penso, per esempio, alla difficoltà «pazzesca» di rinnovo dei permessi di soggiorno e ai tempi folli della burocrazia in Italia. Questo non dipende dal Parlamento. Sono contento che lei venga qui, affermandosi di rimettersi al nostro lavoro. Ciò nonostante, se un immigrato arriva con il permesso di soggiorno scaduto all’atto del rinnovo, questo non è certamente un problema che può essere risolto dal Parlamento. L’anno scorso, quando stavamo esaminando le proposte di legge sulla cittadinanza in termini più generali, la relatrice, onorevole Bertolini, a un certo punto affermò che si poteva provare a fissare, in qualche modo, il periodo dei 10 anni, come termine perentorio, ma non siamo riusciti però, a trovare una formula; questo per dire che il Parlamento può provare a risolvere il problema, ma poi la burocrazia è un capitolo a parte.
Allora, il primo quesito che le pongo è che cosa intende fare il Governo per il problema del rinnovo dei permessi di soggiorno. Ci sono dei comuni – ne ho sentiti diversi – che sarebbero disponibili a occuparsi del rinnovo del permesso di soggiorno, sollevando il ministero. Naturalmente, però, chiedono risorse aggiuntive. Non tutti i comuni farebbero salti di gioia. Forse si potrebbe sentire l’ANCI. Molti sarebbero, comunque, disponibili. Certamente, rendere l’atto meno poliziesco e più amministrativo potrebbe essere una soluzione anche per gli immigrati.
Signor Ministro, lei faceva l’esempio di chi viene qui, perde il lavoro e ha difficoltà. Le faccio un esempio ancora più semplice, quello della mia collaboratrice familiare filippina. Ebbene, per assumerla avrei dovuto far finta di chiamarla dalle Filippine. Mi autodenuncio.
PRESIDENTE. Onorevole Sarubbi, le ricordo che la seduta è registrata.
ANDREA SARUBBI. Mi autodenuncio in senso civile, perché nel mio caso si trattava di una persona che era già nel nostro Paese, fortunatamente, per ricongiungimento familiare. Dico questo perché non è un criterio che si possa utilizzare quello di conoscere una persona e di chiamarla nel suo Paese. Noi conosciamo chi è qui perché abbiamo avuto modo di metterlo alla prova, vedendo, per esempio, se sa stirare una camicia o se sa stare con i bambini. Come può una persona dimostrare di saper stare con i bambini, se non può entrare nel territorio?
A questo proposito, esiste una proposta di legge – la n. 1843, di cui è primo firmatario onorevole Bobba, a cui hanno aderito anche altri deputati, tra cui anche qualche esponente del Gruppo dell’Unione di Centro – che prevede l’introduzione di un permesso di soggiorno per ricerca di lavoro. È una proposta che ha scritto materialmente l’onorevole Bobba insieme ad alcuni esperti delle ACLI (Associazioni cristiane dei lavoratori italiani) che contempla la possibilità di arrivare in Italia dietro presentazione di una fideiussione di uno sponsor; in base al periodo che si intende restare in Italia, vi deve essere una copertura finanziaria e una residenza adeguate; nel periodo in cui la persona sta in Italia, vi è la possibilità di risiedere nel nostro Paese con la motivazione di ricerca di lavoro per tre o sei mesi, fino a dodici. Questa potrebbe essere una possibilità, anche se non è l’unica.
Tito Boeri, nel suo intervento sulla Repubblica di due giorni fa, affrontava un altro nodo. Ammettiamo che una persona faccia il dottorato in Italia. Occorre premettere che ci sono diversi problemi circa il riconoscimento dei titoli di studio professionali ottenuti all’estero. A ogni modo, una persona viene in Italia, studia e fa il dottorato. Ha un permesso di soggiorno che spesso non vale neppure per tutta la durata del dottorato, dovendo rinnovarlo più volte. Finisce il dottorato. Cosa fa dopo? È venuta qui, ha studiato, l’Italia ha investito su di lei e si ritrova senza lavoro. L’ipotesi è che o trova lavoro durante il dottorato – caso nel quale sarebbe un fenomeno perché non lo trovano neanche gli italiani – oppure se ne ritorna a casa con un dottorato ottenuto in Italia. Insomma, è strano per un Paese investire su qualcuno e poi, dopo averlo formato, mandarlo via.
