Per dirla in termini chiari, è quasi sempre prevedibile – ed è quasi sempre avvenuto – che anche procedure identificate e concordate siano poi messe in discussione dall’autorità giudiziaria, che in base alla legge può interpretare in maniera discrezionale gli obiettivi di risanamento precedentemente indicati. Abbiamo bisogno di intervenire su questo tema sicuramente di tenore ambientale, ma anche rilevante per lo sviluppo. Importanti aree delle nostre città sono, infatti, vincolate dalla gestione della normativa delle bonifiche. A mio avviso, tale normativa dovrebbe essere riportata nell’ambito delle norme europee e delle gestioni che normalmente avvengono negli altri Paesi europei.
Altra questione che abbiamo in calendario e sulla quale stiamo già lavorando riguarda, invece, il completamento del pacchetto degli incentivi per le fonti rinnovabili. Come sapete, il decreto legislativo n. 28 del 2011, che ha recepito la direttiva europea sulle fonti rinnovabili, è stato perfezionato soltanto in relazione al fotovoltaico con l’emanazione del cosiddetto «Quarto conto energia», risultato di un faticosissimo processo.
Dobbiamo affrontare la tematica di tutte le altre fonti rinnovabili regolamentate, a cominciare delle biomasse e dai biocombustibili, tenendo conto che dobbiamo assicurare, da un lato, la massima utilizzazione di queste fonti e, dall’altro, il rispetto degli usi bilanciati del territorio. Per esempio, dobbiamo cercare di evitare che l’utilizzazione delle biomasse, e in particolare del biogas, per la produzione di elettricità determini una competizione tra la produzione di energia e le produzioni agricole.
Dobbiamo cercare di potenziare, nell’ambito delle misure incentivanti, quelle tecnologie che rappresentano la sfida sul fronte dell’innovazione tecnologica e che consentirebbero all’Italia di giocare una partita importante, in particolare per quanto riguarda la filiera dei biocombustibili connessa alla «chimica verde», cioè alla sostituzione della matrice da olio della petrolchimica tradizionale con una matrice biologica.
Su questo in Italia abbiamo competenza e abbiamo anche disponibilità di investimenti privati. Dobbiamo essere in condizione di facilitare queste soluzioni. Io, per esempio, sono molto preoccupato del ritardo con il quale si muove l’accordo di Porto Torres fra ENI e Novamont per sostituire la matrice biologica, almeno in parte, alla matrice tradizionale. Esistono possibilità interessanti anche a Porto Marghera per cambiare la struttura di quel che rimane della produzione petrolchimica con matrice biologica. Questo vuol dire valorizzare le fonti rinnovabili in processi produttivi diversi dalla generazione di elettricità.
Tecnologicamente, però, queste filiere sono abbastanza simili. La produzione di bioetanolo di seconda e di terza generazione si associa strettamente alla filiera della «chimica verde» per le produzioni chimiche. Spero che, all’interno dei provvedimenti che stiamo preparando e che miriamo a finalizzare entro la metà del mese di dicembre, siano possibili forme di incentivazione a favore di investimenti che consolidino in Italia una capacità di produzione innovativa in questa area delle fonti rinnovabili.
Questa, del resto, è un’esigenza che abbiamo anche per il fotovoltaico. La grande difficoltà che abbiamo avuto nell’emanazione del «Quarto conto energia» nasce, anzitutto, dalla richiesta di chi ha avuto grandi vantaggi economici dall’importazione di moduli fotovoltaici grazie allo schema degli incentivi adottato nel 2007, che in larga misura ha portato vantaggi prevalenti a chi esportava in Italia i moduli fotovoltaici. La stima è che l’85 per cento degli incentivi applicati nel nostro Paese vada a vantaggio di imprese localizzate al di fuori dell’Italia e che il 15 per cento di questi vantaggi sia attribuito a imprese attive prevalentemente nel settore dell’assemblaggio e del montaggio.
È una situazione assolutamente negativa per l’economia italiana. Nel completamento del pacchetto stiamo cercando di prevedere misure incentivanti che rafforzino la capacità di investimento in Italia nei segmenti innovativi anche del solare. Oggi nel mondo le più grandi compagnie internazionali e i più importanti fondi di investimento stanno puntando sullo sviluppo di nuove tecnologie e del solare ad alta efficienza.
Il modulo fotovoltaico ha attualmente un’efficienza più o meno del 12 per cento. Teoricamente ci sarebbe un 88 per cento di energia solare ancora da utilizzare. Se riuscissimo a fare il salto tecnologico che ci consentisse almeno di raddoppiare l’efficienza – ci sono ricerche avanzate che parlano di miglioramenti addirittura fino al 40 per cento -, avremmo creato una rivoluzione tecnologica paragonabile a quella avvenuta con i telefonini nel sistema della comunicazione, dove improvvisamente, da un sistema di comunicazioni tarato su reti fisse e sull’elettronica legata alla meccanica, abbiamo assistito a un salto di qualità tale da consentire di interconnettere a livello globale le persone e di far girare le informazioni in un modo che non era immaginabile fino a qualche anno prima.
