In generale questo è un dato di buongoverno, perché in questo modo si vuole evitare che fondi destinati alle emergenze vengano usati per altro. È sacrosanto, dunque, ma è altrettanto vero che le norme dovrebbero rendere possibili le iniziative alle quali sono finalizzate. È assolutamente difficile immaginare che l’autorità competente, sia essa il comune o lo stesso Dipartimento della Protezione civile, a fronte dell’emergenza di intervenire, ad esempio, per liberare le strade coperte dal fango o il corso dei fiumi, debba chiedere il parere preventivo alla Corte dei conti. Il tempo che passa tra l’esigenza di intervenire e la risposta dalla Corte dei conti, per quanto rapida, può essere molto pericoloso, se siamo in condizioni di emergenza.
Una prima indicazione è, quindi, quella di superare questo vincolo, immaginando che non venga applicato almeno per le prime due settimane a partire dalla data dell’evento calamitoso, fermo restando che le spese sostenute dovranno essere documentate e certificate.
Il secondo intervento al quale stiamo lavorando è quello di dare continuità al fondo per la Protezione civile, facendolo diventare anche un fondo per la prevenzione. Su questo abbiamo lavorato insieme al Capo della Protezione civile, il prefetto Gabrielli, e l’ipotesi è quella di dare continuità a una norma già in vigore, ancorché temporanea, quale il prelievo di 2 centesimi sull’accisa per i carburanti, per finanziare il fondo e far sì che questo prelievo sia destinato in parte al fondo per le emergenze e in parte ad un fondo per la prevenzione da istituire presso il Ministero dell’ambiente.
Il problema vero non è dove si mettono i soldi, ma qual è la finalità delle risorse. Occorre, cioè, creare una capacità di investimento pubblico per la prevenzione del rischio idrogeologico che sia sostenuta da un’entrata stabile e sicura e che non sia assoggettata, come è avvenuto con l’ultima legge di stabilità, ai tagli che hanno quasi azzerato, per esempio, il fondo esistente presso il Ministero dell’ambiente per la prevenzione del dissesto idrogeologico.
Stiamo poi lavorando su altre due ipotesi. La prima è quella di dar vita a un fondo rotativo, finalizzato alla prevenzione del rischio idrogeologico, a favore di imprese private o di soggetti privati, attraverso l’erogazione di crediti a basso tasso di interesse che consentano di finanziare interventi presumibilmente in grado di ripagare l’investimento iniziale, non soltanto perché sarebbe messo in sicurezza il territorio, ma anche perché consentirebbero, per esempio, la continuità in sicurezza di attività produttive in siti vulnerabili.
L’altro strumento potrebbe essere quello del credito d’imposta per investimenti in queste aree a favore di quei titolari della proprietà delle aree stesse che intendano realizzare opere con un effetto positivo sulla sicurezza dei suoli, immaginando che in entrambi i casi i proprietari di aree o di insediamenti che insistono in zone vulnerabili abbiano un interesse diretto a rafforzare le misure di prevenzione e a prevenire i rischi dei danni che altrimenti, come abbiamo visto, si verificano.
Un ultimo aspetto riguarda le questioni, in parte collegate, dei condoni edilizi, da un lato, e della delocalizzazione degli insediamenti non recuperabili dal punto di vista del rischio, dall’altro. L’analisi storica degli eventi mette in evidenza che in molti casi i danni sono maggiori laddove sono stati autorizzati con il condono edilizio insediamenti che non avrebbero dovuto essere autorizzati. Spesso, infatti, questi insediamenti si collocano in zone non servite e non infrastrutturate, che, per esempio, non dispongono nemmeno delle misure minime di sicurezza per la gestione del deflusso delle acque.
D’altra parte, come dimostra l’esperienza di Genova, vi sono insediamenti sicuramente esposti a rischi molto elevati che richiedono misure di prevenzione più drastica. Qualcuno ha detto che vogliamo proporre l’evacuazione delle zone a rischio. Questo evidentemente non è il caso. Si tratta, però, attraverso un miglioramento della mappa della vulnerabilità, di identificare quelle situazioni che il linea di massima non sono sostenibili a fronte di eventi estremi. E, allora, piuttosto che trovarci nella situazione in cui ci troviamo ripetutamente quando contiamo i morti, probabilmente è meglio eliminare il rischio.
Credo che questo sia un argomento molto delicato perché impatta su situazioni e abitudini consolidate, ma dobbiamo anche capire che quanto sta avvenendo dal punto di vista climatico non fa parte delle abitudini e che perciò dobbiamo fronteggiare situazioni nuove con misure nuove.
L’altra situazione che stiamo cercando di affrontare è la cosiddetta «emergenza rifiuti», sapendo che, oltre alla Campania, vi sono altre regioni a rischio, dalla Calabria al Lazio. Stiamo cercando, se possibile, da tecnici, un modo ordinato e razionale per affrontare queste tematiche. Io sarò a Napoli sabato per incontrare il sindaco, il presidente della regione e il presidente della provincia.
La situazione di Napoli è di nuovo al limite e credo che forse valga la pena cominciare a ragionare mettendo in fila le opzioni tecnologiche e organizzative per la gestione dei rifiuti che sono già applicate con successo in altre regioni italiane (oltre che in Paesi esteri che oggi sono i luogo di destinazione finale del trasporto dei rifiuti) e partendo dal presupposto che, se esistono soluzioni o azioni funzionanti, già sperimentate e con risultati consolidati in termini ambientali, non ci possono essere ragioni speciali che consentano ad alcune regioni o comuni di mettere in discussione l’efficacia di queste soluzioni tecnologiche.