Ecco, questo accade normalmente a tutti i ragazzi nelle nostre università. Difatti, è vero che fino a 18 anni sono tutelati, ma è pur vero che la finestrina tra 18 e 19 anni per chiedere la cittadinanza è ballerina, essendo abbastanza piccola e richiedendo dei requisiti spesso difficili. Nonostante vi siano delle circolari del Ministero dell’interno che dovrebbero aiutare, in realtà è molto difficile che una persona abbia una residenza continuativa in Italia dalla nascita fino al diciottesimo anno perché le famiglie si muovono spesso e i ragazzi con loro.
Signor Ministro, le sembra normale che un ragazzo che ha studiato al liceo classico e poi ha fatto legge all’università, dopo essersi laureato non può fare il concorso per diventare magistrato o avvocato; insomma, non può fare un concorso pubblico perché non è cittadino italiano. Formiamo ragazzi nel nostro Paese, rendendoli idonei per qualsiasi professione, ma poi diciamo loro che non possono fare quella professione. Il discorso della cittadinanza non riguarda solo l’identità nazionale, ma ha anche risvolti pratici. Infatti, chi non è cittadino italiano non può fare il bidello, né l’insegnante, né il tranviere, né il vigile del fuoco e così via.
Al di là delle consonanze teoriche, vorrei portare questo discorso anche su alcuni temi pratici. Vi è, infatti, anche la questione, forse meno importante, della cittadinanza sportiva. È uscito in questi giorni un articolo, sempre sulla Repubblica, che pone il problema serio di alcuni bambini che si ritrovano impossibilitati a fare calcio o altri sport a livello preagonistico o tesserati con i cartellini perché non sono cittadini italiani, esistendo una norma della FIFA (Fédération Internationale de Football Association) contro la tratta dei bambini. Sono cose che capitano a ragazzi che sono italiani di fatto, ma purtroppo non di nome.
Vorrei porle ancora qualche domanda. Sempre sulla cittadinanza, vorrei dire che è vero che in questo momento noi italiani siamo fuori dall’Europa con le nostre norme. Eppure, i ragazzi presenti in Italia e nati qui costituiscono la settima città italiana. Lei citava un dato che conosco a memoria: sono 572.000 i ragazzi nati e cresciuti in Italia, che sono la settima città italiana, dopo Roma, Milano, Napoli, Torino, Genova e Palermo, prima di Firenze e di Bologna. Il problema è che non vivono insieme nella stessa città, quindi non fanno notizia. D’altronde, come diceva lei a proposito dei ragazzi ucraini, quando il padre li invita alla manifestazione degli immigrati del 1o marzo, rispondono che immigrato sarà lui, dato che essi non si sentono tali.
È, però, anche vero quello che più volte sento ripetere dal centrodestra e che non sottovaluto; infatti, non è forse il caso di pensare anche a delle politiche – per quanto la cittadinanza sia il tema più nazionale di tutti – meno in contrasto e più armonizzate con l’Europa? Non so come si possa fare. Per mia fortuna, il ministro è lei, quindi posso chiederglielo. Per esempio, se un soggetto proviene dall’America latina, in due anni diventa cittadino spagnolo, vale a dire cittadino europeo, quindi si può spostare e così via. Ora le chiedo se, in sede comunitaria, è possibile avviare una riflessione non per fissare un’unica norma sovranazionale sulla cittadinanza, bensì per armonizzare maggiormente le legislazioni esistenti.