È prevedibile che lo stesso avvenga anche nel settore delle tecnologie per le fonti rinnovabili, in particolare nel solare ed è assurdo che l’Italia non sia presente nella ricerca in questi segmenti avanzati. Dobbiamo, pertanto, fare in modo che gli incentivi per le fonti rinnovabili siano legati a questo obiettivo.
L’ultima cosa di cui voglio parlarvi è la Conferenza mondiale di Durban. I problemi che saranno sul tavolo a Durban sono gli stessi che avevamo a Copenaghen, con qualcuno di più. A Copenaghen l’attesa era far convergere le politiche energetiche e le politiche industriali globali con gli obiettivi ambientali di riduzione dell’emissione di carbonio in atmosfera. Come sapete, la riduzione delle emissioni di carbonio è strettamente connessa alla riduzione dell’uso dei combustibili fossili, che sono la sorgente emissiva. Questo vuol dire avviare il cambiamento del sistema energetico globale.
A livello globale, la domanda di energia mondiale continua a crescere, nonostante la crisi, a causa della crescita delle economie emergenti (Cina, India, Sudafrica, Brasile, Indonesia, Messico). Questa domanda di energia crescente determina un aumento del consumo di combustibili fossili, che rimangono la matrice energetica di base, del carbone in primo luogo, dell’olio, soprattutto legato al trasporto, e del gas naturale.
Secondo le proiezioni dell’Agenzia internazionale dell’energia, in base a uno schema business as usual, l’aumento della domanda e dei consumi globali di energia nei prossimi vent’anni determinerà quasi sicuramente il raddoppio delle emissioni di carbonio rispetto ai livelli del 1990. Invece, gli scenari climatici e gli obiettivi adottati dalla Conferenza sul clima e ripetutamente dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite, dal ultimo nel settembre scorso, dicono che entro la metà del secolo le emissioni di anidride carbonica dovranno essere ridotte del 50 per cento rispetto al 1990, in modo da ridurre la concentrazione in atmosfera di anidride carbonica e perciò ridurre il correlato aumento di temperatura.
È assolutamente chiaro che c’è una divergenza quasi simmetrica tra l’aumento tendenziale delle emissioni legato al consumo di combustibili fossili e l’obiettivo di riduzione delle medesime emissioni. Secondo il rapporto pubblicato lo scorso mese di ottobre dall’Agenzia internazionale dell’energia, che, come sapete, non è un’associazione ambientalista, bensì è stata istituita dai Paesi industrializzati per armonizzare le politiche energetiche globali, dovremmo ridurre a livello mondiale l’uso dei combustibili fossili dall’85 per cento attuale a circa il 40 per cento, cioè più della metà.
Tenendo conto dell’aumento dalla domanda di energia, questo dovrebbe essere realizzato attraverso l’efficienza energetica – il modello dell’automobile vale per tutti: vent’anni fa un’automobile aveva bisogno di quindici litri per fare cento chilometri, mentre oggi ne ha bisogno di cinque -, l’aumento delle fonti rinnovabili, che dovrebbero arrivare a circa il 35 per cento del portafoglio energetico globale, l’utilizzazione della tecnologia carbon capture and storage, cioè l’assorbimento delle emissioni di carbonio e lo stoccaggio in siti geologici sicuri, per consentire soprattutto ai Paesi che dipendono dal carbone, come Cina, India e Sudafrica, di utilizzare il carbone senza emettere CO2.
Questo vuol dire riorientare gli investimenti globali per l’aumento dell’offerta di energia dai combustibili fossili verso queste tecnologie. C’è un piccolo ruolo anche per il nucleare in questo scenario, ma credo, purtroppo, che sarà ulteriormente ridotto perché l’incidente in Giappone ha limitato drasticamente i programmi di investimento sul nucleare. Probabilmente potremmo avere delle sorprese positive dalla ricerca avanzata sul cosiddetto «nucleare di quarta generazione», ma lo vedremo quando sarà disponibile. Oggi non siamo in grado di dirlo. Il nucleare può avere ancora un ruolo, ma un ruolo stimato attorno al 7 per cento del portafoglio energetico globale.
Spostare, dunque, gli investimenti dai combustibili fossili alle altre fonti non è un’operazione semplice, anche perché in corso ci sono investimenti importanti di tutte le più grandi compagnie per l’esplorazione e l’estrazione dell’olio in zone marginali. Mi riferisco all’Artico, a quanto successo nel Golfo del Messico, un altro sito marginale in termini di estrazione dell’olio, all’Atlantico di fronte a Rio de Janeiro, al Mediterraneo e ai progetti di estrazione di olio ad altissima profondità di fronte alla Libia, al Kazakistan e al Caspio.
Tali investimenti in corso sono dell’ordine di migliaia di miliardi di dollari e sono investimenti di lungo periodo che condizioneranno il sistema energetico dei prossimi quarant’anni e non è realistico immaginare che un accordo internazionale sul clima possa cambiare la direzione di questi investimenti. E, allora, il nodo di Durban, che è lo stesso di Copenaghen, è esattamente la possibilità di far convergere a livello globale gli obiettivi ambientali di riduzione delle emissioni, che tutti dichiarano di condividere, nessuno escluso, con un accordo globale sulle tecnologie e sui sistemi energetici.