Capisco che sia un lavoro difficile, ma credo che sia l’unico modo per fare almeno chiarezza e distinguere le obiezioni di carattere tecnologico e ambientale dalle obiezioni di carattere politico, che sono cosa diversa. È importante che questo doppio pacchetto di reazioni venga considerato per quello che è.
Credo che nelle regioni in emergenza o vicine all’emergenza la misura più rapida e più efficace sia sicuramente quella di dare vita in maniera urgente alla raccolta differenziata dei rifiuti finalizzata al loro recupero. La raccolta differenziata che porta i rifiuti differenziati nella stessa discarica è ridicola, oltre che comportare un costo aggiuntivo enorme per la popolazione. La raccolta differenziata che si lega a un ciclo economico per il riciclo e il recupero dei rifiuti è, invece, assolutamente utile e ha anche vantaggi economici per chi oggi la pratica.
Non è molto difficile dal punto di vista tecnico e organizzativo, ma potrebbe essere reso difficile dalle circostanze ambientali, a cominciare dal ruolo dalla malavita organizzata. Me se questo è il problema, allora dobbiamo capire che non abbiamo soluzioni negoziabili. Dobbiamo adottare soluzioni eccezionali. Non escludo che possa essere richiesto il contributo delle forze dell’ordine e dell’esercito per affrontare la questione, qualora ci trovassimo di nuovo in situazioni come quelle di Napoli, dove due giorni fa c’è stato uno sciopero degli addetti alla raccolta dei rifiuti che ha prodotto gli effetti che ha prodotto. Dobbiamo essere molto tranquilli e guardare le cose in faccia per capire a chi convenga e quali siano gli effetti di una situazione di questo tipo.
Non credo che servano norme particolari da applicare. La normativa c’è. Qui si tratta proprio di mettere in piedi organizzazioni e gestioni. Con lo stesso approccio bisogna affrontare il tema delle discariche e degli inceneritori o termovalorizzatori, sapendo che si tratta di soluzioni tecnologiche consolidate che consentono di risolvere il problema e di gestirlo in maniera efficace ed anche economicamente valida.
Certo, abbiamo sempre l’annosa questione della localizzazione. Ma, anche qui si tratta di fare chiarezza. Non si capisce perché soluzioni tecnologiche che funzionano nel centro di Copenaghen, città modello per la sostenibilità ecologica a livello internazionale pur avendo un inceneritore nel centro della città, a Vienna, ad Amsterdam, a Brescia o a Milano improvvisamente non sono applicabili in altre aree.
Escludo la possibilità che esistano nicchie biologiche o genetiche che non consentono di convivere con queste opzioni, opzioni che restano marginali se funziona la raccolta differenziata connessa al ciclo del recupero, opzioni che, invece, diventano drammaticamente urgenti se non c’è altro che la raccolta indifferenziata dei rifiuti e il loro accatastamento da qualche parte. Le due cose sono tra loro connesse.
Un’altra tematica che stiamo affrontando, perché anch’essa urgente ed emergente, è quella delle bonifiche dei suoli contaminati. Da questo punto di vista, posso dire che abbiamo una certa convergenza con le regioni e le municipalità che ho consultato sul fatto che i siti di interesse nazionale sono stati perimetrati avendo in mente non tanto l’obiettivo della bonifica, quanto l’obiettivo di ricevere fondi pubblici con la motivazione della bonifica. Lo stesso è avvenuto in molti casi per le emergenze, su cui poi tornerò. Ciò determina difficoltà enormi nella realizzazione pratica delle bonifiche.
Per questo, dobbiamo rapidamente procedere a riperimetrare i siti contaminati in relazione alla effettiva contaminazione e non a una supposta contaminazione. Per questi siti dobbiamo, inoltre, individuare le modalità di bonifica che ne consentano un uso, che non può comunque essere illimitato. Non possiamo immaginare che ogni sito contaminato debba diventare un campo di grano o un parco giochi. Alcuni siti possono essere utilizzati per alcune attività produttive o commerciali oppure semplicemente come terminali portuali, in quanto vi è una certa coesistenza tra il suolo e la falda acquifera.
Se la falda acquifera è contaminata, ma il suolo può essere gestito, bisogna adottare due procedure differenti. Un conto è la depurazione delle acque e un conto è l’uso del suolo. Se l’uso del suolo non determina contaminazione delle acque, potrebbe essere un uso ammissibile. Per esempio, vi sono molte aree industriali contaminate e abbandonate che potrebbero essere sede di insediamenti per impianti di energie rinnovabili, in particolare il fotovoltaico, e che potrebbero rappresentare anche una svolta industriale per zone lasciate da anni in una situazione di non uso a causa della procedura di bonifica aperta, della vertenza sulle responsabilità della bonifica, delle transazioni per il pagamento dei danni presunti eccetera.
Altre zone, invece, potrebbero essere utilizzate per scopi più ampi perché la contaminazione può rientrare all’interno dei limiti di tollerabilità che sono adottati, per esempio, a livello europeo. Non si capisce perché sono riusciti a spostare il porto di Rotterdam da una parte all’altra, a gestire con successo in Gran Bretagna la deindustrializzazione di Manchester o di Birmingham, a risanare in Germania la Ruhr e in Italia non si possa procedere al risanamento di siti importanti e strategici per lo sviluppo urbano, siti bloccati da almeno dieci anni per contenziosi vari attorcigliati, in parte, attorno a una normativa che, da un lato, è molto vincolante per gli obiettivi di risanamento e, dall’altro, lascia troppa discrezionalità.