Vengo a un’ultima richiesta. Signor Ministro, le chiedo, se può, di dare un’occhiata al resoconto dell’Assemblea della seduta di martedì 22 dicembre 2009. In quell’occasione si parlò di cittadinanza, ed è l’unico caso, in questa legislatura, in cui si è discusso in Aula di questo argomento. Intervennero 37 deputati, di cui 28 – pur con sfumature diverse – si dissero favorevoli alla cittadinanza per i minori, cioè per i figli degli immigrati. Naturalmente, le sfumature erano e resteranno diverse. Le ho citato questi dati perché vorrei darle manforte e affermare che questo lavoro non è impossibile, se lo si vuole davvero.
ISABELLA BERTOLINI. Ringrazio il Ministro di quello che ha detto nella sua relazione e anche della disponibilità al dialogo con il Parlamento. In tutta sincerità, devo, però, dire che oggi, più che un programma, ho sentito, signor Ministro, le sue opinioni, cioè la sua visione sulla questione dell’immigrazione e dell’integrazione. Si tratta di temi di grande attualità e importanza; tuttavia, non ho sentito un programma dettagliato rispetto alle azioni che vuole mettere in campo.
Parto da una prima questione. Credo che gli ultimi fatti accaduti a Roma nei giorni scorsi dimostrino che sia sempre più fondamentale per noi avere una conoscenza vera del livello di integrazione degli stranieri nel nostro Paese. Questo è un tema che ho sollevato molte volte in varie occasioni. In un’altra legislatura ho fatto parte del Comitato parlamentare di controllo dell’attuazione dell’accordo di Schengen,;in quella sede avevamo svolto un’indagine conoscitiva, che non era naturalmente esaustiva.
Ancora oggi in questo Paese continuiamo a parlare, ragionare, discutere e spesso legiferare sulle questioni dell’immigrazione, attingendo le informazioni da atti delle fondazioni, della Caritas o di altre autorevoli fonti, ma non da dati elaborati a livello istituzionale, cioè governativo. Visto anche il titolo del suo ministero – è la prima volta che abbiamo un ministero con queste competenze – mi aspettavo, come primo punto, che volesse dar vita a una seria indagine sul livello di integrazione delle varie comunità nel nostro Paese, anche se capisco che è un lavoro complesso.
Riguardo alla notizia dell’altro giorno, al di là dell’efferatezza del reato, che tutti condanniamo, vorrei dire che mi infastidisce questo stracciarsi le vesti, come è successo anche per l’omicidio dei senegalesi. È naturale che di fronte alla ferocia di un reato ci sia rispetto e dolore – in questo caso, poi, è coinvolta una bambina di dieci mesi, quindi credo che la tragedia sia enorme – ma, purtroppo, ci sono tanti altri fatti di sangue nel nostro Paese per i quali non ho visto nessuno stracciarsi le vesti.
In ogni caso, in alcuni articoli di stampa sono usciti dei dati molto inquietanti sulla comunità cinese, che non sono stati smentiti. Io, da cittadina prima che da parlamentare, li prendo per buoni. Mi riferisco ai dati sulle movimentazioni economiche della comunità cinese nel nostro Paese, in particolare a Roma. Quando ci dicono che ogni anno ciascun membro della comunità cinese presente sul territorio romano trasferisce, in media, 70.000 euro nel suo Paese, resto allibita. La fonte è la Guardia di Finanza, verso la quale nutro il massimo rispetto per i dati che fornisce, quindi, per me, sono veri. Mi chiedo, allora, cosa c’è dietro a questo mondo. Come parlamentare, chiedo a lei, come Ministro dell’integrazione, se sa cosa c’è dietro e come funziona e si muove questa comunità.
Secondo me, occorre avere un quadro della situazione prima di prendere dei provvedimenti e di legiferare, magari sull’onda della demagogia. Del resto, siamo un Paese che si fa trascinare; per esempio, prima dell’audizione in questa Commissione si è affrontato il tema dell’abolizione delle province e qualcuno domandava se le dobbiamo abolire perché lo vogliono Stella e Rizzo del Corriere della sera o perché, effettivamente, non servono più. Non vorrei, quindi, che anche riguardo alla cittadinanza ai bambini la si volesse concedere perché ormai tutti lo dicono e non perché sia una questione importante. Questa non vuole essere una polemica, ma solo una riflessione.