Alcuni segnali positivi provengono soprattutto dai Paesi che hanno meno risorse petrolifere e gassose, in particolare Cina e India, che stanno investendo moltissimo nelle fonti rinnovabili. Gli investimenti della Cina nel 2010 sono stati di 50 miliardi di dollari contro i 17 degli Stati Uniti. Siccome queste sono le economie emergenti, traino dell’economia mondiale, è probabile che da loro venga uno stimolo a direzionare gli investimenti futuri verso tecnologie energetiche a minore contenuto di carbonio. La situazione attuale, tuttavia, non ci consente di dire che siamo alla vigilia di un accordo in grado di unire queste due problematiche.
Accanto a questo, abbiamo la questione del Protocollo di Kyoto, che terminerà alla fine del 2012. Come sapete, oggi il protocollo di Kyoto copre meno del 15 per cento delle emissioni globali e, tra l’altro, il Canada ha deciso di sfilarsi perché non vuole correre il rischio di pagare le sanzioni nel caso in cui non riuscisse a raggiungere l’obiettivo che ha sottoscritto. Gli Stati Uniti hanno già rinunciato nel 2000 a continuare il loro impegno nell’attuazione del Protocollo. Il Giappone e la Russia hanno dichiarato che non intendono proseguire il loro impegno alla fine del 2012.
A questo punto la situazione è chiara: le prospettive del Protocollo di Kyoto sono molto scarse. Può rimanere un punto di riferimento per cercare di costruire un accordo globale, ma probabilmente lo schema che gli europei si erano illusi di poter applicare e riportare nel Protocollo di Kyoto 2, cioè il nostro «20-20-20», che in effetti intreccia politiche energetiche e obiettivi ambientali, non è condiviso dagli altri Paesi. In particolare, il più grande oppositore sono gli Stati Uniti.
Il Presidente Obama aveva promulgato una legge, poi adottata dalla Camera dei rappresentanti, che introduceva negli Stati Uniti un sistema simile a quello europeo, ma il Senato, a maggioranza democratica, non ha voluto ratificarla. Gli Stati Uniti, quindi, in questo momento non hanno nessuna norma che preveda la riduzione obbligatoria delle emissioni di carbonio.
In questa prospettiva, credo che debbano essere colti tutti i segnali positivi che provengono soprattutto dalle grandi imprese multinazionali, molte delle quali non energetiche, che puntano a realizzare processi produttivi e sistemi di distribuzione dei prodotti a basso contenuto di carbonio. Esse utilizzano tecnologie che sono già disponibili e in alcuni casi partecipano alla ricerca e allo sviluppo di tecnologie nuove. L’Unione europea può essere la piattaforma di questo processo perché rappresenta il mercato più importante e integrato a livello mondiale, un mercato nel quale queste tecnologie hanno un ruolo importante già oggi grazie alle politiche adottate dall’Unione stessa e dai singoli Stati membri.
Una possibilità, quindi, è quella di sostenere un partenariato tecnologico forte tra l’Unione europea e le altre grandi economie per sostenere almeno lo sviluppo di processi innovativi nei settori più importanti dal punto di vista delle emissioni, a cominciare da quelli energetici. È confortante a questo proposito il fatto che l’Italia, grazie al nostro lavoro più che decennale in Cina, è oggi il titolare della piattaforma sino-europea, con base a Pechino, per lo scambio delle informazioni e delle tecnologie in campo energetico finalizzato alla riduzione delle emissioni di carbonio.
Cercheremo di portare questa esperienza a un livello più elevato e la presenteremo anche a Durban in un evento congiunto fra Italia e Cina. La stessa operazione stiamo cominciando a farla con il Brasile, altro Paese importantissimo oggi nello scenario energetico globale, soprattutto per il ruolo che riveste nel campo dei biocombustibili.
In definitiva, senza uscire dai canoni stabiliti dall’Unione europea, che condividiamo, abbiamo però bisogno di cercare qualcosa di nuovo per evitare di ripeterci obiettivi che a parole condividiamo tutti, sapendo però che probabilmente stiamo facendo una riunione per evitare una guerra perché, come si diceva una volta, finché ci si parla non ci si fa la guerra.
PRESIDENTE. Grazie, Ministro.
Abbiamo ormai pochissimo tempo, considerato che sono previste imminenti votazioni in Assemblea, e non so neanche se i suoi impegni, signor Ministro, le permettono di trattenersi per rispondere alle domande dei commissari.
CORRADO CLINI, Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare. Rimanderei a un successivo incontro dopo la Conferenza di Durban.
PRESIDENTE. D’accordo. D’intesa con il Ministro, potremmo rinviare alla settimana dal 12 al 16 dicembre prossimi gli interventi dei deputati e la replica del Ministro stesso.
Non essendovi obiezioni, rinvio il seguito dell’audizione ad altra seduta.